Per prima cosa, la legna. L’acqua è abbondante, le ginestre insinuano cuori gialli nel vento, ma il fuoco è il sancta sanctorum. Con una stufa, Alessandro Deho’ riscalda la casa e fa funzionare la cucina. Mi fa vedere il gregge di legna e quanta ne ha consumata in inverno. Un po’ la compra, un po’ la fa, con chi è esperto. Tagliano i castagni, di cui il bosco è fertile: l’uomo ascolta l’albero, ne riconosce l’età. Se l’albero è troppo vigoroso la legna è inutile ai fini umani: deve stare a riposo, invecchiando anche per quattro anni. Alessandro mi spiega come funzionano i giorni della legna: alla fine, dopo aver spartito, trasportato, scaricato, è lavoro d’ascia. Opera mistica, mi dico, autentica: la lama è il battito di ciglia dell’angelo.

I boschi sono fitti, nessuno, tranne i rarissimi abitanti, se ne cura. Falò di caprioli ovunque. Il santuario della Madonna del Monte ti fissa con scontrosa solitudine: il prato antistante è un tango di tracce di cinghiali. Imbocchiamo il sentiero che ci porta un po’ in altura; il cane di Alessandro, Dulcinea – “ma le mie battaglie da don Chisciotte sono belle perché ridicole”, mi dice lui – scalpita. A un certo punto, oltre i monti, s’infila una traccia di mare, sembra un tuono a riposo, s’intuisce Sarzana. Siamo ai confini di tutto: Liguria in fondo, Emilia a sinistra, pare che questa sia zolla toscana, selvaggia, di pellegrini. Gli abitanti, forse, sono quattro; Alessandro, il prete, ha casa dopo una sfilza di case in disuso, sfondate dal tempo, armate di rovi, una piccola, espugnata Cartagine. Ha ricavato una cappella nel sotterraneo di casa: di solito celebra da solo, “a volte si unisce qualcuno, dalla rete; di recente, ho accompagnato un malato terminale, dicendo messa: non è questo quello che devo fare?”.

Alessandro con Dulcinea

Spesso ha gli occhi lucidi: non si dice eremita, non falsifica i nomi, non vuole didascalie e offrire le spalle all’ennesimo frainteso. Alessandro non è un contemplativo. Prete dal 2006, ispirato da lotte ‘sociali’ e istinto letterario, ha avuto una violenta esperienza in parrocchia, che lo ha messo in crisi: dal 2019 sceglie di abitare a Crocetta, nei recessi boschivi di Pontremoli, in Lunigiana, per tentare, dice, la radicale libertà del Vangelo. “A difesa dello status quo”, questo dice dei togati che ha incontrato. “Ormai, è l’istituzione a prevalere sulla libertà: le ‘fazioni’ interne alla Chiesa, i ‘progressisti’, i ‘tradizionalisti’, non fanno che giovare alla conservazione dello status quo. Sono tutte maschere, oltre le quali non intuisco Dio”. Celebra nelle località dei dintorni: Pozzo, Mulazzo; di solito con quattro, cinque, dieci fedeli. Spesso dà ricovero a preti e suore in crisi. “Non ho risposte, questa è la mia risposta. Però, non è nascondendo i problemi che si superano: anzi, così si incancreniscono, diventano marci. Penso ai preti che si innamorano, ai sinodi, ai capitoli e agli incontri diocesani gestiti come consigli di amministrazione. L’istituzione deve morire per dare spazio nuovo al Vangelo”. Nelle parole di Alessandro non c’è rabbia, statuto d’ira, né reprimenda o ramanzina: ma gioia.

Le nuvole sono pachidermiche, dovremmo parlare del libro che abbiamo pubblicato con Aliberti, Nuovo alfabeto del sacro, frutto di una sfida, ma parliamo di Hidden Life, l’ultimo film di Terrence Malick. “Nei monti di fronte c’è Cerreto, dove abita Giovanni Lindo Ferretti”, mi dice Alessandro. I fiori puntano gli occhi finché l’aria non si illividisce, si inchina. Qualcuno, ogni giorno, taglia i garretti taurini del cielo, che crolla.

