L’espressione pirandelliana “uno, nessuno e centomila”, indubbiamente abusata nel dibattito pubblico, forse ha infine trovato un candidato ideale per una sua applicazione feconda. Stiamo parlando di Alain de Benoist. Già, perché de Benoist è uno – un intellettuale organico, coerente, ben riconoscibile –, nessuno – un “sacerdote laico” di una visione del mondo anticonformista, combattuta con lo stile sprezzante del service inutile (Henry de Montherlant) – e centomila – giornalista, filosofo, saggista, redattore, critico cinematografico, esperto di geopolitica, metapolitica, antropologia, sociologia, storia delle religioni, teoria economica.
A questa sua pluralità di anime è dedicato Memoria viva. Un cammino intellettuale, un dialogo con François Bousquet tradotto da Andrea Scarabelli per le Edizioni Bietti, versione italiana di un saggio pubblicato in Francia nel 2012 che costituisce un’autobiografia spirituale dell’autore francese. Il libro, proprio come l’autore, è versatile, plurale e stratificato.
Si rivolge, ci sembra, ad almeno quattro categorie di lettori: i teorici, interessati alla ricca e dottissima congerie di riflessioni sugli argomenti più disparati – dalla metapolitica alla questione del nichilismo, dalla metafisica all’antropologia, dalla bioetica alla sociologia, solo per citarne alcune – che in de Benoist assurgono a coerente Weltanschauung, visione del mondo olistica e onnicomprensiva; gli storici, interpellati dal punto di vista di de Benoist su oltre mezzo secolo di vicende storiche, politiche e sociali a cui il nostro prese parte attiva – fondamentali le considerazioni sulla Guerra di Algeria e sul Sessantotto – e attratti dalla storia internazionale del GRECE e della Nuova Destra; gli esteti, che alla mediocrità del sistema dell’arte contemporanea contrappongono un pantheon letterario e artistico dalla sensibilità eccentrica e inattuale, sulla cui elaborazione de Benoist offre piste e intuizioni sorprendenti; infine gli “psicologi”, in senso nietzschiano, per i quali l’animo umano è territorio di scontro fra potenze, conformazioni, divinità (segnatamente, apollineo e dionisiaco), e che anche in de Benoist, per citare il filosofo di Röcken, possono riconoscere una esemplare «pluralità di forze che sono ordinate secondo una gerarchia, sicché ci sono elementi che comandano», un ricco caos creativo e danzante, paradossalmente ordinato. Questi ultimi saranno travolti, nella lettura, da un de Benoist intimo e contraddittorio, nel senso fecondo del termine.
Precisa in merito l’autore francese: «Molti amano solo le persone tutte d’un pezzo, integerrime. Io penso, al contrario, che la nostra ricchezza sia costituita dai nostri impulsi contraddittori. In me ci sono sempre due esseri: uno che fa le cose e l’altro che lo osserva, lo interpella e lo critica. A muovermi è questa disputatio interiore. Tengo molto a questa Ichspaltung, a questa scissione interiore che ci fa sentire costantemente, come diceva Goethe parlando di se stesso, due cuori battere nello stesso petto. (…) Sono un moderno antimoderno, che è innamorato del reale e detesta la realtà circostante. La logica, legata alla nozione di coerenza dottrinaria, resta sempre al centro delle mie preoccupazioni, ma so anche che l’uomo è profondamente irrazionale».
Tale dualismo esistenziale si fa armamentario filosofico e modalità superna di conciliazione dei contrari: «Idee di sinistra e valori di destra, pensiero romantico e stile classico, razionalismo e gusto per il fantastico, idealismo e realismo, eccetera. Una delle divinità che più mi sono care – prosegue de Benoist – è Giano, il dio dai due volti, uno rivolto verso il passato, l’altro verso il futuro. Il dio delle porte, colui che apre e chiude. Forse anche per questo il mio simbolo preferito è sempre stato quello, antico, del labirinto. Ogni esistenza è ai miei occhi labirintica, ogni vita attiva è guidata da una cerca. All’origine, il mito del labirinto implica un lungo cammino da compiere per far riapparire la primavera, l’aurora dell’anno. Quest’aurora dorme tutto l’inverno, nel cuore della notte. Ogni nuova aurora è la promessa di un nuovo inizio».
Il Neuer Anfang, il nuovo, denso cominciamento cui de Benoist guarda sulla scorta della lezione di Martin Heidegger, è così una dottrina, una prospettiva progettuale di carattere filosofico e metapolitico, ma è ancor prima uno sguardo sulle cose e uno stile nel rapportarvisi, con la fiduciosa testimonianza che «l’avvenire non è mai chiuso». Lo rileva Stenio Solinas nell’introduzione al saggio: «Così come nel Settecento gli enciclopedisti prepararono la strada che rendeva impraticabile quella dell’Ancien Régime e apriva il cammino all’Illuminismo, de Benoist è un enciclopedista che fra il XX e il XXI secolo lavora per un nuovo momento storico, un nuovo Nomos della Terra».
