24 Settembre 2019

“Il matrimonio è un rimedio, e non si ama il rimedio, soprattutto quando si ama un poco la malattia”. Alain è il pensatore che ha innovato la filosofia francese del ’900 dall’antro di casa sua, scrivendo di usignoli e di infelici. Un tempo lo pubblicava Einaudi, ora è in oblio: lo rileggiamo?

Tutto partì da Sergio Solmi, autore di quel libro elusivo e bellissimo, segreto, Meditazione sullo scorpione. Solmi è autore dal rigore benedettino: al di là della fascinazione per la fantascienza, prima che divenisse moda (colta nell’antologia memorabile, costruita con Carlo Fruttero nel 1959, Le meraviglie del possibile), scrive di pochi, soprattutto di Leopardi, si occupa di letteratura francese, per lo più Rimbaud e Montaigne. Autore pudico, fermo, mi sorprende, allora, il suo impegno nel trasportare in Italia l’opera filosofica di Alain. Sul fatidico Alain, Solmi scrive uno studio nel 1930; nel 1960, per Einaudi, traduce Cento e uno ragionamenti – poi riprodotti nel 1975 nella ‘NUE’ – una selezione dei fatidici propos raccolti dalla ‘Pléiade’ Gallimard in due vasti tomi. Con balda ignoranza mi dico: ma chi cavolo è Alain?

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Alain è il nome d’arte di Émile-Auguste Chartier, un nome che già dice della leggiadria del pensiero filosofico, scanzonato, figliato dal vento socratico (parlo di ciò che vedo, m’impegno nell’ora). Nato nel 1868, in un piccolo borgo, in Normandia, “di modesta famiglia piccolo-borghese”, per la vita fu insegnante di liceo, e lì, nell’orda quotidiana, comincia ad appuntare i propos, “brevi riflessioni o divagazioni su tutto e su nulla, un’impressione, un paesaggio, un fatto di cronaca” (Solmi). Da pacifista, fa la Grande Guerra, cinquantenne, risultando ferito e rabbioso – in pensione, si getta nel pensiero, facendo della sua casa a Le Vésinet, una specie di alcova filosofica. Ebbe in effetti allievi illustri, da Simone Weil a Raymond Aron a Julien Gracq. La sua opera – incapsulata da Gallimard – ha avuto un’influenza inesausta. Nel 1947, quando scrive le Lettres à Sergio Solmi sur la philosophie de Kant, è un uomo smarrito dalla Seconda guerra. Col senno di poi, non gli fu perdonato il pavido pacifismo che non gli impedì di scrivere, da pensatore tagliato fuori dal bel mondo delle lettere, che “spero nella vittoria tedesca, dacché il generale de Gaulle non deve prevalere”, la collaborazione alla ‘NFR’ diretta da Drieu La Rochelle, la patina di antisemitismo dei diari estremi (qui, su France Culture, una vasta articolessa). La morte dell’allievo prediletto, lo scrittore Jean Prévost, per mano nazista, nel 1944, lo aveva dilaniato. Morì in casa sua, il 2 giugno del 1951. “Con la morte di Alain, sopraggiunta a poca distanza da quella dei suoi coetanei Gide e Valéry, e precedente a sua volta di pochi anni quella dell’altro suo coetaneo Claudel, veniva a spegnersi una delle quattro grandi voci della cultura francese”, scrive Solmi. Già… ma chi si ricorda ora di Alain, scomparso dai piani editoriali vigenti?

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Julien Gracq, superbo scrittore, così parla del suo maestro. “Mi sono chiesto più di una volta perché Alain, di cui fui allievo per due anni, due anni di attenzione quasi religiosa, di una ammirazione tale da imitarne il modo di scrivere e di guardare, abbia lasciato in me, infine, poche tracce. Memorabile sveglia, fu un uomo con poco futuro. Quando lasciammo il suo insegnamento, nel 1930, un brutale cambio di scala disarmò il suo pensiero, il mondo era diventato frenetico e violento al cospetto del suo umanesimo temperato… mi liberai di lui con reverenza e gratitudine… Ha raccontato il declino della democrazia rurale, ha detto la fine di un mondo più che annunciarne uno nuovo”.

