17 Aprile 2024

“Non prosperava nulla che fosse bianco”. Un racconto di Alejo Carpentier

Improvvisamente, ci siamo accorti che i libri si vendono – e che nessuno li compra. Evidentemente, nient’altro importa del prossimo Premio Strega. È vero: scrittore “di professione” non è chi professa ad ogni canto la propria scrittura, ma chi guadagna di ciò che scrive. D’altronde, è pur vero che il numero di copie vendute è soltanto uno – non il più importante – dei criteri per valutare l’importanza di un libro.

Prendiamo Alejo Carpentier. Un po’ da tutti i critici – cito, per simpatia, Harold Bloom – è ritenuto “l’inventore del ‘realismo magico’”. Nato a Losanna, Svizzera, il giorno di Santo Stefano del 1904, da padre francese – era architetto – e da madre russa – prof –, morto a Parigi, nell’aprile del 1980, Carpentier è il più geniale innovatore della letteratura sudamericana; per dirla alla Bloom, “fu uno dei padri fondatori della letteratura ispanoamericana, affine all’argentino Borges”. Lo scrittore, cresciuto a Cuba e cubano per ‘credo’, vissuto in Francia – trescando, come ovvio, coi surrealisti: fu amico, in particolare, di Aragon, Eluard, Tristan Tzara – ad Haiti, in Messico e in Venezuela, prima di ottenere alti allori da Fidel, ha inventato, di fatto, il ‘realismo magico’ con un romanzo pubblicato nel 1949, El reino de este mundo, prontamente pubblicato da Longanesi nel 1959, poi ripreso da Einaudi nel 1983. Il romanzo, mirabolante, è ambientato durante il regno haitiano di Henri Christophe (1767-1820), schiavo, soldato, monarca. Per capirci: Gabriel García Márquez, ventitré anni più giovane di Carpentier – e meno dotato letterariamente –, a quell’altezza cronologica non aveva pubblicato nulla di rilievo: Cent’anni di solitudine esce nel 1967, eppure è considerato lui, ‘Gabo’, il principe del cosiddetto ‘realismo magico’ (avventurosamente forgiato in Italia da Massimo Bontempelli, per altro, un pioniere). Miracoli del mercato. Alejo Carpentier è uno scrittore troppo complesso, stratificato, denso per gli standard dell’oggi; in certi casi ricorda Thomas Mann. I libri abissali, non c’è nulla da fare, sono roba per pochi.

Così, nonostante il genio, Alejo Carpentier “è meno conosciuto di Borges, García Márquez, Julio Cortázar… Sono sconcertato che sia così, perché i suoi tre romanzi più importanti hanno pregi letterari almeno pari a Finzioni di Borges” (ancora Bloom, parecchi anni fa). I grandi romanzi di Carpentier, I passi perduti, Il secolo dei lumi (intelligentemente pubblicati da Longanesi, poi ripresi da Sellerio), sono passati in cavalleria, culto esoterico per pochi luminari del romanzo o stralunati alchimisti del verbo. Dovremmo imporli come lettura d’obbligo agli scrittori d’oggi – quelli che vendono – e ai loro editor. Nel 2022 Mimesis ha pubblicato come L’età dell’impazienza una selezione di “Saggi, articoli, interviste” di Carpentier: schizofrenie del presente, dove si trovano le frattaglie e mancano i capolavori.

