03 Agosto 2020

“Se mi fa vergognare, allora è la storia giusta”. Tre domande ad Alessio Forgione, autore di “Giovanissimi”

Giovanissimi narra un mondo di adolescenti a Napoli e Marocco, il protagonista, ha 14 anni. Combattono con il vuoto e l’assenza. È la storia che ti piaceva raccontare o è anche un riferimento più generale a una generazione?

Io scelgo la storia da raccontare che più m’induce vergogna. Se mi fa vergognare tantissimo allora incomincio a pensarci e a furia di pensarci diventa un’ossessione, e siccome sono un pigro mancato e un ossessivo compiuto non incomincio fino a che non posso fare altrimenti. Dopo, mi vergogno tra me e me, poi mi vergogno un po’ in pubblico e, finito il giro, ricomincio con un’altra vergogna.

Leggere è piacevole, scrivere no. Se allo scrittore piace scrivere sono abbastanza certo che ne verrà fuori un libro brutto e vanitoso e che non si tratta di uno scrittore, in questo caso, ma di un grafomane.

Generazione, generazionale e via dicendo sono parole che, abbinate ai libri, sottolineano l’importanza e l’aggregazione insita in un’opera: è capitato tanto a Giovanissimi quanto a Napoli mon amour, il mio precedente romanzo, e ne sono lieto, molto, ma non era mia intenzione, perché non ci credo a queste cose. O meglio: non credo che possano accadere a prescindere. Piuttosto, l’arte non può che essere individuale: parlare di un soggetto e parlarne così bene e approfonditamente da arrivare nel punto dove risiedono una parte delle personalità di tutti.

C’è una geometria nei rapporti tra i ragazzi, un po’ come nel gioco del calcio che pratica Marocco: Lunno, Gioiello, Fusco, Petrone, Marco, poi Maria Rosaria e Serena. A volte sono i gesti, i silenzi della noia, del caldo, gli scoppi di felicità e i cazzotti delle controversie. Linee che definiscono azioni e reazioni, un’atmosfera che fa respirare l’inquietudine dell’assenza. Gli schemi del gioco non funzionano e il goal che aspetti non arriva?

In Giovanissimi il calcio ha la sola funzione di contestualizzare Marocco, il protagonista, e di renderlo isolato rispetto alla sua vita vera. Perché quando hai un talento, piccolo o grande che sia, quel talento ti rende un po’ unico, ponendoti fuori dal branco, e questo per dire che il calcio è irrilevante in questa storia: c’è all’inizio del romanzo e, pagina dopo pagina, va scomparendo, perché Marocco incontra cose, persone, situazioni che, a differenza dello sport, lo appassionano davvero.

Per me, almeno da quanto ho capito fino ad oggi, la vita non ha schemi: ad una data azione non corrisponde, sempre, la reazione attesa e ogni volta accade quel che accade. Infatti, il libro narra del tentativo di Marocco di vincere l’attesa smettendo di aspettare, il suo lanciarsi nell’amore e verso la vita, e poi la vita che arriva.

Non so, dunque. Io ho trentaquattro anni e non farei un figlio nemmeno se mi pagassero, per le responsabilità, i soldi, l’inquinamento acustico e così via e tanti mie coetanei non li fanno perché pensano di dover trovare prima il lavoro giusto, poi la casa giusta, fino a che tutto è giusto. Io stimo molto quelli che lo fanno e basta, costi quel che costi, occupano un posto e si attaccano sul contatore di qualcun altro. Loro sono dei romantici, non io.

Il padre di Marocco, abbandonato dalla moglie, uomo di poche parole, eloquente sul piano della comunicazione emotiva. Con le difficoltà di essere padre di un adolescente che cresce da solo, compie gesti che riescono a dare una direzione alla vita di Marocco e i due hanno una relazione strana e controversa, fatta di silenzi e condivisione dello stesso vuoto. Ho trovato una sorta di somiglianza tra Lunno, il migliore amico di Marocco, e il padre: entrambi mi sono sembrati la realtà che rompe l’equilibrio dei sogni degli adolescenti. Un po’ come la città in cui è ambientato il romanzo, Napoli, che dà e toglie?

