10 Marzo 2021

L’appassionata scrittura di Alessandro Carlini. La storia della Resistenza controcorrente

Finalmente un bel romanzo sulla fine della Seconda Guerra mondiale e la tragedia della ricostruzione non delle case ma delle coscienze degli italiani, Sono rimasto incollato dalla prima pagina all’ultima, leggendo Gli sciacalli di Alessandro Carlini, edito da Newton Compton, scrittore ferrarese che già si era fatto apprezzare con precedenti prove narrative. Già l’incipit è magistrale, evocativo di uno dei più felici incipit del Novecento, quello de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, con quel cadavere che immette nella carne delle due storie narrate dai romanzi, la nascita del Regno d’Italia in Tomasi, qui la guerra civile che restaura l’Italia nel 1945.

La tessitura del romanzo molto ricco di dialoghi drammatici, è figlia di una naturale abilità di reinvenzione della Storia che si avverte nei rimandi a eventi e atmosfere testimoniate dai documenti che Carlini ha studiato. Il romanzo narra le spietate esecuzioni nel ferrarese di una banda di malfattori ex partigiani e repubblichini, che ammazza e ruba a bordo di una 1100 nera sotto lo scudo di una giustizia residua sommaria antifascista. I personaggi del sostituto procuratore, il vero eroe del romanzo, Aldo Marano, è di quelli che difficilmente si dimenticheranno, nella sua passione civile che lo porta a lottare contro i delinquenti protetti dalla politica. Ne emerge un tipo d’uomo che cattura subito il lettore, insieme all’ufficiale dei carabinieri, Achille Ferla.

La felicità di questa scrittura è dovuta alla creazione di un duello classico, lo scontro fra il Male e il Bene, con faticosa e sanguinosa vittoria finale del Bene. Avevamo letto sulla materia i bei libri di Fenoglio, Calvino, Bassani con le sue storie ferraresi, ma devo riconoscere che l’angolazione prospettica di Carlini sa elevare la sua opera a un confronto con quei modelli del tutto all’altezza dei modelli. E così sarà difficile dimenticare dopo quelli del Bene, i personaggi del Male come Tito e Sperandio, del cui ultimo personaggio è sapientemente descritta la crisi di coscienza davanti alla sua giovane vittima, la ventenne Ines, che ne implora la pietà. Ecco forse è questa la parola chiave del romanzo, la pietà. Una pietas che abbraccia vinti e vincitori in un unico abbraccio, come sa fare solo la Letteratura vera, come ricorda Foscolo nella chiusa de “I sepolcri”.

Roberto Pazzi

Gruppo MAGOG