Corroborante violenza, quella di Abū al-ʿAlāʾ al-Ma’arrī: le sue quartine assalgono le nostre convinzioni, fanno razzia dei fumi ‘spirituali’, della ricerca ‘interiore’ e di simili calibrate menzogne. Magnetizzato dal dubbio, Al-Ma’arri vaga con il coltello nella notte della ragione: sradica le pie certezze, decapita gli idoli. Nato in Siria, a Maʿarrat al-Nuʿmān nel dicembre del 973, da famiglia insigne, fu sfregiato a quattro anni dal vaiolo: da allora, visse pressoché cieco. “Abito una prigionia gemella”, dirà, ai discepoli che, tempo dopo, lo inseguiranno per assorbirne gli insegnamenti: intendeva la cella della cecità, la gabbia dell’isolamento autoimposto.
Quasi subito al-Ma’arri dimostra doti eccezionali: compone versi d’occasione, secondo il genio dell’allusione e della nitidezza retorica. Studiò ad Aleppo e a Baghdad; divenne leggenda la sua memoria: sapeva ripetere qualsiasi brano gli venisse letto. Diventò custode dei più reconditi recessi dell’etica coranica – per contestarla. Le rare effigi lo mostrano inturbantato, con la barba lunga, da filosofo, gli occhi muti, lo sguardo severo: pare tenere sulle spalle il creato e il suo perpetuo urlo. Secondo la leggenda, volle farsi incidere, a mo’ di epitaffio, questo distico: “Ecco il crimine compiuto da mio padre/ che io mi sono astenuto dal perpetuare”.
Eccola, la stoffa di al-Ma’arri: mentre i poeti coevi cinguettavano di roseti lui parlava di vermi, alle metafore esorbitanti preferiva un linguaggio crudo, a tratti cupo; alla simbologia d’amore prediligeva scontornare il cuore fino all’oscuro rettilario; ai teologi rimproverava di essere partorienti di chiacchiere; agli asceti di essere dei meri fanatici. La cecità – crisma divino – gli permetteva di vedere ciò che gli altri si ostinavano a nascondere, di dire ciò che nessuno osava. I suoi strali contro il fantasioso credo di musulmani, cristiani, ebrei e zoroastriani lo ha reso, nei secoli, un’icona dell’ateismo. Eppure, dicendolo – come è stato definito – il “Lucrezio dell’islam” si incorre in errore. Al-Ma’arri stigmatizza il legalismo, l’obbedienza come tempio, il testo divinizzato, il credo fattosi dio, ovvero vitello d’oro. Per raggiungere l’Uno bisogna screditare i molti, aprire un sentiero nella selva delle interpretazioni, riconoscere il punto in cui il miracolo diverge dal miraggio.
Al-Ma’arri amava la contraddizione, nessuno poteva sostenere un contraddittorio con lui. Le sue scelte di vita, sempre estreme, sono consecutive all’opera poetica: dopo aver saggiato il ‘mondo’ – Baghdad, Tripoli, Antiochia – al-Ma’arri ritornò nel paese natio, scegliendo la via della reclusione. Rifiutò di mettere in commercio le proprie opere, di fare il pensatore a libro paga, di insegnare nelle insigni accademie – conosce la filosofia ellenistica, la visione cristiana, i più importanti concetti giunti dall’India. Offrì sapienza a chi gliene chiedeva, accontentandosi del quasi nulla. Alcune sentenze, dimostrano un austero scetticismo:
“Rendi lieve la via. La terra non è che un sentiero di morti
levita, cammina in aria, non calpestare le spoglie di Dio”.
In un noto, notevole poemetto Al-Ma’arri professa di non cibarsi di carne né dei prodotti degli animali: “Non mangiare il pesce che fluttua sulle acque/ non desiderare per cibo la carne delle bestie macellate/ né il bianco latte delle mamme destinato ai figli e non alle notabili/ non affliggere gli ignari uccelli rubandogli le uova…/ risparmia il miele prodotto con fatica dalle api…/ Tutte queste cose le evito ormai da anni”.
Dura è la via di Al-Ma’arri, a perpendicolo con la santità – alcuni videro in lui, invece, un bandito, un eresiarca. Morì nel 1057, in primavera; la casa arricchita di giovani, audaci studenti. Non si sposò mai: pensava a perfezionarsi, certo che affollare il mondo di umani significasse moltiplicare la sofferenza.