Ad ogni modo. Un po’ come tutti, Carpentier ha iniziato scrivendo racconti. Un ciclo, Guerra del tempo, è stato edito da Sellerio nel 2019. Un racconto in particolare, Oficio de tinieblas (1944; antologizzato da Besa nel 1998, è qui proposto nella traduzione di Giulia Nardini, finora inedita), raduna tutti i temi chiave di Carpentier. Il contesto storico – il terribile terremoto di Santiago del Cile in pieno Ottocento – si lega alla disciplina del musicologo (tale era Carpentier): il racconto si svolge come un vero e proprio Ufficio delle Tenebre, secondo i crismi della liturgia della Chiesa cattolica. L’antico “officium tenebrarum”, svolto durante il triduo pasquale, prevedeva lo spegnimento di quindici candele: al culmine dell’oscurità, accadeva il ‘terremoto’, lo strepito dei libri e delle mani, ad infiammare di rumori il cupo nero, a far la tonsura al buio. L’ufficio – ormai declinato d’uso – era inghirlandato da alcune musiche particolari. Carpentier adatta i modi di tale arcano ufficio alla sua visione della storia, disincantata, pregna di agnizioni violente. A dire di Bloom “Carpentier, come i cabalisti, era un apocalittico, il che deve aver influenzato nella sua adesione alla rivoluzione di Castro”. In questo racconto – e, in genere, nei libri di Carpentier – la visione ‘politica’ è sublimata nell’epica: il cubano è, per lo più, uno scrittore sapienziale, abile nel minare le ombre, nel mimare le ali dell’angelo, nel miniare il carapace del demiurgo.  

Se in questo mondo la sua opera non ‘funziona’, vuol dire che è davvero avveniristica – la profezia, di norma, attiva i briganti e disturba i puri di cuore, i cattivi lettori.

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***

Ufficio delle tenebre

I

L’anno aveva un brutto aspetto. In pochi se ne accorgevano, ma la città non era la stessa. Non era dimostrato che gli oggetti dipingessero sui pavimenti un equivalente d’ombra. Anzi: le ombre avevano un’evidente tendenza a volersi staccare dalle cose, come se le cose possedessero un’ombra cattiva. Un’improvvisa proliferazione di muschi anneriva i tetti. Sollecitate da una nuova umidità le colonne dei portici si scrostavano durante la notte. Le balaustre dei balconi, invece, si riempivano di crepe e fessure, mentre lavoravano dalla rugiada al sole, tirando fuori i chiodi ammuffiti sopra le ringhiere sverniciate. Qualcosa era cambiato nell’atmosfera. Le colombe dei patii stavano in equilibrio sulle loro zampette rosate senza tubare, come se avessero voglia di mettersi le ali in tasca. L’intonazione della campana maggiore della cattedrale si era abbassata un po’, come se quelle inaspettate piogge di gennaio l’avessero gonfiata, scambiando il bronzo per legno. Il tarlo e la termite non fecero mai viaggi così lunghi. I proclami venivano intonati con falsetti da direttore del coro durante la funzione per i defunti. Nessuno credeva più nella dolcezza dei frutti annacquati e le piante di aguinaldo lasciarono passare del tempo senza arrampicarsi sugli alberi. Non prosperava niente che fosse bianco. I tessuti in raso per i vestiti da sposa si riempivano di funghi in fondo agli armadi e le nuvole aspettavano la notte per andare verso il mare, seguendo le vele di una goletta destinata a morire in un’insenatura solitaria.

Così andavano le cose a Santiago, quando si celebrarono in pompa magna, pettorine e grillotti, i funerali del generale Enna.

II

Con le vernici illuminate dal sole, il contrabbasso andava in fondo alla strada, verso la cattedrale, in equilibrio sulla testa del nero. A volte, Panchón alzava il braccio destro, allungando l’indice verso una corda ruvida, che rispondeva con una nota grave. Ci fu un tempo in cui a Santiago mancavano le corde per il contrabbasso. Il ritmo del Trípili si teneva allora con strisce di pelle di capretto sottili come vetro. Dopo quel periodo, però, “La Intrépida”, era venuta spesso. E quella corda, che produceva suoni alti – perché Panchón era una specie di stupido gigante – era fatta con un buon budello. Con un eccellente budello, alzato di tono a causa del calore. Per questo, la nota riempiva tutta la strada, facendo affacciare le persone alle finestre e drizzare le orecchie ai muli da soma.