Se il romanzo fosse stato ambientato a Londra nessuno avrebbe pensato ad una città che dà e toglie, perché Londra è Londra, e gli italiani hanno un’idea e non gliela togli: Londra è grattacieli, soldi e invece, a ben vedere, è una città incredibilmente povera, popolata di persone povere povere povere, con una povertà che gli scende fin dentro l’anima e gli compromette prima il linguaggio e dopo i pensieri. Invece la città di Giovanissimi è Napoli, che non è Napoli ma una delle sue periferie, ed è la città a dare e togliere, perché alla parola Napoli dobbiamo abbinare le immagini ricorrenti che abbiamo nella libreria della nostra memoria, che c’hanno infilato con la forza e di proposito e allora Napoli è questo e quello, dà e prende ed io sono davvero stanco delle visioni parziali, limitate e limitanti. Napoli, nonostante la sua collocazione geografica nel mondo, è tanto spaccio a cielo aperto quanto una capitale culturale di questo pianeta. A ben vedere, i soli prodotti culturali italiani che funzionano e vengono esportati provengono da Napoli, o meglio: c’è Napoli dentro, un paesaggio che però saccheggiano qui e non altrove, perché Napoli funziona, ha una storia da raccontare, sì, sempre la stessa, ma almeno ne ha una. E non fa niente che se parli con un americano un po’ così e gli dici che sei italiano lui strabuzza gli occhi e risponde “Pizza… Mare… Sole… Caffè…” e questa, che è l’idea che buona parte del mondo ha dell’Italia, non è l’Italia, ma Napoli, posto che a Napoli ci sono migliaia di cose importanti, e non solo queste sciocchezze. E se fosse la nazione, quindi? Se fosse l’Italia a dare e togliere? Qualcuno ci ha mai provato a pensare a questa cosa? Napoli dà e toglie come qualsiasi altro posto del pianeta: io vengo da Soccavo, dove vivo tutt’ora, ovvero nello stesso quartiere di Marocco, e non sono un disoccupato né spaccio, ma uno scrittore, e non sono più intelligente di quello del palazzone di fronte che vende l’eroina, e siamo cresciuti nello stesso posto e siamo stati obbligati a frequentare le scuole fino alla stessa età. Dunque, qual è l’ente che dà e toglie? Napoli? Siamo sicuri? E se Napoli fosse il problema di e per diversi milioni di italiani, com’è che nessuno viene qui ad aggiustare e risolvere il problema? A me, personalmente, Napoli ha dato tutto: è stata il miglior genitore possibile. Punto.

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La lettura. Le risposte di Alessio Forgione mi hanno (positivamente) colpito, come quando si gioca alla battaglia navale e beccano la tua corazzata: colpita e affondata. Mi sono sentita (positivamente) di fronte a un interlocutore che tra le righe mi ha detto: e su dai, non blaterare troppo, Giovanissimi è così e così. Risposte taglienti e  precise. Nette. Alessio Forgione è un po’ come Ken Loach che ti porta negli interstizi della vita comune (nel caso di Giovanissimi quella di adolescenti che crescono a Soccavo, un quartiere napoletano) e non ti fornisce alcuna risposta e men che meno un rimedio. Alessio Forgione è essenziale, rapido, incisivo e, proprio come Ken Loach, poetico perché senza fronzoli. Nell’intervista Alessio afferma “io scelgo la storia da raccontare che più m’induce vergogna”, Ken Loach ha definito il suo cinema “un rifiuto ragionato di accettare l’inaccettabile”. Ammetto di amare molto Ken Loach e dunque ho amato Giovanissimi. Il romanzo va letto per un semplice motivo che non saprei dire altrimenti: è bellissimo; quando sono arrivata alle ultime pagine ho rallentato la lettura, avrei voluto che durasse, che non finisse. Comprendi il finale e pensi no, magari ne avrà scelto un altro, dio ti prego fa’ che ne abbia scelto un altro, ma sai che non è possibile e il finale arriva ed è quello, implacabile e teso come tutta la narrazione. Poi chiudi il libro e ti si apre il vuoto dell’assenza, fai fatica a infilarti in altre pagine, diverse da quelle che hai appena letto. Hai bisogno di dire a Marocco, il protagonista: dammi la mano, resta ancora qui, non te ne andare.

La citazione.“Ci dissanguiamo costantemente e che tutto sanguini, per favore, per sempre, allora, perché il sangue è quello che c’è prima che la vita cominci. La vita. La vita non è altro che un’inconsapevole attesa. Poi arriva, e fa male”.

L’autore. Alessio Forgione è nato a Napoli nel 1986. Scrive perché ama leggere e ama leggere perché crede che una sola vita non sia abbastanza. Il suo romanzo d’esordio, Napoli mon amour, ha vinto il Premio Berto 2019 e il Premio Intersezioni Italia-Russia; in corso di traduzione in Francia e Russia, verrà portato in scena al Teatro Mercadante di Napoli con la regia di Rosario Sparno.

*In copertina: Alessio Forgione, autore di “Giovanissimi” (l’immagine è tratta da qui)

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