
Dalla lotta armata alla conversione. In memoria di Cesare Cavalleri
Cultura generale
Arrigo Cavallina
Ciò che è certo della quarantena è che finirà: la dottrina numerica – da vagliare con strumenti pitagorici – seduce l’infinito, ma ha un fine, un cerchio d’orizzonte, una propria tonsura. Chi non ne è sfinito, reduce dai quaranta giorni, ha il premio che non si misura in codici terreni. La quarantena vaglia il corpo, lo riduce a flebile enigma, per saggiare lo spirito, fino al cardine del credo, al cardiopalma. Quarant’anni dura l’esodo degli ebrei nel deserto, prima di giungere a Canaan; per “quaranta giorni e quaranta notti, senza mangiar pane né bere acqua” Mosè “rimase con il Signore” (Es 34, 28), sul Sinai; “per quaranta giorni e quaranta notti” (Gen 7, 4) piove acqua di diluvio; “quaranta colpi” (Dt 25, 3) è la dote massima della punizione; “quaranta cubiti” (Ez 41, 2) misura l’ingresso del tempio. Il numero quaranta conchiude il deserto e il diluvio, l’acqua e l’arsura, la punizione e l’area sacra – poiché è sacro il sangue, sacra la colpa, e la fame e l’esodo per mari e per luoghi aridi. Affogare e insabbiare: lo stesso.
Il numero quaranta, che assolve la quarantena, è raffigurato, nell’alfabeto ebraico, dalla lettera mem, che, per inseguimento, significa acqua, benedizione dopo il digiuno, e “come immagine simbolica rappresenta la donna, madre e compagna dell’uomo, e tutto ciò che è fecondo e formatore” (Antoine Fabre-d’Olivet). Ambigua, binaria, un pozzo, “la mem costituisce la forza dell’angelo Metatron: da tale lettere procede la luce e l’influsso celeste sulla terra dei viventi e su ciò che è dentro la terra; dalla forza della mem chiusa proviene la forza delle nuvole, come legge del cielo e della terra per tutto quanto è in essa” (Sefer ha-Temunah).
Nel Vangelo di Marco, al battesimo di Giovanni segue il racconto della quarantena nel deserto, a sancire la continuità tra acqua e sete, una specie di scala di purezze. Il battesimo sigilla, la quarantena prova; è il deserto a giustificare l’acqua: “Egli rimase nel deserto quaranta giorni, tentato da Satana. Era con le fiere e gli angeli lo servivano” (Mc 1, 13). Il Nazareno predilige monti e deserti, raffinato dal digiuno si astiene per sgominare l’assalto del Maligno; sa che tutto, tutta la vita è sequela di agguati, agglutinati dalla solitudine. Non dissimili dalle fiere, gli angeli, creature senza sopracciglia né labbra, dalle dieci ali, simili a enormi pipistrelli, mangiano alle mani del Figlio.
Quasi in ostilità all’uomo, Dio accade nei luoghi inappropriati, improbi: sul cranio dei mari, nei deserti, dove la terra mostra il suo ossario, tra rovi e rocche. A rischio di morte, appare Dio. Ma è blasfemia magnificare i deserti, farne reclusione turistica, seduta spirituale, una qualche risposta: il deserto è il luogo dove il dio si rivela bestia, Satana; dove le tavole della legge si svolgono in vitello d’oro; dove il miracolo si sfascia in miraggio. “Tu rischi molto a gettarti in questo abisso… Lo si indovina facilmente: morirai di sete e di fame, in un genere di vita che non soffre la mediocrità… Il demonio non è un mito, e se è eccessivo vederlo in tutte le tue tentazioni, la tradizione monastica è tuttavia concorde nel trovare in lui uno speciale accanimento verso gli anacoreti. Il deserto era reputato secondo l’evangelo il luogo del suo ritiro, e il monaco azzardando un attacco rischioso decideva di scacciarlo di lì”, scrive l’anonimo in L’ermitage. Spiritualité du desert (1969). Non si va nel deserto per cercare Dio, ma per lottare con il demonio – va percorsa fino al rasoio del disastro, la quarantena. E si è, sempre, inferiori, vinti – “Un anziano disse: ‘Se vivi in solitudine nel deserto, non pensare di fare qualcosa di grande; piuttosto considerati come un cane scacciato dal villaggio e incatenato, perché mordeva e assaliva gli uomini’”, insegna, per paradossi meridiani, uno dei padri del deserto – ma mai nella resa.