Panchón arrivò alla sacrestia. Inclinò il contrabbasso per farlo passare dalla porta stretta. Lo aspettava già un musicista impaziente, mentre dava la resina ai crini dell’archetto. Un indice sapiente interrogò le quattro corde, con uno stridere dei bischeri nella parte alta della tastiera. Panchón, curioso, seguì il contrabbasso che si allontanava saltellando sulla sua unica zampa. Profumava di incenso. La navata era piena di autorità e di ventagli in pizzo. Nella penombra creata dalle tende per il lutto, i risvolti in seta nera si vestivano di riflessi plumbei. Quando il sacerdote si avvicinò al catafalco, l’orchestra intera cominciò a cantare. Intrufolandosi da un finestrone alto, un raggio di sole si fermò sull’ottone dei corni. Al gesto del direttore, i fagotti avvicinarono le ance alle bocche. Un lungo tremulo percorse i timpani. I bassi attaccarono, all’unisono, una litania con inflessioni del Dies Irae. All’improvviso suonarono tutte le sciabole. In un vasto svolazzo di rasi, le mantiglie caddero in avanti.

Panchón uscì dalla cattedrale. Quei funerali sontuosi erano qualcosa di distante e alieno. E poi, era impaziente di bersi i due real de vellón che aveva appena guadagnato. Forse per quello, non si accorse che la sua ombra era rimasta indietro, nella navata, dipinta sulla mattonella con la scritta: Polvere, Ceneri, Nulla. Rimase lì a lungo, fino a quando non terminò la cerimonia e fu avvolta da cilindri. Allora attraversò la piazza ed entrò nella taverna dove Panchón, già ubriaco, la vide comparire senza sorpresa. Si accucciò ai suoi piedi come un segugio. Era l’ombra di un nero. Sottomettersi le veniva naturale.

III

A nessuno piaceva La Sombra di Agüero. A nessuno, perché era una danza triste, difficile da ballare, che infilava note di malinconia nelle serate migliori. Ma guarda un po’ come tutti attaccano, all’improvviso, con La Sombra. Sembrava quasi che la banda degli stivali di vernice non sapesse suonare altro. Succedeva la stessa cosa con la banda della milizia di mulatti. Durante le ritirate, le parate, si sentiva sempre la stessa lamentosa melodia, che girava in tondo come il vecchio cavallo della giostra. Questa ripetizione trasformava La Sombra nella sua ombra, perché l’abitudine di suonarla era talmente noiosa, che il suo tempo si allungava, zoppicante, finendo per avere un non so che di marcia funebre. Adesso, però, la malattia prendeva i pianoforti. Sotto le dita delle signorine, i tasti gialli riempivano d’ombra le casse di risonanza. Ci fu chi si iscrisse a un’accademia musicale, con il solo scopo di imparare a suonare La Sombra. Pure vecchie spinette dimenticate in soffitta, clavicembali e forte-piani distrutti dalle termiti, furono contagiati, per simpatia, dalla maledetta danza. Persino quando nessuno gli si avvicinava, gli strumenti messi da parte cantavano con voci leggermente metalliche, unendo le vibrazioni delle proprie corde alle corde simili. Anche i bicchieri, nelle credenze, cantarono La Sombra; anche i pettini degli orologi che suonano ogni ora; anche i registri tremolanti e salicionali degli organi.

Il parco si era riempito di una grande tristezza. I damerini e le donzelle passeggiavano, sempre più piano, senza avere voglia di parlarsi. Gli oficleidi e i bombardini scandivano, con voci profonde, quell’ombra che ripetevano in coro duecento pianoforti a coda nera, in tutti i quartieri della città. Ci fu un mimo che si imparò La Sombra da cima a fondo. Ma lo trovarono morto, strozzatosi con la zucca amara, quando il suo padrone – il parrucchiere Higinio – si preparava a inviarlo a Isabella II, come prova delle meraviglie ancora presenti in questa terra. 

