Il contesto. Copertina della Literary Review, raffinata rivista english dove scrivono grandi firme (da Martin Amis a John Banville e Julian Barnes). Copertina, appunto. Donald Trump. La caricatura di Donald Trump, vestito all’elisabettiana, blusa nera e collo alto, bianco, che legge un libro. Il libro è il nuovo libro di Stephen Greenblatt, storico della letteratura piuttosto noto anche da noi, che s’intitola Tyrant: Shakespeare on Power. Greenblatt s’è messo a studiare i tiranni architettati da Shakespeare, da Riccardo III a Macbeth, da Tito Andronico a Giulio Cesare. Come mai? Perché, specifica l’articolista, John Stubbs, “la politica attuale ci ha convinto che Shakespeare ha scritto il libro fondamentale sulla tirannia. Se siamo sconcertati, suggerisce l’autore, dall’odioso estremismo che aumenta un po’ ovunque e dalle forze sinistre che hanno preso il governo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dovremmo tenere sul comodino le opere complete del Bardo”. In sostanza, lo storico della letteratura suppone che Shakespeare ci mostri l’ascesa e il precipizio del tiranno per pia morale. Tipo: guarda cosa succede se non fai il bravo, ti tagliano il collo. Balle stragonfie coi controfiocchi. Shakespeare era affascinato dal tiranno, intende studiare la tracotanza, l’eccesso, il delirio del potere, l’assoluta solitudine. Per questo, sono le figure sinistre, malvagie di Shakespeare che ci restano in testa. Il resto, è contorno, il fiero pasto del feroce. La vita, ecco, va vissuta fino all’estrema dissipazione – in questo, tra agire e contemplare non c’è differenza, tra usare lo scettro o la penna non c’è distanza. Ora. La tirannia, che pare già una sciabolata di mascelle fin dal nome, non è istituto del tutto da buttar via. In origine – prima del regno del blabla, quello dei filosofi – i Greci andavano matti per i tiranni. Poi, ammattirono. “La tirannide sorge in mezzo alle lotte politico-sociali che accompagnano o seguono la caduta delle aristocrazie succedute alle antiche monarchie legittime, e, attraverso i governi timocratici, cioè fondati sul consenso delle classi più abbienti, preparano i posteriori governi più o meno democratici. Qui i tiranni sono in generale nobili che si mettono a capo delle classi più umili oppresse dai nobili o dai più ricchi e col loro appoggio rovesciano le oligarchie” (Gaetano De Sanctis). Il tiranno è espressione del popolo che ne ha piene le palle delle ruberie dei politici. Poi, certo. La soluzione diventa avvelenata. Sono i rischi della rivolta, della ribalta. Intendetemi. La democrazia è un pastrocchio, le idee mancano, gli uomini pure. Il popolo non è sovrano ma è ‘chiamato alle urne’ come si è richiamati dal cesso a far pipì, l’esercizio è biologico e fastidioso. D’altronde, un po’ tutti sappiamo che quel gesto – mettere una X su un candidato X – vale quel che vale, pressoché nulla, pare di scacciar zanzare. Meglio del tango selvaggio tra Di Maio & Salvini, con il resto del Parlamento che resta a guardare il casqué, preferisco l’uomo solo al comando. Non per forza l’uomo ‘forte’. Mi basta anche debole, deboluccio, pallido, fragile. Non m’importa un militare che ce l’ha duro; mi basta un frate castrato. Uno che non ci metta la faccia – meglio non vederli più in tivù i politici al prezzemolo, d’altronde uno degli attributi del potere è l’invisibilità, c’è ma non lo vedi, come lo Spirito santo – ma la testa. Mi basta. I pregi dell’istituto tirannico sono palesi. Rischiatutto. Un tizio è responsabile. Non demanda ad altri, non fa il delatore. E se sbaglia, il popolo lo dilania. Il tiranno, anche se ha pagato eserciti e giudici, resta solo. Infallibilmente solo. E questa solitudine è una garanzia di buon governo. (d.b.)