Una fotografia scattata nel 1926 ne indica l’indole: decisamente magro, i capelli spettinati, le mani nobili; indossa il kimono e le pantofole, ha le gambe accavallate, siede su un divano decorato, fissa l’osservatore, abbozzando un sorriso, enigmatico, profondo. Ha occhi da insonni, lo sguardo serpentino, serotino, del dio. Yasunari Kawabata, il grande scrittore giapponese premio Nobel nel 1968 lo ricorda, letteralmente, mentre saltella, felice, tra orde di cadaveri. Era il 1923, settembre, il grande terremoto aveva devastato Tokyo, “mi propose di andare a vedere i cadaveri nello stagno di Yoshiwara… procedeva gaio e veloce come un puledro fra le rovine degli incendi, lungo le strade con i pali e i fili della luce crollati e combusti, tra i terremotati stanchi e stremati e sporchi come profughi”. Ryunosuke Akutagawa (1892-1927), il grande maestro della letteratura nipponica, il pioniere di forme letteraria fino ad allora inaudite, è tutto lì: una creatura fantomatica, fragile, uno spettro, che danza sopra il disastro, ne ride, guarda i morti e crede, forse, di farli risorgere in un racconto. Quando Kawabata scrive il suo ricordo, nel 1929, Akutagawa – a cui è intitolato il più noto e importante tra i premi letterari giapponesi – è morto da due anni, si è ammazzato. “Forse proprio per aver contemplato insieme a lui l’aspetto più orribile della morte, io posso, più di chi ne è ignaro, intuire la bellezza della sua morte”, scrive. C’è qualcosa di religioso in questo concetto: è la morte a farci fratelli, assistere alla morte altrui ci eleva a sopravvissuti, degni, gravi.
Nato a Tokyo, da famiglia discendente da samurai, Akutagawa cresce con gli zii, pressoché orfano, nutrendosi di libri. “Mia madre era pazza. Non ho mai provato per lei la familiarità che si prova per una madre. Se ne stava sempre seduta in solitudine nella casa di suo padre, a Shiba, con i capelli avvolti attorno a un pettine, a fumare da un lungo bocchino. Era minuta di volto e di corporatura. Un volto cinereo, senza traccia di vitalità”, scrive, in un racconto di glaciale bellezza, Il registro dei morti. Aveva il gusto spietato per il dettaglio, una scrittura che procede per frasi fatali, come colpi di spada, esatti, privi di tentennamento. Fu un genio precoce; credeva di aver ereditato la pazzia dalla madre, chiusa in una casa di cura quando aveva due anni, morta poco dopo. Fu riconosciuto da Natsume Soseki, studiò Maupassant, Strindberg, Dostoevskij, restando discepolo della più alta tradizione giapponese: scriveva con la delizia di una chiacchiera dietro i paraventi, con l’accuratezza del rito. Nel 1915 pubblicò Rashomon, che insieme a quell’altro racconto, Nel bosco, costituisce la base di uno dei film più celebri di Akira Kurosawa, Leone d’oro a Venezia nel 1951 e Oscar come Miglior film straniero. Benché lo ritenesse inconciliabile con la cultura giapponese, era affascinato dal cristianesimo, a cui dedicò alcuni testi – il più celebre è Gesù di Nanchino. L’idea del dio martirizzato e crocefisso, del sacrificio supremo, inutile, infine, ai fini della cronaca mondana, della storia, lo seduceva. Per un po’, si pensò il Messia della letteratura nipponica.
Nel 1924 ingaggiò una lunga diatriba retorica contro gli intellettuali del proprio tempo: Akutagawa combatteva la moda dell’“arte proletaria”, dacché “un’ideologia, in quanto tale, non ha futuro come forma d’arte”. Pensava alla letteratura come una disciplina: la rarefazione dei suoi ultimi testi, come incisi sull’acqua, comporta una più estrema potenza, raffinata nel gesto. “Bisogna abbattere ogni confine se si desidera una lingua totale. L’impossibilità di trasmettere emozioni solo perché non si è capaci di ricorrere a suoni e colori costituisce un esempio di questo restare ingabbiati nei confini”. Riteneva la trama una zavorra, un mero pretesto: alcuni racconti, ultimi, estremi, Vita di uno stolto, Domande e risposte nel buio, sono costituiti da brevissimi sketch, didascalie visionarie, frasi nel lampante delirio, e distruggono le sorti progressive del romanzo, della prosa come analisi di un intreccio più che di un momento, di un incubo. In Vita di uno stolto, testo pieno di agnizioni – nel 2016 Einaudi ha pubblicato Rashomon e altri racconti, io cito da La ruota dentata e altri racconti, reiteratamente ristampato da Se – si legge: “Aveva trentacinque anni e camminava in una pineta illuminata dal sole primaverile. Ricordava parole scritte due o tre anni prima: ‘Purtroppo agli Dei non è concesso come noi di por fine alla vita…’”. Il racconto, in 51 lasse, termina con il narratore che a trentacinque anni si ammazza con il Veronal, “Viveva ormai come una cicala nell’oscurità. Appoggiandosi come a un bastone a una sottile spada dalla lama spezzata”. Ryunosuke Akutagawa, nato il primo di marzo, si ammazza d’estate, “nel luglio del 1927 a soli trentacinque anni, ingerendo una dose letale di Veronal” (Cristina Ceci, che ha curato per Marsilio i Racconti fantastici di Akutagawa).
