23 Giugno 2020

“Quanto si apre davanti ai nostri occhi è un mondo anteriore all’uomo”. Alejo Carpentier, lo scrittore onnipotente

Il più grande scrittore latinoamericano, a essere precisi, non è latinoamericano. Alejo Carpentier nacque a Losanna, il giorno di Santo Stefano del 1904, da padre francese e madre (Lina Valmont) di origine russa: da questa prese l’indole a fare il segugio della psiche, a edificare personaggi troneggianti sull’abisso; dal primo pigliò lo stile, geometrico, impeccabile; dall’altro mondo, dove il padre si trasferì che lui era bambino, per estro esotico, imitò il ritmo, boschivo, da giungla. Morì a Parigi, nel 1980, dov’era per impegni diplomatici, un paio di anni prima era stato onorato con il ‘Cervantes’, non fu trafitto dal Nobel. Incapaci di definire la sua opera, la si dice “barocca” nonostante tra il baldacchino del Bernini e un ideogramma di liane la differenza si enumeri in giaguari. Carpentier preferiva le tenebre della foresta vergine al colonnato di San Pietro, conosceva la Cabbala, che gli serviva per penetrare la stanza da letto dell’assoluto, che alternava al Popol Vuh, la raccolta di miti Maya. A Carpentier, da sempre, preferiscono Gabriel García Márquez e Jorge Luis Borges; è comprensibile, entrambi sono diversamente più ‘semplici’ – quindi più ‘utili’, vendibili. Eppure, al di là delle etichette – pare che sia lui l’En Sof del ‘realismo magico’, il soffio mistico della letteratura latinoamericana – è Carpentier ad aver scritto il libro – i libri, forse – più importante dell’altro lato dell’oceano.

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Il primo libro autenticamente superbo di Carpentier è del 1949, s’intitola Il regno di questa terra, gira intorno alla vicenda di Henri Christophe, il sovrano nero, proclamatosi re di Haiti nel 1811, appare una Paolina Bonaparte di marmorea bellezza e l’esegesi della Storia come cieca violenza, violazione dell’uomo. Il libro si legge in fretta, i capitoli sono brevi e sgargianti: in Italia è pubblico nel 1959 da Longanesi, poi nel 1990 da Einaudi come Il regno di questo mondo. Nel ’49 Carpentier, intelligenza dal vigore sovrumano, aveva già fatto di tutto. Educato dai genitori fino alla maturità, nella loro fattoria, verso l’Avana, viene spedito a Parigi a perfezionarsi: diventa, tra l’altro, un discreto musicista. Negli anni Venti fa il giornalista a Cuba, s’impegna in politica, polemizza con il governo di Alfredo Zayas e poi di Gerardo Machado. Nel 1928 l’amico poeta Robert Desnos lo aiuta a fuggire da Cuba, verso l’Europa – che bella l’epoca in cui i poeti erano vagabondi e fuggiaschi. A Parigi Carpentier frequenta l’esoterismo surrealista, conosce Picasso e De Chirico, è amico di Aragon e Tristan Tzara. In Francia scrive il primo libro, ¡Écue-Yamba-O! (1933; pubblicato in Italia da Lindau), si sposa, sosta fino al 1939, per poi tornare nell’“enorme nebulosa americana”. Non rientra a Cuba: lavora ad Haiti, in Messico, infine a Caracas, Venezuela, tra il 1945 e il 1959.

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I romanzi di Carpentier sono come una fiamma immersa tra due specchi: pensi che si possa vetrificare il fuoco, che il verbo sia un bagliore, si perde in un rispecchiamento infinito, dove il vero è esordio di vastità immonda.

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Nell’esilio venezuelano, Carpentier firma uno dei romanzi più complessi, Il secolo dei lumi, centrato sulla figura di Jean-Baptiste Victor Hugues, militare francese, governatore di Guadalupe nel 1793, che portò la Rivoluzione nell’altro mondo. Il romanzo, intricatissimo – letto a lume di candela rivela l’impressionante natura mistica –, ha per zenit e divinità obliqua, la ghigliottina, “la Macchina”, che appare come raggelante icona della Storia. “Questa notte ho visto la Macchina levarsi nuovamente. Era, a prua, come una porta aperta sul vasto cielo che già ci recava odori di terra attraverso un oceano così quieto, così padrone del suo ritmo, che la nave, lievemente sospinta, sembrava addormentarsi sulla rotta, sospesa tra un passato e un futuro che si spostassero con noi. Fermo il tempo fra la Stella Polare, l’Orsa Maggiore e la Croce del Sud… Ma la Porta-senza-battente s’ergeva ritta a prua, ridotta all’architrave e agli stipiti, con quella sagomatura a spiovente, quel mezzo frontone capovolto, quel triangolo nero, dall’obliquo taglio metallico e freddo, appeso ai montanti”. La grana dello scrittore si capisce subito, la postura pure. Il resto, a voi.

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Il secolo dei lumi esce in Italia la prima volta per Longanesi, nel 1964 – ma cos’era quella collana, ‘La Gaja Scienza’… – viene recuperato da Sellerio nel 1999, con l’ottima traduzione di Angelo Morino, forse lo trovate ancora. Per onorare – diciamo così – i quarant’anni dalla morte di Carpentier, Sellerio ripubblica L’arpa e l’ombra (già Einaudi, 1993), “ultimo libro di Carpentier, apparso un anno prima della morte”, che smitizza il mito di Cristoforo Colombo (in un anno in cui le statue di Colombo vengono imbrattate e decapitate). M’importa poco di santi & idoli, mi occupo di forma: questo non è il migliore dei romanzi di Carpentier. Forse è il più brutto.

