“Mi rifiuto di obbedire”. Un testo di Jean Giono
Letterature
Il lignaggio gitano sfinisce nel mito, come le antiche liste dei re di Bisanzio, spesso reclutate da scrivani-falena. Pare che provengano dal Pakistan; il ceppo aureo – così il gorgoglio leggendario – si salda intorno a Scipione Boglioni, torinese, figlio di mercanti tessili, che nel 1820 si unisce a Sonia, gitana dalle misteriose origini, “signora delle belve”, molla il Piemonte, s’installa in Francia, dando vita a un serraglio. Sembra una storia scaturita da un romanzo istrionico di Victor Hugo. Il figlio più piccolo di Scipione e Sonia dà avvio all’autentica dinastia: francesizza il cognome in Bouglione, fonda le basi per uno dei più importanti circhi al mondo. Da Sampion Bouglione si diramano i quatre frères Bouglione – Alfred, Joseph, Firmin e Nicolas – che forgiano il carisma circense della famiglia su giochi di equilibrismo, canone cavallerizzo, sapienza nel domare le belve. Cent’anni dopo la fuga dall’Italia dell’apocrifo avo torinese, l’idea geniale: i fratelli Bouglione prendono ispirazione – anche nell’immaginario pubblicitario – dal mitico “Wild West Show” di Buffalo Bill, costruiscono uno spettacolo di trapezisti cow boy, con gorgiera di bestie. È un successo micidiale, tanto che nel 1934 la famiglia Bouglione acquista il Cirque d’Hiver di Parigi, diventandone, da allora, l’autorità suprema.
I Bouglione, di solito, indossano nomi marziali, da epopea omerica: Alexandre, Joseph II, Sampion II… Le donne, in famiglia, hanno – da tradizione – ruolo sovrano.
Figlio di Firmin Bouglione, Alexandre Romanès, nato nel 1951, è il ribelle della famiglia. Genio nei giochi con corde e scale, equilibrista fin da bimbo, abile nel trattare i leoni, Alexandre ha decapitato il cognome-amuleto in ostilità con il successo circense. Ha voluto, per così dire, tornare alle tradizioni, dando voce all’originaria cultura gitana, ritornando dai riflettori alle candele. È un fondamentalista del circo, per così dire. Così, costruisce un circo proprio, consegnandolo in mano alla propria sposa, come un anello: nel 1972 sposa Lydia Dattas, figlia di Jean, celebre organista. È lei, poetessa d’alto talento – Noone è edito nel 1970 per Mercure de France; nel 1996 pubblica La Nuit spirituelle; da allora i suoi libri sono editi da Gallimard –, riconosciuta da Ernst Jünger, a educare alla letteratura Alexandre, semianalfabeta. Lui, nei primi Novanta, costruisce intorno a lei un tendone, il “Cirque Lydie Bouglione”.
Tra gli intimi della coppia, Jean Genet stimola Alexandre alla scrittura, ne intuisce la caratura lirica. Nel 1998 Alexandre Romanès raccoglie detti, aforismi, calembour della tradizione gitana in un libro, Un peuple de promeneurs, che diventa un piccolo caso; nel 2011 lo riprende Gallimard. È Lydie Dattas ad accompagnare il libro con una prefazione: di Alexandre, scrive, ama l’animo “intuitivo”, il verbo che “sconcerta la ragione”, che fa deragliare il linguaggio nell’al di là del senso. Più che altro, Alexandre Romanès è un rabdomante dei particolari, scorge il cielo in un fiore, adotta una lingua edenica, di lampante innocenza. La sua scrittura – d’immediata nudità – colpisce Jean Grosjean, lunare patriarca della letteratura francese, che porta Alexandre in Gallimard e gli fa pubblicare – con sua introduzione – il primo libro in versi, Paroles perdues. È il 2004, ma il domatore di belve non si fa incatenare dalla gabbia lirica: i suoi restano ‘improvvisi’, esercizi lirici redatto nel sibillino idioma della perfetta giovinezza. Alexandre Romanès – sapiente nel trucco e nella parola che crea cerchi di fuoco – dubita della poesia, magia nera, fattucchiera capace di invocare malintesi; cerca, allora, di retrodatarla all’acqua, alla vocale sorgiva. È un dire, il suo, appropriato al vivandiere dei Lotofagi, alla vita nel sole. Poesia più pura ancora dell’altro gitano francese, Jean-Marie Kerwich (di cui AnimaMundi ha pubblicato il suggestivo Vangelo dello zingaro).