I suoi libri hanno titolo esemplari: L’epistola del perdono – tradotto nel 2011 per Einaudi da Martino Diez – è un testo di vertiginoso sarcasmo che narra un folle “viaggio nell’aldilà”; alcuni vi hanno visto un – improbabile – precedente della Divina commedia. Le poesie di al-Ma’arri sono radunate in due raccolte: La scintilla dell’acciarino (scritta intorno al 1020), appare nel XVII secolo in Europa, presso l’Università di Leida; le Luzūmiyyāt sono il capolavoro di al-Ma’arri. In poesie brevi, quartine di rapace perfezione, il sapiente mostra la sua visione del mondo: è un poeta che si muove con la lama corta, agisce a stilettate, mira ai fianchi. Ciò che ne stilla è sangue albino, succo che dilata la conoscenza. Il dolore che ne segue – sapere è soffrire – va dato per ovvio: gli ignoranti si beano di guerra e di festa, banchetto al veleno. Il titolo di queste poesie di esterrefatta lucidità suona, in italiano, come La necessità del superfluo o, meglio, La necessità dell’innecessario. Leggerle è un nobile ingresso nelle ripide della tortuosa via: chi saprà andare fino in fondo?
***
Al-Ma’arri
(Siria, 973 – 1058)
Abbandona il culto, fuggi dall’inutile
prece, dalle pecore sacrificali
perché il Destino reca la ciotola del sonno
o la brocca del dolore – e ne berrai.
*
Gli occhi scarlatti del Mattino
sono preda della Notte, che ringhia
lungo i vicoli: si sfidano nel nostro mondo
per divorarci e costringerci alla faida.
*
Vani i sogni di mirabili imprese
vaneggi di vagabondare per inesplorati lidi
invano volterai le spalle a questo mondo di volti
se altrimenti è stato per te prescritto.
*
Amici cari, a me è riservato
lo splendore del traffico celeste:
tu fai la corte a Saturno, io sono
il servo di Uno più potente di lui.
*
Chiacchiera con il vento che scorre
scortando un carico di amore e dolore:
il grano dorato che esulta, l’ultimo
sacro sussurro della rosa.
*
Nello splendore, l’aria alimenta le ali:
ci porteranno dell’Amico – impennati
in sapienza: chi naviga tra i cieli
sa raggiungere i re degli inferi.
*
Morte non si somma sulla spada: lei
resterà, né elmo né scudo la segnano.
Non siamo che il rozzo alfabeto di Dio
prima di eliminarci, sillaberà il nostro nome.
*
Nella silente stiva della rosa
si muove un verme. Egli si guarda
intorno, scoperto un parente gli dice:
Mi pare che questo mondo sia bellissimo.
*
Un mondo delizioso, rispose il verme
gemello, finché tutti siamo prigionieri
pieni di pietà. Se sarà così, concordo:
anche a me questa prigione piace.
*
Se le cose svaniscono nel loro
mezzogiorno, sono parte dell’eterno
disegno: ciò che l’usignolo sogna
ciò che il loto mormora alla luna.
*
Abbassa le torce e preparati
a passare oltre le note di festa:
il Vecchio Silenzio è acquattato
nell’erba dove le solenni ombre si radunano.
*
L’oscuro sorge dall’oscuro. Le passioni
di un uomo tramano sul transitorio.
In verità, il figlio della saggezza artiglia
il mondo dei sogni, dimentica l’Arabia.
*
Lascia i funerali di ieri
decreto spietato di ieri
rifiuta la catena del lutto
e pianta un cipresso sulla via.
*
Destriero della mia anima! Da ragazzi
eravamo uniti, come frecce nella notte –
ora l’ultima luce si leva
ovunque guardo non è che un velo.
*
Adesso pare che questa religione prevalga:
tra un po’ da un’altra sarà sostituita.
Gli uomini non osano vivere con gli uomini
privi dell’ennesima favola.
*
Non sarò più reietto tra oscuri
marosi, un relitto attratto dai fari:
sono stato ammesso nel regno
dell’oscurità che avvolge il mondo.