Lev Tolstoj ne era ossessionato. In effetti, la storia di Aleksandr Dobroljubov pare, su scala letteraria, ricalcare quella di Padre Sergij – cioè Stepàn Kasatskij –, uno dei racconti più conturbanti scritti dal conte, così vero da essere pubblicato soltanto postumo, nel 1911. L’uomo che si appresta a una carriera eccezionale nel mondo ma, per ansia di perfezione, orgoglio, eroismo, dal mondo si ritira impegnandosi nella vita ascetica, e muore risolto nell’anonimato, è effettivamente quella di Dobroljubov, nato a Varsavia, figlio di un alto funzionario di Stato, cresciuto a San Pietroburgo, sagace letterato, estroso protagonista del decadentismo russo, sotto assenzio della letteratura francese, Baudelaire, Huysmans, Maeterlinck su tutti.
Calamità del caso: nell’anno in cui Tolstoj raffina Padre Sergij, certo di volerlo pubblicare – ma desisterà –, è il 1898, Aleksandr Dobroljubov molla il mondo, fasullo, dei poeti salottieri, s’invola per la cupa via mistica. Ha poco più di vent’anni e confessa il suo turbamento all’amico Valerij Brjusov, poeta che avrà una fulgida ‘carriera’. Quell’anno, Dobroljubov si libera dei suoi averi, li lascia agli amici, si ritira nel monastero di Soloveckij. La vita monastica, tuttavia, gli pare livida, tarlata di meschinità, e dopo un anno il poeta segue l’esigenza del vagabondaggio, secondo le pie storie del pellegrino russo. Nel 1895 aveva pubblicato il primo libro, Natura naturans, ma ora Dobroljubov mendica, predica l’obiezione di coscienza e la non violenza, critica il laido rigore della classe ecclesiastica. Alcuni inquadrano la scelta di Dobroljubov nell’alveo dei Duchobory, ribelli alla Chiesa ortodossa, perseguitati, iconoclasti, che propugnavano l’uguaglianza e la necessità di liberarsi della proprietà privata, entro i ritmi di un rito cristiano semplice, muto. In realtà, Dobroljubov si crea un rito proprio, una specie di salterio, ripetuto dagli scarsi discepoli per ascendere e frequentare Dio: lacerti di questo lavoro – disorganico, spesso inafferrabile, tra i canti degli sciamani siberiani e i ritmi di Efrem Siro – vengono pubblicati nel 1905 da Brjusov come Dal libro invisibile.
Dobroljubov mendica, vive nei boschi, si allea all’estasi: spesso è messo in arresto per attività sovversive, di solito è ridotto in cliniche psichiatriche, da cui riesce a uscire. Negli anni – di cui si sa poco o nulla – percorre, come il Padre Sergij di Tolstoj, la vita dei contadini più umili, si fa servo dei servi, finché il suo nome non scompare.
Angelo Maria Ripellino gli dedica un cammeo vigoroso, dai carati narrativi:
“Pentito di quella vita peccaminosa, d’improvviso, abbandonò la sua stanza tappezzata di panno nero e si diede a vagabondare come un umile pellegrino. Dai capricci del decadentismo alle stravaganze religiose il passo fu breve. Indossata la ruvida sermjága (gabbano di panno rozzo) dei contadini, si ritirò dapprima nell’estremo Nord a cacciare orsi e a raccogliere canti del popolo, fece il novizio in un monastero, percorse la Russia dalle tundre del Mar Bianco alle steppe meridionali, e infine fondò una sua setta, che perseguiva l’inerzia e il nichilismo mistico”.
Quando Ripellino lavora alla Poesia russa del ’900, pare che Dobroljubov “sia morto nel 1918, durante la guerra civile”; in realtà, dalla scoperta di alcune lettere, sappiamo che il poeta mistico, fondatore di sette, ha continuato a vagare tra la Siberia e il Caucaso, trovando parziale ricovero in Azerbaigian. La corrispondenza con gli amici termina nel 1943; il poeta, inghiottito dal caos della Seconda guerra, dovrebbe essere morto a Ujar, in un giorno non precisato del 1945 – ma forse continua a vagare, come un monito, estremo sodalizio tra poesia e vita, verbo e oltremondo.
In uno dei suoi “Saggi sul simbolismo” – in Italia come Il colore della parola, Guida, 1986 – è Andrej Belyj (1880-1934), poeta di genio, eccentrico mistico del linguaggio, a sistemare i rapporti tra Dobroljubov e Tolstoj:
“Aleksandr Dobroljubov… questa solitaria figura di simbolista russo che ha trionfato sulla nostra tragedia non può non turbarci: anche noi andremo, non possiamo segnare il passo: ma… dove andremo, dove? Lev Tolstoj confessa di non avere la forza di Dobroljubov, proprio per questo non rompe con il passato; proprio per questo le sue ricerche religiose non si risolvono in attività religiosa, ma soltanto in predicazione morale ed in astensione solitaria”.