Per comprendere e soppesare tale orientamento, la scoperta della vita intellettuale e dell’intellettualità vitale di de Benoist è fondamentale. Al di là di certe parole d’ordine, che aiutano a identificare i punti cardine della prospettiva del nostro – in politica: “oltre la destra e la sinistra”, per un comunitarismo dall’assetto imperiale (ma non imperialista); in filosofia: lungo la linea rivoluzionario-conservatrice (Nietzsche, Heidegger, Jünger) verso la tematizzazione di un universale fondato sul differenzialismo, pertanto antiuniversalista; in economia: un socialismo non marxista e pluralista – è infatti la vita stessa dell’autore, nel suo fluire per immagini, a parlare chiaro. E non per la sua semplicità o aproblematicità, quanto precisamente per la rivendicazione di una libertà intellettuale capace di fondare, al di là delle debolezze e aporie che ogni biografia nutre e porta con sé e in sé, un posizionamento etico ed estetico d’avanguardia, dalle forme plurali ma dallo stile unitario. La curiositas, l’insaziabile passione per la conoscenza, qualità ulissiaca per eccellenza, istituisce l’arcipelago degli incontri e delle topologie biografiche di de Benoist, ne marca gli snodi essenziali, insegue un altro cammino possibile, al di fuori dei dualismi, delle contrapposizioni dogmatiche, degli –ismi, delle certezze farisaiche.
In de Benoist, diversamente da altri pensatori eccentrici, non vi è spazio nemmeno per l’irrazionalismo vitalista, il misticismo estremo e la rinuncia al pensiero dialettico: il logos in de Benoist è misurato, calibrato, raffinato (à la française), ma anche capace di prendere se stesso in contropiede, percorrendo la propria genealogia e rendendola oggetto di critica. Esso rimane, a suo avviso, il nostro asso nella manica: anche quando critica riduzionismo, razionalismo, biologismo, soluzionismo tecnico, de Benoist è convinto che qualsiasi posizionamento, anche il più anticonfomista, sia pur sempre un paradigma ermeneutico e categoriale. Dal gioco delle interpretazioni non si esce – se non sprofondando nel silenzio mistico, che non è parte dell’“equazione personale” dell’autore francese.
Quello di de Benoist è piuttosto un paradigma di approssimazione, avvicinamento (nel senso degli jüngeriani Annäherungen) all’Origine mediante un’attività di pensiero radicale, che per de Benoist significa: «Cercare sempre una comprensione più profonda, risalendo alla radice (radix) – alle cose stesse (zur Sache selbst, diceva Heidegger parlando di Husserl) – per poi trarne le conseguenze. Essere radicali non è solo rifiutare i compromessi, ma anche interessarsi alle cause lontane più che agli effetti immediati, dedurre da una qualsivoglia posizione le conclusioni logiche che ne derivano (…), cercare di conoscere la natura di una tematica stabilendone la genealogia, vale a dire risalendo alle sue origini. Dare alle cose la dimensione di profondità costitutiva del pensiero». Quanto un atteggiamento siffatto risulti antitetico alla “cultura del piagnisteo” che avvelena i consessi culturali della contemporaneità è banale anche solo menzionarlo.
Premoderno, antimoderno, oltremoderno: comunque lo si preferisca intendere, l’itinerario di de Benoist sfida il tempo del «disincanto del mondo» (Max Weber) a guardare fisso il proprio cuore di tenebra e, a partire da questo, a valicarne i confini.
Ma, come anticipato, non tutto è teoria. La maturità del serio intellettuale reca in sé – Memoria viva offre in merito molte piste – gli sprazzi di un’«estate invincibile» (Riccardo Paradisi): una giovinezza metafisica, e non necessariamente biografica, che si esprime nella bellezza del rifiuto del dato bruto e del senso comune, tende per istinto foggiare sogni, grandi narrazioni, nuovi miti. Alain bambino, così ricorda l’autore, osservava stupito una bancarella di un ambulante, il quale, per attirare l’attenzione dei fanciulli, proclamava l’imminente apparizione di un topo verde. Di fronte al disincanto della madre, cui la boutade apparì sin da subito una mera trovata pubblicitaria, Alain protestava: «Ma sì, il topo verde verrà!».
Oggi Alain ha settantasette anni, ma l’attesa del miracolo, che all’epoca non si manifestò, non è per lui conclusa, in alcun modo. Tutta la sua attività culturale, editoriale, metapolitica, non è che da intendersi come la preparazione di quell’avvento, che la modestia e arguzia francese gli hanno fatto esprimere letterariamente nella curiosa immagine del colorato roditore, e che autori epocali come Ernst Jünger e Martin Heidegger hanno eternato nelle rispettive immagini del Grande Incontro e dell’Evento (Ereignis). Forse il topo verde non apparirà mai, ma, per dirla ancora con Heidegger, «Wir kennen nicht Ziele / und sind nur ein Gang» («Non conosciamo alcuna meta / siamo soltanto un cammino»).
Luca Siniscalco