Le pitture parietali del Tassili, in Algeria, che mostrano sciami di buoi e di giraffe, uomini con maschere di falco su carri trainati da ghepardi, dicono di quando il deserto era una teologia di prati, l’uomo aveva unghie stellate, che la quarantena è un’ordalia, che dunque è esistito un eden dedito al gioco, alla luce, al rebus di massacri, di cui dio è il residuo, lo scarto. I Terapeuti investigati da Filone danzavano intorno al Lago Mareotide, tra deserti di sale, praticavano la preghiera e il digiuno per fertilizzare i sogni, vetrificandoli in un qualche bagliore di verità. Della quarantena hanno fatto quaternario, un’era: nessuna promessa può snocciolare chi ha il mondo sulle dita. Si pitturavano il corpo, a volte.
Insieme ad Alessandro Dehò, come anacoreti disadatti, distratti, senza sandali né cinta, proseguiamo a costruire un Nuovo Alfabeto del Sacro. Q come Quarantena.
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Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: “Togliete la pietra!”.
Un sepolcro, come per Lazzaro. La quarantena a Bergamo, la prima ondata, il mondo che implode, il rischio che si lega al respiro, l’aria infetta, ogni contatto è pestilenziale, la morte nuda che si prende perfino i gesti consolatori del lutto.
Non permetto a nessuno di negare, non ero tra la gente che cantava dai balconi e tutti lo sapevamo che non sarebbe mai andato tutto bene. La mia quarantena aveva già la forma di un sepolcro, anche prima della morte di chi amavo, la mia città natale era già il mio cimitero, la casa dove ero cresciuto scoloriva per sempre in malinconia, il silenzio che tanto amavo era sangue dalle orecchie.
Mio padre era in terapia intensiva ed io ritornavo in fasce, come Lazzaro. Regredivo, quarantena è regredire: parlavo, pensavo, reagivo come un adolescente, perfino il corpo chiedeva gesti ormai dimenticati. Tornare in fasce, non sentirsi più in grado di reggere il disordine del mondo, tutto era crollato e non sarebbe mai andato tutto bene: ogni forma di potere stava mostrando un’assoluta incapacità a reggere l’urto della realtà, era il definitivo tradimento delle nostre sicurezze.
Se chiami l’ambulanza e non risponde nessuno, se vedi il sistema sanitario collassare, se comprendi che è l’economia dei pochi ad aver importato la morte, se scompaiono come mosche i volti di chi amavi, se nessuno sa più cosa fare, se ognuno dice tutto e anche il suo contrario, se la politica ti sembra quantomeno complice del disastro, se non puoi fare niente, se non riesci neanche a sperare, se la piazza del centro della tua fede non ti è mai sembrata tanto vera proprio nel momento in cui la vedi vuota, se vuoi solo scappare, tornare tra i boschi, a casa tua e non voler vedere più nessuno, se l’unico oracolo che aspetti ha la voce metallica di un medico che non ascolta e che forse nemmeno sa chi è tuo padre anche se sta morendo in qualche reparto del suo ospedale, se tutti sono chiusi in casa come topi, se tutto questo ti sembra un incubo ma non ti sei mai sentito così sveglio, se anche Cristo non può far altro che piangere sulla soglia della tomba, se anche Cristo nella tua tomba non può entrare, allora capisci che la quarantena è lo spazio drammaticamente personale in cui nessuno penetrerà mai. Esigo rispetto per la mia morte, per me la quarantena non è finita e non finirà mai. Che nessuno osi sfiorare il mio dolore.
C’erano mia madre e mio fratello con me, o quello che rimaneva di noi, ma ognuno era solo. Eravamo come legati a un letto, intubati e imploranti e persi. A nessuno permetto di dire una parola su quello che ho vissuto, non ascolto più niente, mi nauseano sia i virologi che i no-vax, maledico i numeri e le statistiche, a me mancano le mani e la voce e il calore del suo sorriso. Credo che non andrò più nemmeno a votare (se un giorno si ripresentasse mai l’occasione) e non per populismo o per pessimismo solo per l’anarchica solitudine che il sistema questa volta non è riuscito a disinnescare. Come se l’impalcatura illusoria fatta di propaganda stavolta non fosse scattata in tempo. Così ho visto, e non posso più costringermi a credere in nessuna ideologia.
Quarantena è stato tornare in fasce, regredire, avere la percezione esatta che nessuno può davvero prendersi cura di te. Nemmeno Dio, non qui, lui rimane oltre il confine del sepolcro e piange e chiama. La mia quarantena finirà con la morte, non prima, con fede credo fermamente che quel giorno, libero da fasciature, saprò davvero cosa significa venire al mondo, e mi lascerete andare, finalmente, e sarà libertà. Qui mai, mai, prostituirò quel termine in nessun corteo. La quarantena ha sancito il legame divino, lui Solo, libera. Fino a quel momento non chiedetemi più di essere complice di nessuna illusione. Non chiedetemi più di dover credere a nessuna umana allucinazione. Vivo in eterna quarantena. E solo la morte reputo tema all’altezza della vita.