Alessandro mi fa leggere una frase di Vinicio Capossela: “Nel principio cristiano di prendersi cura del lebbroso non c’è niente di naturale. D’istinto il lebbroso lo scansi, ti fa senso: devi fare un lavoro su di te per accoglierlo. Approssimarsi all’altro richiede cultura”. Gli piacciono le canzoni di Capossela, ma mi fa capire che in questa frase c’è un grosso frainteso, una rimozione. “Il cristianesimo non è prendersi cura del lebbroso, ma diventarlo. Se non lo diventi, fai cultura, che è l’opposto del cristianesimo. Cristo è il lebbroso; il sistema che accoglie i lebbrosi è il lazzaretto, li accompagna a morire”.  

Torno a chiedergli della legna e del mistero del fuoco, gli domando come ha fatto a fare l’orto, a spianare la terra piena di erbe matte, a sistemare la parte meno abitabile della casa. Prendo appunti. Tutto è una veglia. Poi mi accompagna alla macchina e tutto è sempre il primo giorno, l’ultimo.

Che fase sta attraversando, dal tuo particolare punto di osservazione, la Chiesa, oggi?

“Se intendi la Chiesa come istituzione il mio punto di osservazione è davvero insignificante, vorrei risponderti che non lo so dove stia andando la Chiesa e se davvero è in fase di attraversamento oppure è in secca, non lo so. Quello che so è che ho smesso di credere alla Chiesa istituzione come ho smesso di credere a qualsiasi tipo di istituzione. Il Vangelo è destrutturante sempre, non ammette gabbie, strappa i veli, si prende gioco del potere e del contropotere, del progressista come del tradizionalista, è un sepolcro vuoto che rimanda costantemente a un Altrove. L’istituzione è un rapace che trattiene le sue vittime, bisogna colpirla per farle aprire gli artigli: certo è che la libertà è esperienza straniante e pericolosa e faticosa. Per cui ci sarà sempre chi tornerà a costruire istituzioni. Credo che la chiesa istituzione stia tradendo il Vangelo con la sua ossessione di voler entrare a tutti i costi in dialogo con il mondo contemporaneo; il Vangelo invece è stoltezza, follia, il credente o viene deriso o sta seguendo altro; non è dialogante, è profetico. Ma credo anche che la chiesa istituzione che sta tornando a rispolverare la tradizione barocca e preconciliare è semplicemente identica alla chiesa che si definisce progressista: per strade diverse stanno cercando il modo di farsi accettare dal mondo contemporaneo, stanno implorando o pretendendo un posto, il Vangelo invece è roba per gente che non sa dove posare il capo. Materiale incandescente per esiliati.

La Chiesa che vedo io e che mi accoglie e che amo è quella che viene a bussare alla mia porta, quella che conta davvero niente e viene da me che non ho ruolo, che non ho nulla da donare, la chiesa di cui sono contento di fare parte è quella dei poveri cristi, di chi non ha più nulla da perdere, di chi ha smesso di lottare per cambiare il sistema. Il sistema rimane così, rimarrà così, né reazionari né rivoluzionari, solo gente che prova a verificare se Lui sia vivo e davvero presente nelle nostre miserie. La mia Chiesa è quella che mi fa commuovere, è quella che viene a raccontarmi di come il Risorto fecondi le carni e scandalizzi e ustioni e incateni in storie d’amore da cui è quasi impossibile liberarsi”.

Ti chiedo anche: dove dovrebbe andare la Chiesa, verso quali direzioni che ti sembrano non battute, inusuali o semplicemente antiche?

“La Chiesa dovrebbe avere il coraggio di smettere di fingere. Ma se smettesse di fingere ogni cosa crollerebbe. La Chiesa dovrebbe smettere di aiutare i poveri per iniziare a farsi povera, dovrebbe smettere di aiutare gli ammalati per riconoscersi ammalata e poi riconoscersi ladra e prostituta e impresentabile. Non convertita ma carne del peccato. L’unica strada che vedo percorribile per la Chiesa è quella di accettare lo scandalo del male, il marcio della carne, l’essere come ogni uomo sulla terra, smettere di falsificare e finirla di tentare (inutilmente) di imporre morali o dogmi, scollegarsi dalla pretesa di voler difendere una tradizione e accogliere finalmente la propria indegnità e giurare che lì, esattamente lì, proprio lì, lui è vivo e Risorto. Rabdomanti della Sua presenza dove non lo cercheremmo mai. Solo questo”.

Perché allora, alla luce di quello che mi dici, resti tra i rioni della Chiesa cattolica, celebri il rito?