IV

Arrivò il periodo delle maschere. Fu un carnevale triste, di bambini travestiti, soli nelle strade deserte; di sfilate disperse da un acquazzone; di mezze maschere che nascondevano musi lunghi; di talari del Santo Uffizio. Le donzelle che parteciparono ai balli non trovarono il fidanzato. Le orchestre suonavano svogliate. I musicisti della banda facevano gesti simili a quelli delle figure del teatro meccanico. Le lingue di Menelik erano di cartastraccia e le trombette facevano lo stesso suono del pavone. Ammorbidite da un sudore sgradevole le maschere lasciavano in bocca un sapore di colla di pesce. I coriandoli non erano arrivati in tempo e, nei negozi, i nasi finti si stancavano di aspettare. Un bambino, travestito da angelo, si vide talmente brutto guardandosi allo specchio che si mise a piangere.

Così andavano le cose, quando un tale Burgos, che suonava il rullante nelle orchestre, andò su e giù per le strade del quartiere La Chácara, urlando per chiedere ai vicini di formare uno squadrone. I volontari si riunirono all’angolo della Cruz. Panchón fu il primo ad arrivare, portando la sua ombra. Poi comparvero la Isidra Mineto, La Lucheza, La Yuquita e Juana la Ronca. Tre ragazzini iniziarono la marcia. C’era da cantare qualcosa che non fosse La Sombra. All’improvviso, una strofa volò sopra i tetti:

ay, ay, ay, ¿quién me va a llorar? ¡Ahí va, ahí va, ahí va la Lola, ahí va!

Lo squadrone di Burgos salì verso il centro della città. Nuovi cantori si aggiungevano a ogni imbocco di strada. Il Consigliere comunale, il Sindaco della Confraternita, gli ufficiali delle milizie, il sorvegliante, vari membri della Sociedad Económica de Amigos del País, e persino il vescovo di Santiago, uscirono in balcone per veder passare il corteo. Senza poterlo evitare, il direttore della cattedrale tenne il tempo con il piede destro. Al calare della notte si accese un enorme lampione, che poteva scorgersi dall’alto di Puerto Boniato. Il lampione traballava sul bordo dei tetti, fermandosi nelle taverne. Poi partiva, un’altra volta, girando su sé stessa, come il sole matematico della Máquina Perica, che tanto si usava, quarant’anni fa, come opera di grande spettacolo.

In pochi giorni gli squadroni proliferarono moltiplicandosi in modo inspiegabile. Quando arrivò la festa del Santiago Mamarrachos, più di dieci mascherate andavano in giro per la città, al ritmo della canzone che aveva ucciso La Sombra:

ay, ay, ay, ¿quién me va a llorar? ¡Ahí va, ahí va, ahí va la Lola, ahí va!

V

Il 19 agosto, dopo il Rosario e uno spuntino a base di affettati, ci fu molto movimento sotto i portici del teatro. Il poeta e il musicista, con le cravatte a righe, le finanziere ben chiuse fino al bavero, ricevevano come fossero a casa loro. Arrivavano donzelle vestite di merletti e profumi, accompagnate dalle madri che, togliendo il piede dal predellino, lanciavano la carrozza sugli ammortizzatori dell’altro lato. Con grande apparato di penne, di corpi impazienti, di ferri di cavallo azzurrognoli per le scintille prodotte dai ciottoli, la società di Santiago accorreva alla prova. Nei quaderni da collegiali le attrici di una volta portavano le loro repliche, copiate con la scrittura caratteristica delle alunne delle suore. La giovane che doveva interpretare il ruolo principale ne La entrada en el gran mundo si appropriò del camerino in cui si erano spogliate tante canzonettiste famose, emule di Isabel Gamborino, amanti di possidenti e mogli di attori. C’erano ancora resti di fard di colore acceso in un piatto di porcellana bianca e uno spruzzo di mastice sul fondo di una tazzina. Su una parete campeggiava una chiara inserzione di cuculi, tracciata con un rossetto. Il canapè di seta canaria aveva delle profondità che non si scavano col peso di un solo corpo.