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Accade questo. Galvanizzato da Fidel Castro, Alejo Carpentier torna a Cuba nel 1959, somma un sacco di cariche (direttore esecutivo dell’Editorial Nacional de Cuba; consigliere presso l’ambasciata di Cuba a Parigi) e di premi (devoluti, con inchini, al partito comunista cubano), gli si dissecca la vena narrativa. Durante il ventennio di fedeltà al regime di Castro, Carpentier tende a imitare se stesso (mi riferisco a Concerto barocco, Einaudi, 1991; Il ricordo del metodo, Editori riuniti, 1976; L’arpa e l’ombra, appunto), si ripete, in forme involute, infine prevedibili. Ciò non toglie che abbia scritto i romanzi più possenti stampati laggiù.

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Il romanzo più grande di Alejo Carpentier s’intitola I passi perduti, è pubblico nel 1953, in Italia atterra, sempre per Longanesi, nel 1960, con una sontuosa prefazione di Carlo Bo che ne scrive come di “un punto nuovo nella storia letteraria dell’America Latina”. La trama è semplice: un accademico, studioso di musica, s’inoltra nella foresta equatoriale, alla ricerca di strumenti arcaici posseduti dalle civiltà silvestri. L’esito della ricerca è il romanzo, scritto in forma di diario, che tenta il ritmo, il rito, di un vivere diverso, dove le cronache dei re sono instaurate dagli alberi e la costituzione la regola la caccia. In questo libro la Bibbia e le leggende Maya sono convocate in esergo insieme all’Odissea in una specie di apocalissi finale sul destino umano. Carpentier viaggia “verso il cuore dell’America” come Conrad nel Cuore di tenebra africano: qui, però, nel “simbolismo mostruoso di quei paesaggi intatti, di quel mondo non valicato”, nell’“orrore e stupore di mondi sepolti e perduti” (ancora Bo), non c’è redenzione nemmeno nella nostalgia, ma il bivio ineluttabile. ‘Facendo’ la Storia l’uomo sembra essersi falciato, sembra aver scelto l’esilio dalla storia, autentica, regolata dal furore della foresta e da chi la vive. Il romanzo, più volte ristampato, poi riprodotto da Sellerio nel 1995 nella traduzione di Morino, è ora “non disponibile”, che idiozia: più profondo – perché s’inabissa nella piaga latina – di Cent’anni di solitudine, appartiene a quella schiera di tre-quattro libri-talismano, come Pedro Páramo di Juan Rulfo, L’Aleph di Borges, Anaconda di Horacio Quiroga. Più di questi, però, qui si retrocede al principio immobile del mondo.

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“Da due giorni camminiamo sull’intelaiatura del pianeta, dimentichi della Storia e perfino delle oscure migrazioni delle età senza cronaca. Lentamente, sempre risalendo, navigando lungo tratti di torrenti fra una cascata e l’altra, costretti a issare le imbarcazioni al ritmo di cantilene da un gradino a un altro, abbiamo raggiunto la regione su cui si levano i Grandi Tavolati. Spogli d’ogni veste – ammesso che l’abbiano mai avuta – a causa di millenni di piogge, sono Forme di roccia nuda, ridotte alla grandiosa elementarità d’una geometria tellurica. Sono i primi monumenti che si levarono sulla crosta terrestre, quando ancora non c’erano occhi che potessero contemplarli, e la loro stessa vecchiezza, la loro vetustà impari, li ammanta d’una schiacciante maestà. Ce ne sono che sembrano immensi cilindri di bronzo, piramidi tronche, lunghi cristalli di quarzo dritti tra le acque. Ce ne sono che hanno una misteriosa solennità di Porte di Qualcosa – qualcosa di sconosciuto e terribile – cui devono condurre queste gallerie profondamente scavate nei loro fianchi, a cento palmi sopra le nostre teste… Ci vediamo come intrusi, in procinto di essere scacciati da un dominio proibito. Quanto si apre davanti ai nostri occhi è un mondo anteriore all’uomo. Sotto, nei grandi fiumi, sono rimasti i sauri mostruosi, le anaconde, i pesci con tette, i laulau dalla grossa testa, gli squali d’acqua dolce, i gimnoti e le lepidosirene, che recano ancora la loro forma di animali preistorici, eredità di draghi del Terziario. Qui, sebbene qualcosa fugga sotto le felci arborescenti, sebbene l’ape lavori nelle caverne, nulla sembra sapere di esseri viventi… Siamo nel mondo della Genesi, alla fine del Quarto Giorno della Creazione. Se indietreggiassimo un po’ di più, arriveremmo dove ha avuto inizio la terribile solitudine del Creatore – la tristezza siderale dei tempi senza incenso e senza lodi, quando la terra era disordinata e vuota, e le tenebre si posavano sulla superficie dell’abisso”.

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Pur segato col machete di una intelligenza feroce – altro che ‘barocco’ – basta il capoverso che ho ricalcato per anelare alla grandezza di Carpentier. Quel romanzo s’inoltra in ciò che precede l’uomo, ha l’ardore di assalire il dio. Per cosa si scrive se non per questo salto indietro – cioè nella tortura del mistero? (d.b.)

 

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