23 Aprile 2020

“Il mondo che abitiamo è duro, freddo, cupo, ingiusto e metodico, i suoi governanti sono o imbecilli patetici o veri scellerati”. Albert Caraco, l’esegeta del caos

Leggerlo è come passeggiare in una città di cristallo – un riflesso ha figura di falco e non sai se quel dolore alla schiena è effettivamente il giaguaro che ti sta rivelando a te stesso, squarciandoti. La città di cristallo, in ogni caso, mentre la percorri, diventa fango, palude. Ti inghiotte. La logica della città è così perfetta da ammazzarti.

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“Beati i morti! E tre volte miseri coloro che, in preda alla follia, generano! Beati i casti! Beati gli sterili! Beati anche coloro che preferiscono la lussuria alla fecondità! Oggi gli Onanisti e i Sodomiti sono meno colpevoli dei padri di famiglia, perché i primi distruggeranno se stessi e i secondi distruggeranno il mondo, a forza di moltiplicare bocche inutili”, dice, con una ferocia lucidissima, pari ai primi padri della Chiesa, a un Tertulliano, Albert Caraco, nel suo Breviario del caos, una teologia della notte, anamnesi del nulla, fustigazione di incensi al negativo.

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Con pazienza da compilatore, con la spietata ossessione di chi ossifica l’Aquinate, di chi disossa ogni fede fino allo sconquasso, Albert Caraco non offre sponda al conforto. Non è come Leopardi – o Cioran, semmai – dove indugiare nel niente, evocare il male, provoca piaceri enigmatici fino all’antidoto. Caraco disintegra pregiudizi e illusioni, s’incava nel pozzo del nulla e lo scava fino a vanificare pure quello. Eppure, a volte, sembra non esserci altra parola tanto esatta. “Il mondo che abitiamo è duro, freddo, cupo, ingiusto e metodico, i suoi governanti sono o imbecilli patetici o veri scellerati, nessuno è più all’altezza dei tempi, siamo tutti quanti superati, piccoli e grandi, la legittimità appare inconcepibile e il potere non è tale che di fatto, è un ripiego a cui ci si rassegna. Se si sterminassero da un polo all’altro tutte le classi dominanti, nulla cambierebbe, l’ordine instaurato cinquanta secoli or sono non ne sarebbe minimamente scosso”. E poi: “Il mondo è brutto, lo sarà sempre di più, le foreste cadono sotto la scure, le città dilagano inghiottendo ogni cosa e dappertutto i deserti si espandono, anche i deserti sono opera dell’uomo, la morte della terra è l’ombra che gettano a distanza la città, e ora vi si aggiunge la morte dell’acqua, poi sarà la morte dell’aria, ma il quarto elemento, il fuoco, rimarrà perché gli altri siano vendicati, è per l’opera del fuoco che noi moriremo a nostra volta”.

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Caraco – lo ostenta la sua calligrafia, un ricamo spietato, un richiamo infantile, una specie di gioco di dadi – svagina l’Apocalisse, replica, in cubo di vetro, la lingua dei profeti. Ogni rivelazione, d’altronde, nasce per contrasto, nell’urlo, ispirata alla vendetta – perché un dio si soddisfi qualcuno, sempre, in corpo o in anima, muore. Figlio di ebrei sefarditi che si convertiranno al cattolicesimo a Montevideo, Albert Caraco nasce nell’odierna Istanbul nel 1919, vive a Praga, a Berlino e a Vienna, studia a Parigi, abita in Sud America. Si esprime in francese, tedesco, inglese e spagnolo, fonde lo spirito geometrico della lingua di Francia alla faina visionaria – pare un Lovecraft intento a seminare eresie nei pianeti più disparati. La “Société des lecteurs d’Albert Caraco” ne offre un ritratto corrusco: “Le sue prime opere – principalmente poesie – sono contrassegnate da una sorta di misticismo illuminato. In seguito, il solo aspetto monastico dello scrittore sarà lo stile di vita: scevro dalle contingenze materiali, grazie ai mezzi dei genitori, Caraco è quel vecchio ragazzo che si isola in media sei ore al giorno per scrivere, all’infinito. A poco a poco si allontana dalla Chiesa per aderire allo gnosticismo. Allo stesso tempo, incensa Israele, identificando nella nazione-martire il destino stesso della storia umana. Lungi dal celebrare una sorta di disperazione mondana, di anodina nevrastenia, Albert Caraco è un logico del peggio, un allucinato nel corpo di un mandarino”.

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L’opera di Caraco, assai vasta, è pubblicata da L’Âge d’Homme, in Francia; in Italia è approdata grazie ad Adelphi, che ha pubblicato Breviario del caos e Post mortem, e a Guida, che ha stampato L’uomo di mondo e Supplemento alla Psychopathia sexualis (poi in catalogo ES). Molto è ancora da tradurre. Certo, Caraco ti soffoca, eleva la gola a biglia, la spara in fronte al muro del futuro: “Se c’è un Dio, il caos e la morte figureranno nel novero dei Suoi attributi, se non c’è non cambia nulla, poiché il caos e la morte basteranno a se stessi fino alla consumazione dei secoli”; “Nel momento in cui ognuno ha ragione, tutto è perduto, poiché tutto diventa sia lecito sia possibile, è il momento tragico per eccellenza ed è quello in cui ci troviamo”; “Nessuna spiritualità prevarrà sulla biologia e sull’ecologia, tutti gli spirituali sono sorpassati, non vi è nessuna differenza tra maghi e preti, ci si rende altrettanto spregevoli a consultare gli uni quanto a rispettare gli altri. Le leggi della natura si fanno beffe tanto degli esorcismi quanto delle orazioni”.