Il suggeritore scivolò nella buca. Si diede inizio alla prova de La entrada en el gran mundo, che sarebbe dovuta andare in scena, il giorno dopo, a beneficio degli Ospedali. Era agosto, ma faceva comunque freddo. Nessuno poté osservare, a causa dell’oscurità in cui era sommersa la platea, che i lampadari a bracci si dondolavano in modo strano, con un’oscillazione di pendoli fuori tempo.

VI

Il 20 agosto, quando appena si intonava l’Agnus Dei della messa delle dieci, le due torri della cattedrale si unirono ad angolo retto, lanciando le campane sopra la croce dell’abside. In un secondo si contrariarono tutte le prospettive della città. Le gronde si urtavano in mezzo alle strade. Prendendo direzioni diverse, le pareti delle case lasciavano i tetti sospesi in aria, prima di investirli con un tremendo vortice di travi rotte. I muli giravano per le strade ripide, avvolti da nubi di carbone, con uno zoccolo incastrato sotto il sottopancia e il posolino che gli frustava la criniera. Le rose del parco spiccarono il volo, cadendo dentro fossati e ruscelli che avevano smarrito l’alveo. E poi, quella instabilità della terra, quel tremore d’anca esasperata da una vespa, quello scompiglio dei marciapiedi, quella chiusura de ciò che è aperto e apertura di ciò che è chiuso. Seppur correndo, lanciando grida, invocando la Nostra Signora della Carità del Cobre, si avvertiva che una strada non aveva uscita più di quanto non l’avesse l’alcova di una donzella o un archivio notarile. Alla terza scossa, anche i mobili presero parte alla danza. Passando sopra ai corrimani, gli armadi si diedero alla fuga, perdendo dai ventri aperti le loro viscere di lenzuola e tovaglia. Tutte le stoviglie esplosero nello stesso momento. La cristalleria si incastrò nelle persiane. Crepe ampie, piene di pettini, cammei, almanacchi e dagherrotipi, dividevano la città in isole, visto che l’acqua delle cisterne, rotte le vere, correva verso il porto.

Quando il sangue cominciò ad allargarsi sui tessuti, rasi e feltri, era tutto finito. Un orologio da taschino, ancora attaccato alla sua catena, ticchettò un minuto scarso in anticipo rispetto agli altri orologi morti. Fu allora che gli uomini, vedendosi ancora in piedi, capirono di aver conosciuto un terremoto. Le mosche, uscite da non si sa dove, volarono raso terra, più numerose.

VII

Le ombre si erano stancate di moltiplicare gli avvertimenti. Molte si accingevano, adesso, ad abbandonare la città. Il mese dopo il terremoto, vari passanti corsero verso la fonte distrutta. Una donna, perfettamente sconosciuta – probabile fosse una forestiera – era caduta ai piedi della statua di Nettuno, con le braccia e le gambe a croce. Il delfino continuava a vomitare un’acqua torbida, che annaffiava piante indesiderabili, nate a riparo dai lutti. La scena si ripeté varie volte durante la giornata, in diversi quartieri della città. All’improvviso, qualcuno crollava in un angolo, con la faccia livida e la cornea bluastra. Mancarono i panettieri quando c’era da infornare e molti cavalli tornarono soli alle case, con un ritmo sinistro negli zoccoli.

Il ballo annunciato si tenne nonostante tutto. Il Consigliere credeva non fosse opportuno aggiungere ulteriori inquietudini alle molte che già avevano rattristato la giornata. Si trattava, inoltre, di riunire di nuovo gli interpreti de La entrada en el gran mundo, per riorganizzare lo spettacolo sospeso a beneficio degli Ospedali. Tutto era cominciato molto bene. Ma, durante la seconda contraddanza, una coppia piroettò sulle mattonelle di marmo del pavimento. Il contrabbassista cadde fuori dal palco, con l’archetto coperto di schiuma, portandosi dietro le corde legate a un piede. Una mano insicura, aggrappandosi a una nappa, provocò un crollo di velluto sopra i vasi cinesi che decoravano la consola del grande salone.