“Rimango nella Chiesa cattolica perché la amo, molto più di quanto credessi, questo lo sto scoprendo ogni giorno. Spero si intuisca anche dalle mie risposte: vivo un profondo legame d’amore anche con la Chiesa istituzione. Un rapporto che da sempre è stato vivo, anche conflittuale. Sono passato dall’innamoramento totale alla crisi, dalla gelosia al ritorno, dalla rabbia all’accettazione, insomma ho e sto sperimentando con e nella chiesa tutte le sfumature di un rapporto d’amore vero.

Rimango nella Chiesa cattolica perché lei mi fa rimanere, ancor più perché mi riconosce e protegge la mia scelta, e questo per me è ciò che rende la Chiesa cattolica romana bellissima: accetta che al suo interno ci sia spazio per tutti, davvero per tutti, anche per me. Questa apertura a volte appare furba e contraddittoria invece io credo sia l’accettazione della pluralità infinita della fantasia dello Spirito. Diffido ormai di chi vuole operare riforme salvando solo per i presunti “giusti”: la croce è amore che sanguina sui santi e sui peccatori. Sentirmi parte di questa chiesa e sentire che accoglie anche il mio modo di essere prete mi permette di avvicinare ogni persona accogliendola per quello che sta vivendo. Mi impegno a rimanere in ascolto di chiunque, puoi essere stato a un santuario in cerca di apparizioni oppure essere reduce da un corso di ebraico biblico qualunque sia la tua strada io ti ringrazio perché mi mostri un riflesso di Lui.

Celebro il rito, nel senso della celebrazione eucaristica, in piccole parrocchie, molto piccole, mi è capitato di celebrare con una o due persone, a volte non c’era nessuno: questo per me è un regalo, perché mi costringe a misurarmi con un modo di condividere la Parola molto povero, semplice. Il mio celebrare con loro non ha grandi pretese se non quelle di non abbandonarli. Sono frazioni che non hanno più negozi, farmacie, bar… trovarsi per celebrare insieme assume un valore di resistenza, siamo ricordati da Qualcuno”.

Cosa significa pregare? 

“Non so cosa significhi pregare – credevo di saperlo. Potrebbe voler dire tacere e affidarsi, arrivare a un grado di silenzio così totale da lasciarsi catturare dalla Sua presenza. Ma potrebbe anche significare gridare, maledirlo per averci legato a sé, implorarlo di lasciarci in pace e poi alla fine cedere e riconoscerlo come nostra condanna. O ancora arrivare a non chiedersi più cosa sia preghiera ed entrare in una relazione così totale da trattare il nostro rapporto con l’Assoluto come la fame, la sete, il respiro. O vivere, semplicemente vivere, rimanendo in ascolto di ogni cosa accettando le fasi diverse della vita. Senza giudicarsi mai. Guardarsi come Cristo guardava ogni uomo”.

Dove ti porta la tua scelta? Voglio dire: stai bene dove stai? In che luogo della tua ricerca spirituale?

“La mia scelta adesso inizia a funzionare perché ho smesso di condurre io le danze. Sto in un posto sufficientemente inutile da proteggermi da me stesso. La mia tentazione sempre viva è quella di “dover servire” a qualcosa o a qualcuno. In verità qui non ho niente e non ho ruolo. Il massimo della libertà ma anche il massimo dello smarrimento, per un timido che ha sempre cercato un posto nel mondo in cui essere riconosciuto è una sfida quasi impossibile. Sono in un luogo dove non si costruisce nulla, non si difende nulla, non si programma nulla, non si rivoluziona niente. Sto e mi lascio fare. O ci provo. Spesso con grande fatica. Nella mia ricerca spirituale ho la percezione che mi sto trovando, sto trovando me stesso, sotto cumuli di capacità e fallimenti, di libri letti e scelte fatte, di pagine scritte e promesse giurate, sto togliendo a mani nude tutte le macerie, mi sto scoprendo poca cosa, davvero poca cosa, però amata. Sto andando a casa e sento che Lui è presente in questo viaggio. A volte mi prende una paura atroce e allora corro a coprirmi, provo a convincermi che sono eremita, o scrittore, o qualsiasi cosa, ma la vita poi smentisce con chirurgica precisione. Piango e ricomincio a scavare”.

Dimmi un brano della Bibbia che proprio ora stai studiando, che ti trafigge, che ti sconfigge.

