Adesso che la cenere comincia a riposare – adesso che si sono consumati i coccodrilli che stavano in agguato da qualche mese nei cassetti di tanti giornalisti –, adesso bisogna dire qualcosa su Alberto Arbasino. E si deve farlo cercando di saltare gli elenchi che, nel tentativo di omaggiarlo, l’hanno scimmiottato e, in qualche caso, ridotto ai minimi termini. Arbasino è morto e noi abbiamo ripercorso tutti i rosari dei grandi che Arbasino ha conosciuto e/o frequentato assiduamente, i libri che ha letto, scritto, citato; la musica che ha ascoltato, tutte le battute consegnate alle antologie di citazioni, tutti gli eccetera di qualunque enumerazione. Insomma, tutte le cose che i lettori di Arbasino conoscevano già perfettamente. E chi non lo conosceva, difficilmente si sarà sentito invitato alla lettura da questi elenchi così respingenti, per quanto riassuntivi di una vita evidentemente molto ricca.
La grandezza di Arbasino non era certo lì, quei suoi elenchi erano solo gli effetti a cascata. I più visibili. Ha scritto romanzi e racconti, verissimo, ma non si può dire che sia stato un narratore insuperabile, nemmeno nei Fratelli d’Italia versione ’93, che (per chi scrive) rimane l’opera narrativa principale. Ha stretto la mano a Gadda e Céline: ma non possiamo ridurre quelle strette di mano e quei dialoghi a ciò che è stata la stretta di mano a Sinatra per chi giocava seriamente a Las Vegas.
Di sé, diceva: faccio critica della cultura (anzi, kulturkritik – molto più mitteleuropeo). Pudore vero. Perché il suo sguardo non era certo meno sofisticato e sensibile quando si volgeva al Reale. Fantasmi italiani, Un paese senza e Paesaggi italiani con zombi restano documenti insuperati dei mali della Penisola e delle piccole e grandi vigliaccherie dei suoi abitanti. Altro che gli studi sul familismo amorale, le commissioni parlamentari d’inchiesta e i rapporti della Digos. Noi tutti siamo lì dentro, piaccia o no. C’è l’Italia degli anni Settanta, Ottanta e Novanta – e l’Italia che sta arrivando, tra un anno o un decennio non passerà (non ci stiamo preparando, è questa la non-novità). Continuare a parlare di Arbasino come del cantore del boom dei Sessanta è fargli un torto, vuol dire attribuirgli leggerezza solo per alleggerirlo. Significa amputarlo di arti che hanno elegantemente continuato a menare.
Davvero è stato troppo duro con Moro, come ancora in questi giorni gli è stato tra le righe rinfacciato? Oppure è stato semplicemente rigoroso, così come è stato sempre rigoroso nel distinguere il sano dall’amente (per usare un’espressione di Gadda imparata proprio grazie ad Arbasino)? Quando uno possiede le antenne (e lui le possedeva), quando uno si conquista il proprio Terzo occhio occidentale, allora uno capisce per tempo che a Genova – per forza! – sarebbe arrivato il morto, e lo scrive pure su Repubblica con una settimana di anticipo sull’inevitabile: “Tutti i più impegnati e più ‘correct’ / del momento / si aspettano e si augurano / ALMENO UN MORTO A GENOVA! / (…) / Questo desidera l’acquirente! / Figuratevi allora UN MORTO / – mentre tutta l’Italia guarda – A GENOVA! / …Con questo caldo!… Ma poi, e poi, chissà / quanti, e per quanti anni, lì in gruppo, / e a frotte, a mangiargli / addosso, e a guardarci sopra – / QUEL POVERO MORTO DI GENOVA!”. (QQPubblicato il 14 luglio 2001, Giuliani sarebbe poi morto il 20; il testo è successivamente confluito in Rap!).
Non è questione di Nostradalberto Arbasino: si tratta di saper attraversare gli anni, le persone e il mondo, così da poter poi attingere davvero alle proprie riserve di intuizione e conoscenza, quando occorre. Arbasino ha appreso bene un’importante lezione di Proust: si può andare al ballo della duchessa e alla cena con l’ambasciatore, si può andare in televisione e anche nei più innominabili anfratti, là dove si consumano fatti di insodomitica audacia. E ci si può pure divertire parecchio. E però, mentre era lì, era pure da un’altra parte. Era uno scrittore vero: ovunque fosse, quindi, non si perdeva. Perché è sempre rimasto fedele a sé stesso, alla propria volontà di tradurre in pagina ciò che attraversava. Un attraversamento, questo sì, che è stato ben più avventuroso di quello del tinello della sua consumata casalinga o della barriera doganale di Chiasso.
E quindi Arbasino deve essere onorato – e letto – riconoscendo in lui un campione di qualcosa di raro: un uomo che ha visto il mondo con le lenti della propria unicità. E che ha tradotto questo sguardo unico, differente, in una propria profonda visione delle cose, irriducibile a quella di chiunque altro. Per uno scrittore, la massima conquista possibile. Per i lettori, la massima opportunità di cui approfittare.
Stefano La Notte