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“Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi” (Deuteronomio).
Che poi forse tutta la vita è una quarantena, a pensarci bene, la pandemia ha solo svelato. La vita è un cammino scandito da quaranta anni di esodo. La quarantena è un luogo chiuso, con regole ferree, vocaboli codificati, in cui è impossibile il tradimento se non con la tua “uscita”. Come per la quarantena non si può uscire per strada senza trasgredire un comandamento così da una Chiesa non puoi uscire senza perdere lo status, l’affetto, la stima. Non si può uscire da un partito, non da una ideologia, senza pagare il prezzo del tradimento. Il potere non ha mai permesso di uscire. Solo il grido di Cristo verso il cratere in cui è scivolato Lazzaro osa tanto. Osa tutto.
In fondo siamo sempre cresciuti in un mondo in cui non potevi uscire se non a prezzo della perdita della tua identità. Uscire era un rischio. Per te, per la società, per il gruppo, per la chiesa, per la tribù. Si è sempre pagato con la vita il dissenso, ma con la propria di vita, se volevi essere credibile, non con quella degli altri. Inorridisco davanti a proteste egoistiche. Il martire è raro.
La vita è agra, lo sapeva Luciano Bianciardi, ogni potere istituisce le proprie regole e le proprie quarantene, non basta far saltare il sistema, bisogna svuotarlo da dentro. Svuotandosi.
Come il sepolcro dopo il passaggio del Risorto, a prezzo della vita.
Quarant’anni nel deserto non bastano a trasformare delle tribù in un popolo e la terra rimane sempre promessa perché la realtà sconta sempre una distanza abissale, incolmabile, con il Sogno.
Distanza che rimane fino alla nostra fine, senza morte non c’è libertà e la promessa non si incarna se non dopo, dopo il qui e ora. La terra è nel Cielo. Qui possiamo solo indicarlo l’approdo. In questa quarantena, che è la nostra esodica vita, solo il definitivo Mosè crocifisso dal sistema rimane a svuotare sepolcri e abilitare promesse di regni eterni.
Qui rimane solo di vivere la quarantena della vita legati al letto delle convenzioni ma con una fame d’aria da far esplodere i polmoni, con una disperata preghiera da far aprire il mare chiuso del mondo visibile.
Vivere con fede in quarantena ha un prezzo enorme, tra il cappio e l’apatia si apre lo spiraglio di una speranza dolorosa e limpida, mai del tutto compresa. Una speranza muscolare, fatta di lotta, Giacobbe con l’Angelo, Cristo nel Getsemani. Senza sangue rimane, della fede, una pietosa caricatura.
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Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame.
Quaranta, ancora, deserto. La tentazione non arriva prima, è la quarantena a svelarla. A svelare il bisogno. Viviamo di eterne quarantene chiamati forse solo, ad un certo punto, a riconoscere quale sia la nostra vera fame.
Fino a quando stiamo obbedienti dentro un qualsiasi sistema che ci siamo scelti ci faranno credere che tentazione è uscire, andarsene, disubbidire. Non è così, quella non è tentazione, è libertà. Di cosa abbiamo davvero fame? Questo è l’approdo di una quarantena vissuta con dignità.
Bisogna riconoscerlo il deserto, quello in cui siamo immersi da sempre, quello che ci ostiniamo a negare. Occorre avere il coraggio di strappare le apparenze, decidere di abitare il niente, guardarlo negli occhi. La vita ci ha costretto alla quarantena? Vera tentazione è volerne uscire indenni. Libertà è attraversare il deserto avendo acuito la fame di verità.
Unica possibilità è digiunare, digiunare fino a quando la fame sarà totale, fino ad arrivare sul confine tra vita e morte e poi scegliere. Cosa ci libera davvero: moltiplicare pane o diventare pane? Illudersi in una qualche forma divina di consolazione e buttarci dal pinnacolo del tempio oppure inchiodarci ad una croce e masticare il grido in preghiera e costringere Dio a liberarci?
Diventare fame, affidarci a Lui, che ci schiodi dai nostri letti, che raccolga il nostro ultimo infetto respiro, che lasci dietro di noi un sepolcro vuoto in un reparto d’ospedale, un pigiama piegato come il sudario e poi, magari, apparizioni leggere, evangeliche, lievi, che abbiano il profumo della fede e della speranza.
Alessandro Dehò