Tra i racconti di Akutagawa, Yukio Mishima preferiva Il fazzoletto. “Alcuni racconti di Akutagawa rimarranno come splendidi classici della letteratura giapponese… Il fazzoletto può essere considerato la quintessenza della sua opera”. La scelta sembra ovvia. Nel racconto c’è un professore dell’Università di Tokyo che legge Strindberg, c’è la morte di Guglielmo I di Germania, ma soprattutto la compostezza di una donna che racconta al professore la fine del figlio, suo allievo, tragica. Soltanto dal modo in cui stringe il fazzoletto si comprende lo strazio di quella madre, “espressione del bushidō delle donne giapponesi”, lo definirà il professore. “Detesto i deboli. Forse perché ho un fisico gracile…”: così Mishima comincia il saggio su Akutagawa, scritto nel 1954. Mishima nasce due anni prima della morte di Akutagawa, e cresce nell’eco di quel clamoroso suicidio.
“Non mi piace chi si suicida. Per porre fine alla propria vita è necessaria una sorta di coraggiosa determinazione: il suicidio è un atto che io stesso ho progettato senza tuttavia osare compierlo, a causa, ritengo, della mia viltà: eppure non posso nutrire alcuna stima per i letterati che si suicidano. Un samurai segue la sua peculiare etica e squarciarsi il ventre o darsi la morte in altro modo è un atto in essa contemplato, alla stregua di una strategia bellica, di un assalto o di una solitaria carica a cavallo. Dunque, ammetto il suicidio di un guerriero, ma non di un letterato”.
Così scrive Mishima, molti anni prima di uccidersi, in formule profetiche. In ogni caso, Akutagawa è la matrice letteraria ed esistenziale di Mishima e di Kawabata, i due grandi scrittori giapponesi del secolo. Il primo si ammazza dopo essersi fatto samurai nel 1970; il secondo due anni dopo, nel 1972, con il gas.
Akutagawa amava flirtare con la morte: d’altronde, questo significa scrivere. Il suo ultimo racconto, Memorandum per un vecchio amico, è il testamento e il suggello della vita di Akutagawa, dove finzione e verità s’intrecciano in un nodo velenoso, verticale, morboso. Il racconto, in prima persona, dice, con ironica fermezza, il desidero del narratore di uccidersi. “Nessun aspirante suicida ha prima d’ora descritto fedelmente le proprie condizioni psichiche. Forse per orgoglio o per difetto di interesse per la propria psiche”. Come un Oscar Wilde con la katana, Akutagawa passa in rassegna diversi modi di suicidio (“Se mi fossi sfracellato gettandomi da un edificio avrei indubbiamente offerto uno squallido spettacolo. Per queste ragioni ho deciso di avvelenarmi”), denuncia i propri maestri (il pensatore ‘terribile’ Philipp Mainländer, ad esempio), percorre con svagata risolutezza i meandri del morire. Akutagawa realizza il suo racconto, uccidendosi, poco dopo averlo scritto.
“Non sono certo di riuscire un giorno ad avere il coraggio di suicidarmi. So soltanto che la natura non mi è mai apparsa così bella. Riderai di questa contraddizione tra amore per la bellezza della natura e desiderio di morte. Ma la natura mi appare così splendida proprio perché sono gli estremi sguardi che le rivolgo”.
Ecco, il nocciolo dell’opera: uno scrittore scrive soltanto dall’apice degli “estremi sguardi”, come se vedesse ogni cosa nel suo splendore, prima che sparisca – ma allo splendore ha accesso solo chi muore. Al di là di questo, è la consueta perizia dei mercanti. Lo scrittore scrive come se stesse per morire, continuamente.