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Alain è un figlio di Montaigne, un vero francese, cartesiano, con il quotidiano in una mano e qualche illuminazione rimbaudiana nel cranio. Non ha la furia di Cioran né l’abisso di Pascal, ma è un coltivatore di pupille, uno che insegna il Nord allo sguardo. “Dato addio alla filosofia dei sistemi e delle formule, il pensatore si metterà in cammino, intento a rintracciare nell’esperienza quotidiana del mondo, della realtà naturale, delle passioni, delle idee, dei mestieri e dei costumi, degli umani vizi e virtù, il proprio indispensabile alimento, le radici per una visione unitaria della vita, ossia per una saggezza… La posizione di Alain può rappresentare acutamente, fino al paradosso, una delle estreme punte dell’umanesimo moderno, interpretata secondo la curvatura del classico razionalismo ed empirismo francese” (Solmi).

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Alain fa filosofia ‘contadina’, di uno che azzera i cieli tornando alla terra: poche pagine, eventuali agnizioni, buon senso. “Appena un uomo si mette a cercare la felicità, è condannato a non trovarla: non c’è nulla di misterioso in questo. La felicità non è come un oggetto in vetrina, che potete scegliere, pagare e portar via”; “Il matrimonio è un rimedio, e non si ama il rimedio, soprattutto quando si ama un poco la malattia”; “I morti non sono morti, è chiaro, dal momento che noi viviamo. I morti pensano, parlano, agiscono: possono consigliare, volere, approvare, biasimare: tutto questo è vero, ma bisogna saperlo intendere. Tutto ciò è in noi, ben vivo dentro di noi”; “L’egoista fallisce il suo destino per un errore di giudizio. Non vuol muovere un dito se non scorge un bel piacere da afferrare, ma in un tale calcolo restano dimenticati i veri piaceri, che esigono fatica”.

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Alain è un filosofo da autobus, da sale d’attesa, di chi ha poco tempo per ardore di concetti. Scrive bene, con rapinosa lucidità: mi sembra più adatto oggi che ieri. Oggi in troppi intortano il semplice e intorbidano le acque con fiotti d’idiozia. Lo ripubblichiamo? (d.b.)

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Riti funebri

La vita è un lavoro che bisogna fare in piedi. Star seduti, sdraiati, in ginocchio non giova a nulla. Sono pensieri che mi venivano in mente accompagnando un funerale di villaggio. Nubi pesanti velavano il sole di tratto in tratto; dopo la strada serpeggiante a mezza costa, si arrivò, attraverso il sentiero lastricato e la scala di pietra, alla pace di una vecchia chiesa tutta bianca, dalle ogive semplici e perfette. Nelle forme esatte, nel canto liturgico, nei particolari della cerimonia si scorgevano la misura e la decenza convenienti a creature che sanno d’essere mortali. Abbiamo da portare questo peso che ci grava le spalle, e non possiamo far altro che camminare tenendocelo addosso, dal momento che non siamo degli asini per rotolarci al suolo. Così, quando il basto ci ferisce, la natura, che muore senza saperlo, non basta a richiamarci al nostro mestiere d’uomini, ed occorrono altre cose, cose umane, come l’ogiva e i discorsi liturgici: cose umane ben piantate in terra, uguali dalle due parti, e procedenti secondo una regola. Il prete vuol farci inchinare, ma la cerimonia ci rialza.

Tutti questi riti sono perfetti, ed esattamente alla nostra misura. Non ci vedo nulla di sovrumano: a trovarli sono bastati gli uomini. Era necessaria questa marcia regolata, con questi canti, queste forme, queste testimonianze, questa civiltà studiata per disciplinare la disperazione.

Chi tra questa folla, se lo volesse, non avrebbe mille buone ragioni per gettarsi al suolo e mordere la terra? Chi non avrebbe, come certi mercenari, le sue cicatrici da mostrare? Ma come ci sono abiti per nascondere l’animale, così la cerimonia veste i dolori secondo si deve. La religione, veritiera in tutto il resto, mente soltanto in quello che dice. Se ci fosse un Dio in cielo, come non mettersi a gridare per il terrore o per l’ira? C’è tuttavia una ragione comune, figlia della terra al pari di noi, ma che della terra è il frutto più bello e il vero Dio, se ne vogliamo proprio uno, secondo la quale il coraggio si piega assieme al corpo, e per cui ognuno sa che deve rialzarsi e guardare lontano, al di là delle proprie pene. Non coricati, e neppure in ginocchio. La vita è un lavoro che bisogna fare in piedi.

Alain

Gruppo MAGOG