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Morì come si era prefisso, Caraco, in obbedienza filiale, “il giorno dopo la morte del padre, il 7 settembre 1971”. Resta il mistero su come abbia effettuato il suicidio. “La versione popolare dice che si sia impiccato; alcune testimonianze intime evocano un gesto spettacolare: si sarebbe segato la carotide, con eloquente spargimento di sangue alle pareti dell’appartamento parigino, al 34 di rue Jean-Giraudoux, che aveva occupato per venticinque anni insieme ai genitori”. In fondo, Caraco fu un figlio amorevole, obbediente fino all’estremo. (d.b.)

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Sono nato a me stesso tra il 1946 e il 1948, poi ho aperto gli occhi sul mondo: fino a quel momento ero cieco.

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In ogni santo puoi scorgere il brigante, il cuore di ogni santità è l’inferno assoluto. Ecco perché i nostri Salvatori non si lamentano: i loro rimedi sono troppo forti per l’uomo comune, che è il burattino dei propri appetiti carnali, non un peccatore.

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La maggior parte degli uomini desidera restare incosciente: la felicità – agli occhi dell’uomo comune – è rapimento e il rapimento sembra una estinzione della consapevolezza, l’oblio della consapevolezza… Questo è in fondo il senso del sesso e della religione, tanto che in futuro oso pensare che sarà loro conveniente unirsi invece di rivaleggiare, come fanno. L’oscenità sarà religiosa, come è stato, per altro, molto tempo fa.

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Le nostre idee morali non sono trascendenti, le nostre idee morali sono storiche e la Storia obbedisce ai cambiamenti degli Aion: percepiamo che stanno svanendo e nessuna autorità può radicare una fede in ciò che il potere esclude, la Sensibilità. Ad ogni Aion si accorda una nuova Sensibilità e ogni nuova Sensibilità si connette a un Aion, il peccato non esiste, vediamo soltanto l’abuso e il peggiore di tutti gli abusi, l’illusione del peccato.

Da “Ma confession”

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La voglia di vivere non è l’arte di vivere, tra le due c’è la volontà di morire, l’eremo noto a eroi, santi, pensatori, artisti, quelli a cui il mio libro è destinato: dove gli uomini di buone maniere e di spirito cortese si incontrano. Essi condividono il disprezzo per la banalità e il gusto per la libera servitù, certamente si oppongono l’un l’altro in base ai propri principi, ma si assomigliano per il contegno delle loro idee; da ciò deriva l’ammirazione che provano l’uno per l’altro.

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La fede non è un valore, è un bisogno; lo Spirito – che non è mai una necessità – è il valore per eccellenza, il comune denominatore di ogni valore, l’elemento che li consolida.

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Non credo nella bontà della natura, l’essere può provare le sue buone origini, ma in alcun modo può rappresentare le specie nel loro insieme, nient’altro che un groviglio di aborti, senza i quali, tuttavia, l’Ordine non potrebbe prevalere sul disordine, questo è il paradosso, già compreso dalla Gnosi.

Ma l’umanità potrebbe essere emendata e forse qualche governo potrebbe migliorarla, oltre i liti del proprio interesse…

No, non credo nella bontà dell’Ordine, perché l’Ordine gode nel reprimere e trova la sua legittimazione nella repressione. Se questa cessasse, l’Ordine dubiterebbe della propria forza, ma ogni ordine trae piacere nello scoprirci colpevoli, la sua unica gioia è la punizione.

Quindi: è peggio l’Ordine o la Natura? Se essi sono come li descrivi non è forse un crimine partorire dei bambini?

Siamo tutti colpevoli di esistere, la Gnosi ammette che la vita è un peso, che la salvezza della specie deriva dalla castità, da cui deriva l’estinzione generale. Gesù – il vero Gesù, non quello promosso dalla Chiesa Cattolica – predica una opinione simile quando, come mostrano alcuni frammenti apocrifi, elogia una donna di nome Salomè perché è sterile e afferma di voler distruggere l’opera delle donne. Opinioni razionali che ogni uomo ragionevole dovrebbe condividere: in ogni caso, nonostante la maggioranza sia irragionevole, i nuovi aborti avranno nascita nella vergogna, nella miseria, nella malattia e nella sporcizia. Dovremmo quindi educare questi aborti in modo che da adulti perpetuino l’assurdo destino della specie.

Da “Le Galant Homme”

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La biologia è il nostro destino e poiché ci manca lo spirito e la sua energia non possiamo attenderci nulla dallo spirito, dalla tradizione, dal sacrificio. La fine dell’ideologia non disintegra il razzismo, le differenze fisiche annientano il più solido degli argomenti, non c’è spazio per la ragione, dove l’uomo è visto nel suo insieme. Se l’uomo è immerso nella sua apparenza fisica, non c’è alcuna libertà, nessuno spirito ci salva dagli sguardi alieni e noi non diventiamo mai ciò che probabilmente siamo ma soltanto ciò che sembriamo, nonostante il nostro io più profondo. Presto non ci sarà modo di mitigare il fanatismo dilagante e la fede razziale… Siamo diventati inutili, non abbiamo alcun ruolo se non apparire in favore dell’approvazione altrui.

Da “Semainier de l’incertitude”

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Non nascondo la mia professione di pessimismo e sono partigiano dichiarato della reazione.

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Il lettore istruito sa che mentre mi legge ascolta una fuga in quattro voci.

Da “Journal d’une année”

*In copertina: il “Magnum Chaos” nella Basilica di Santa Maria Maggiore, a Bergamo, intarsiato nel 1523 su disegno di Lorenzo Lotto

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