Nonostante il direttore continuasse a battere il tempo de La Sombra, i musicisti misero via gli strumenti e, spegnendo le candele sul bordo dei leggii, sgattaiolarono verso le porte di servizio. Mentre le maschere facevano su e giù per le scale dagli ampi corrimani, gli invitati chiamavano i propri autisti con voci alterate. Quella notte furono in molti ad abbandonare la città per rifugiarsi nelle piantagioni di caffè più vicine. Il velluto delle sedute, però, era pieno di un calore cattivo. In cielo viaggiava una luna verdastra, imprecisa, come velata da un tralcio d’edera.

VIII

Subito gli interpreti de La entrada en el gran mundo entrarono davvero nel Gran Mundo. Gli ospedali venivano collocati in mezzo ai parchi, ed era frequente che un agonizzante si lamentasse di essere stato scomodo, durante la notte, a causa della rapida crescita di una rosa. I cadaveri erano così numerosi che per portarli al cimitero di Santa Ana si utilizzò il carro di un venditore canario. Mentre passava era diventata consuetudine dire, in segno di sfida:

    ¡Ahí va, ahí va, ahí va la Lola, ahí va!

Il colera non aveva diminuito la sete di Panchón. E guarda un po’ che invece di contrabbassi, comincia a portare cadaveri in equilibro sulla sua testa. Per abitudine cercava la corda, ma trovava solo un borborigmo. Ma le ombre degli altri, messe di traverso sopra di lui, lo preoccupavano poco. Vagavano in aria disegnando nuovi scorci dietro ogni angolo. I suoi pochi studi gli avevano dato il potere di decifrare alcune insegne. Le identificava grazie al colore dell’inchiostro da stampa o alla disposizione dei caratteri. Quando si imbatteva in una locandina de La entrada en el gran mundo, salutava con il cadavere. C’era, senza dubbio, una relazione misteriosa ma certa tra questo e quello.

Panchón cominciò a sentirsi meno tranquillo quando anche La Lechuza e Juana la Ronca caddero. Quel giorno si caricò i corpi, cercando di accorciare il cammino. Ma i girasoli che adesso alzavano le loro teste sopra i muri del cimitero finirono per fargli pensare che la sua vita fosse bella. A poco a poco, una canzone si adattò al suo passo:

Y a mí ¿quién me va a llorar? ¡Ahí va, ahí va, ahí va la Lola, ahí va!

A metà ottobre, la Isidra Mineto, la Yuquita, Burgos e tutti quelli dello squadrone giacevano, a pancia in giù, nella fossa comune. Erano meno le ombre nelle strade di Santiago. Una mattina tutto cambiò in città. C’erano giochi per bambini nei cortili. “La Intrépida” entrò nel porto con le vele spiegate. Dai bauli uscirono vestiti bianchi e l’aria si fece più leggera. Le campane spaventarono le ultime aure che aspettavano negli angoli e le lumache ricominciarono a cantare.

Il 20 dicembre ci fu il Te Deum nella cattedrale. L’organista era impegnato in un’improvvisazione quando, d’un tratto, si voltò allarmato verso la piazza. Lì c’era La Lola che strideva lungo tutti gli assi. Panchón giaceva dietro al cocchiere, con i piedi gonfi, a faccia in giù sopra un fascio di sparto. A poco a poco il graduale cambiò forma. Alcuni avvertirono che i bassi non accompagnavano in maniera precisa la frase liturgica. Nel gioco di pedali si insinuava, anche se con un tempo lento, il tema di: Ahí va, ahí va, ahí va la Lola, ahí va. Ma l’officiante, che era un po’ sordo, non riconobbe la strofa. Credette che le mani dell’organista si fossero confuse, enunciando i villancico che forse venivano già provati, data la prossimità del Natale.

Alejo Carpentier

*La traduzione è di Giulia Nardini

*In copertina: Georges de La Tour, Bambino che soffia su un tizzone, 1640

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