“Negli ultimi mesi non riesco a schiodarmi dai vangeli della resurrezione. Ho passato anni ai piedi del Calvario, sotto la croce: mi bastava, era un finale eroico e comprensibile, la struttura narrativa del vangelo teneva, era coerente con la mia formazione. Poi però la vita mi ha infranto nel profondo e solo allora ho compreso che il cuore del vangelo stava proprio in quell’infrangersi dell’esperienza della resurrezione in mille volti, in mille esperienze, in mille modi di raccontare ciò che non è narrabile. La Resurrezione, solo l’esperienza del Risorto che diventa appello alla mia vita: tu mi credi Risorto, vivo, qui e ora? Credi che io abiti la tua carne? Credi che io sia deposto in te? Dopo la mangiatoia, dopo il sepolcro, dopo le mani dei due di Emmaus, deposto nella vita tua, che è inospitale, ferita, ambigua? Ecco questo mi domando continuamente. E cerco di lasciarmi scrivere, di lasciarmi trafiggere da questa folle speranza”.

Che significato ha il corpo nel percorso spirituale: dove si colloca, nella rinuncia, nell’addestramento?

“Il corpo è una domanda continua: respira, mangia, beve, guarda, cerca… e proprio mentre elenca questo suo eterno bisogno ecco che scopre la rinuncia, la nostra fame infinita ci inchioda alla rinuncia di una pienezza che non è qui e ora, si prende gioco dell’illusione di una pacificazione che non è per il tempo presente. Il corpo ci ricorda che siamo condannati alla rinuncia perché siamo sempre mancanti. Il corpo è lo spazio dove si combatte una lotta infinita contro l’illusione del riempimento. Non c’è pace qui e ora. Siamo passione, patimento. Esodo. Il corpo è l’unico spazio dove poter misurare la verità: si ammala, invecchia, puzza, limita, ingabbia, muore, se esiste Dio deve incarnarsi, mostrarsi esattamente qui. Altrimenti non è credibile. Io credo che il corpo vada accolto, ascoltato più che addestrato: gli itinerari di perfezione mi fanno paura, mi sembrano luoghi dove l’uomo torni a farsi protagonista, invece accogliere quel che siamo: corpo sessuato, istintivo, osceno, squartato, corpo che può violentare e che lascia escrementi, corpo negato, ferito, ucciso e lì, esattamente lì, sentirsi salvati. Cedere per estenuazione a un amore che non ha schifo del corpo, non ha schifo di me. Senza che io debba rendermi presentabile per accoglierlo. Devo solo esercitarmi a riconoscerlo nel baratro del male”.

Tornando al nostro gioco alfabetico vorrei chiederti di compilare una lettera. L come Liturgia.

“Arrivo da una formazione in cui la liturgia era la spiegazione dei riti, ricordo i giorni passati a voler far comprendere ai bambini (ma anche agli adulti) ogni segno, ogni parte del rito, sono figlio di una cultura che crede che serva comprendere e che la comprensione è possibile solo con la spiegazione. Usavo qualsiasi mezzo dalle opere d’arte proiettate in chiesa alla musica ai film per provare a educare alla liturgia. Ho lottato con fierezza contro quei movimenti (e sono purtroppo tanti) che usano la liturgia come arma politica per riportare le lancette a prima del Concilio Vaticano II solo per paura di mostrarsi evangelicamente insignificanti, usano i paramenti come fossero corazze, spesso per proteggersi da un peccato che vogliono nascondere. Adesso sono a distanza di sicurezza da queste discussioni sinceramente poco interessanti. Adesso sono Altrove e ci rimango, in un Altrove dove sto combattendo per togliere, per liberare, per arrivare il più possibile vicino al gesto puro nella sua luminosità. Liturgia è arrivare a un punto di verità in cui le cose sono quello che devono essere, niente più, come se rispondessero a una chiamata profonda. Il sole è il sole, una nuvola è una nuvola, un bacio è un bacio, il silenzio è silenzio, e ogni cosa parla di Lui. Certo che ho ancora bisogno di una piccola chiesa dove ogni cosa è collocata in maniera tale che mi aiuti a fare esperienza di Lui ma giorno dopo giorno sento che non ho bisogno di un rito da seguire alla perfezione e senza sbagliare perché ad ogni passo, in ogni incontro, dentro ogni attimo io sento che posso fare esperienza di incontro vero con Lui. Liturgia è celebrare il Signore che da Assoluto si fa presente in un sacramento concreto d’amore che abita e salva ogni cosa. E quindi liturgia è andare a celebrare il mondo con lo sguardo di chi vede luce in ogni cosa”.

Gruppo MAGOG