Non ci salva credere alla tara totalmente russa, secondo cui la poesia esiste in quanto urgenza di gesto, che il verbo ha senso purché si faccia atto. La letteratura russa è sempre una via – iniziatica o rivoluzionaria – è cosa che muove e mette in moto; la direzione resta un enigma: leggersi il finale delle Anime morte di Gogol’ e dei Dodici di Blok. Dobroljubov sul vincastro del verbo spacca le mani e ne fa fonte battesimale.
***
Lamento d’una betulla prima del giorno di Pentecoste
Dopo averla stroncata giusto alla radice,
egli la prese ghignando per la cima.
Dal ceppo la linfa scorreva come una lacrima,
scorreva verso la madre umida terra.
Suscita gioia quando è ancora verde,
ma fa pena vederla abbattuta.
Mi hanno immolata a un nume sconosciuto,
mi hanno recisa all’inizio della lucente primavera,
mi hanno venduta alla grande festa di primavera.
Si allietavano tutti del mio fogliame,
nessuno porse aiuto al mio lamento,
ognuno si avvicinava ghignando,
ognuno diceva parole di scherno.
*
I monti, le colline della terra sono miei fratelli, sorelle mie,
persino i sassi delle strade mi sono amici fedeli,
gli archi del cielo, i raggi sono miei padri,
fratelli amati le bestie selvatiche,
e le tranquille fiumane mie spose promesse, per sempre mie.
Sia pace a voi, sorelle stelline,
stelle chiare, fiori dei cieli.
Fiori tutti dei campi in ghirlande regali,
raggi del sole, araldi gioiosi,
pacifiche pietre silenti agli orli delle strade,
dinanzi a voi, dinanzi a tutti mi prosterno,
da voi tutti sono illuminato,
anche da te, orfano filo d’erba, mio diletto!
traduzione di Angelo Maria Ripellino
*
Dal Libro dell’Invisibile
Non anelo all’adorazione servile:
tutta la nostra vita è la Sua visione
cantare il Suo sacro Nome
camminare davanti a Lui.
Fin dall’infanzia, le poesie sono nate nel mio cuore. Quando ho percorso la via del pentimento ho tenuto la bocca chiusa per molti anni. Una volta aperta, non riuscii a vietare il vero, ho cantato d’inverno, tra le foreste, per strade deserte. Ora ho capito che la mia era soltanto una via laterale, non è la strada principale: eppure, senza queste vie è impossibile uscire dall’angolo.
Tutte queste poesie sono nate armate, nel mio cuore, le ho affisse nella memoria. Per anni ho vissuto una vita di opere e di fede, ho cantato soltanto per i miei fratelli, stretti al vincolo di Dio, e non avrei mai immaginato di stampare i miei canti, di trascriverli – non avrei mai immaginato di tornare a scrivere. Ma ora torno al libro, e vi riconosco la saggezza, la sacralità di tutte le genti. Il libro è una delle armi più miracolose e misteriose: arriva dai bassifondi, che trema, può essere vertiginoso e arrogante.
Risposta nei momenti di dubbio
Ero un bambino, vivevo tra bambini:
mi chiedevo come si gioca.
Una volta ho giocato con uno di loro
il suo nome era Vasya: splendeva
con dolcezza sul letto di morte – e morì.
I bambini fanno rumore e presto
pieno di orrore ho abbandonato i giochi
per molto tempo il pianto tormentò il viso.
Ora siete cresciuti, siete più saggi:
avete letto i libri e imparato a ragionare,
ma non credo alla vostra forza, fratelli,
perché vedo lo stesso gioco:
siete ancora bambini, vi piace saltare.
Tu che hai vegliato sul mio primo giorno
chi ha sussurrato sopra la culla?
Un profeta, un Dio guida la mia vita?
Ho la fede adatta all’incredulità –
mi fido di chi ancora non conosco
non oso nominarlo con questa lingua
adatta all’infedeltà.
*
I credenti mi hanno chiesto:
amico, non avere paura e dicci
perché hai vagato così tanti anni sui monti?
Hai cercato un amico puro
l’amicizia eterna: non avere paura
ci rallegreremo con te
rimarremo svegli durante le notti cupe
accenderemo i fuochi prima dell’alba
che da lontano salta e sfonda le finestre.
Studieremo i libri dei saggi
la conversazione di mezzanotte ci fortificherà.
Cercavo il linguaggio dell’immutabile
per gli schiavi e i re, il ricco e il povero
pari a un abbraccio fulmineo
da Est a Ovest.
L’ho cercato tra la gente, gli animali, le foreste
ho registrato il suono delle onde, udito l’inno delle stelle.
I fiumi pacifici mi hanno risposto:
cercatore, discepolo, esegeta
ti sveleremo il verbo segreto:
gli animali hanno un linguaggio
lo hanno perfino le pietre
ma noi siamo i tuoi fratelli senza nome.
Nei ruscelli e negli uomini
vive la lingua che tutto penetra e tutto comprende
che inebria come una scheggia di immortalità.
Le fiere mi hanno risposto
il popolo si è squadernato
i saggi mi hanno donato sussurri:
Tu cerchi la lingua esatta
da Est a Ovest, che le foreste
sussultino al tuo canto
affinché il canto riconcili le bestie feroci
che la primavera sovrasti la ferocia dell’inverno.
Aleksandr Dobroljubov