Nel 2000, Alexandre si separa da Lydie Dattas, e inaugura un nuovo circo che ha – ovviamente – il nome della sua nuova donna, “Cirque Délia Romanès”, perché il cuore non è che un tendone, con l’asse del mondo in centro e le strisce bianche e rosse. Lydie si unisce al poeta Christian Bobin, che nel 2010 scrive una suggestiva ‘quarta’ a Sur l’épaule de l’ange, secondo libro in versi di Alexandre (duello lirico che si capovolge in arcana cavalleria):
“Leggere Alexandre Romanès è abitare la prova della più grande nudità dello spirito. Soltanto una voce e soprattutto il tono di tale voce: corda di liuto pizzicata nell’osso, il liuto che consuona con la giovinezza. I morti probabilmente parlano con la medesima sorda e irreprensibile dolcezza. Leggerlo è come traversare una lacrima. Tale lacrima che il poeta si rifiuta di versare forgia l’umanità profonda del suo libro. C’è l’acqua ed è tutto, ed è un tutto in cui brilla un barlume di sale. Nell’ultima parte del libro, poi, l’aria. Siamo giunti nella camera delle resurrezioni. Una dolcezza così screanzata, così pura che frantuma i vetri della morte. È il silenzio, ormai, ciò che tiene il libro tra le mani”.
Il circo, di per sé, è poesia – agli ormeggi della parola, i sogni svaniscono. Alexandre Romanès, fondatore di circhi, non indossa la stola del poeta. L’ultimo libro, Le luth noir, è una placca, per le piccole Éditions Lettres Vives; in ‘quarta’ un monito:
“Dovremmo prenderci cura del cuore come ci prendiamo cura di un bel libro che apriamo e nascondiamo con delicatezza”.
Il mito dell’innocenza, se accarezzato a lungo, si volta in tirannia, s’imbestia. Come il leone, il poeta non può stare nel pagliericcio, anela alla savana.
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Perché scrivere? La scrittura non è una tradizione gitana. La poesia è troppo alta per me, inaccessibile, e poi: volevo vivere la vita, non scriverla. La mia ragione non ha considerato il cielo. Lentamente, al ritmato modo delle stagioni che passano, ho riempito un quaderno di scuola. Era un libro pieno di poeti che ammiro. Forse, non potevo sopportare di vederli passare al mio fianco. Ho voluto essere uno di loro.
*
Cielo, dono, Dio
nella lingua zigana
si dicono con
la stessa parola.
*
Fa paura il mondo
e le parole sono logore:
ovunque, regna l’indifferenza.
Quanti violini meritano l’albero?
Quanti poeti sono degni
di impeccabili pagine?
Eppure, vige ancora
un sigillo nei gesti
il grido che stride
dell’uccello del paradiso
sospeso a metà cielo.
*
Non ho nulla da spartire
con chi arretra quando bisogna
avanzare: eppure, mi sono inchinato
alla vita come l’albero senza difese
assediato dal vento.
*
Amare è soffrire.
Prendi la tua donna tra le braccia
ridi con i tuoi figli: chi
per primo seppellirà gli altri?
*
Quando il mio cuore era solo
nella faida del sangue
e la rabbia s’infiammava
inattesa come un temporale
estivo, non avrei mai pensato
che il mio cuore potesse
battere più di ogni cuore.
Quando sarò morto, si rinnoverà
questo cuore ogni volta che
le mie figlie calpesteranno la tomba.
*
Ho spezzato il mondo in due:
da un lato ciò che è poetico
dall’altro ciò che non lo è.
Ai miei occhi esiste solo
il poetico – il non poetico
lo ignoro.
*
Ho cominciato a scrivere poesie.
Un giorno, ne ho scritte cinque.
Ero così fiero
che quando sono andato
a letto ho messo le mie poesie
nella federa del cuscino:
le volevo accanto al viso
come avrebbe fatto un bambino
di cinque anni con il suo
orsacchiotto di peluche.
*
La prima volta
che mi chiamarono signore
restai stupefatto.
Col tempo, mi sono abituato
ma vedo ancora me stesso
come un ragazzino di dieci anni.
*
Gli uomini hanno capito presto
che rimboccarsi le maniche
per un padrone ha esiti terribili.
La messa all’incanto di metà
degli uomini non è fatta solo
per dominare: c’è anche
il desiderio di proteggere
ciò che di più prezioso hanno gli uomini:
le loro donne, i loro figli.
*
Tutte queste parole insignificanti
tutte queste azioni inutili
e così tanta gente e quel brusio
che non ha spazio per l’importante
e tutti questi libri che non hanno
nemmeno una frase che ti commuova.
*
Da dove viene questa gente?
Vogliono tutto agghindati
da frasi intrise d’oro
da imperiali decisioni.
Per me, preferisco
lo sbrindellato ramo
sulla via, le trecce
impeccabili di una ragazza.
*
Raggiungerò i più poveri
che non hanno che il cielo:
anch’io cerco il silenzio
e una notte per chinarmi
e piangere.
*
Gli uomini passano
al loro fianco senza vederle:
modeste, in ginocchio,
nella tenera erba, le rose
si guardano l’un l’altra
stupite, senza capire.
*
Ci meraviglia
l’innocenza dei bambini:
ma se da adulto conservi
per miracolo tale purezza
vieni disprezzato.
*
Meglio vivere
in una discarica
con una donna
che ti ama che vivere
da solo in un palazzo
veneziano.
*
Povera, umana creatura
la tua vita, brandello d’albero
nella bocca di un uccello
pugno di sabbia
gettato lontano.
Se il tuo cuore non è un regno
che senso ha vagare ancora?
Alexandre Romanès