Ammetto. Ho sognato Giuseppe Conte al governo. Solo che al Governo è finito il Giuseppe Conte sbagliato. Quello che sognavo io è Giuseppe Conte il poeta, ben più noto di Giuseppe Conte attuale Primo ministro, il poeta de L’oceano e il ragazzo e dei Canti d’Oriente e d’Occidente, il poeta politicamente impegnato – a 14 anni si iscrive al Partito Liberale, “così, solo per andare controcorrente, perché tutti i miei amici erano comunisti o fascisti”; più avanti rifiuterà la candidatura al Senato con i Verdi – impegnato, soprattutto, a dare un valore ‘sociale’ alla poesia, a difendere il valore della tradizione e il nitore della bellezza. Beh, io m’immaginavo un fatale discorso di Giuseppe Conte, il poeta, in Parlamento, a zittirli tutti, citando Dante, Ugo Foscolo, Goethe, Rumi e Hafiz, che abitano la sua costellazione poetica. Invece. C’è capitato il Giuseppe Conte sbagliato, il premier con il microchip nel cervello: una volta dice qualcosa di buono per il M5S, un’altra per la Lega. Ieri ero in macchina. Radio sintonizzata sul blabla del neo-premier. Discorso d’insediamento. Dissociate da un’idea forte, fortissima di vita e di morte, ogni parola suona splendidamente banale. Ad ogni modo. A un certo punto. Il premier – il Giuseppe Conte sbagliato – dice la parolina magica. “Dostoevskij”. Sobbalzo sulla seggiola. Fermo la macchina. Quattro frecce. La feccia degli automobilisti anonimi strombazza. In particolare, il Primo ministro dice “Se ‘populismo’ è l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente – prendo spunto da riflessioni di Dostoevskij tratte dalle pagine di Puskin…”. La mia prima preghiera va a Dostoevskij. Il mio primo pensiero, invece, va al ghost writer di Conte: chi è? Rocco Casalino? Beppe Grillo? La prima domanda è atroce: ma… l’avrà mai letto Dostoevskij? La prima reazione è indignata: ma perché cavolo devono rompere le palle a Fëdor? La risposta è di una banalità soverchiante: citare è la strategia dello scaltro. Seconda domanda: ma il Primo ministro sa cosa ha citato? A scanso di equivoci, ve lo dico io. Nel 1880 Dostoevskij pronuncia il Discorso su Puskin, “nella seduta solenne della Società degli amici della letteratura russa, davanti a numeroso pubblico”. Il discorso viene poi pubblicato nella rubrica tenuta da Dostoevskij, il Diario di uno scrittore. L’orazione intorno a Puskin, più ‘politica’ – anzi, profetica – che letteraria ha il valore di un testamento: Dosteovskij morirà l’anno dopo, nel 1881. Francamente, non ho trovato la parola ‘populismo’ nella traduzione del Discorso che ho in mano (di Ettore Lo Gatto, ripubblicata lo scorso anno da Castelvecchi), mentre tutti sappiamo che il concetto di ‘populismo’ nasce in Russia dopo la seconda metà dell’Ottocento, dopo la ‘liberazione’ dei servi della gleba da parte di Alessandro II. Cosa dice Dostoevskij nel fatidico Discorso (quello vero, non quello berciato impunemente dal neo-premier)? Ribadisce un concetto centrale per lui, da sempre. Che la Russia ha una sovranità ‘morale’, per così dire, sull’Europa, patria di un progresso tecnico ed economico fine a se stesso, demoniaco. “Affermare che la nostra misera e disordinata terra non possa racchiudere in sé delle aspirazioni così alte, fino a che non sia diventata economicamente e socialmente simile all’Occidente, è semplicemente una assurdità. I fondamentali tesori morali dell’anima, nella sua fondamentale sostanza, almeno essi non dipendono dalla forza economica”. Ecco cosa scrive Dostoevskij. Nel 1863 il viaggio nelle capitali europee, Parigi e Londra (narrato nelle Note invernali su impressioni estive), d’altronde, lo aveva convinto che l’Europa – cioè, l’Occidente – non aveva nulla da spartire con la grandezza etica russa. “Parigi è una città meravigliosa. E che confort”, scrive. Eppure. Anche a Parigi, come a Londra, vince “la stessa disperata tensione a restar fermi, disperati, allo status quo, a strapparsi di dosso con le unghie tutte le aspirazioni e le speranze, a inveire contro il proprio futuro… e a inchinarsi a Baal”. Per Baal, cioè Satana, Dostoevskij intende il dominio tracotante del denaro – oggi diremmo, della finanza – che per sua natura comporta una vita frustrante, priva di energia, schiava non della terra ma del consumo, da alienati. In particolare, nel Discorso su Puskin usato da Conte come piede di porco per imbonire i cretini, Dostoevskij ribadisce la centralità dell’ortodossia nel carisma russo (“se il nostro popolo è colto già da molto tempo, avendo accettato nella sua sostanza Cristo e la sua dottrina, insieme con lui, con Cristo, ha naturalmente fatto propria anche la vera cultura”), in contrasto con il cattolicesimo occidentale, un cristianesimo blando, all’acqua di rose (“in Occidente in verità non c’è già più Cristianesimo e Chiesa… il cattolicesimo in verità non è già più Cristianesimo e si va trasformando in idolatria, mentre il protestantesimo a passi giganteschi si trasforma in ateismo e in una dottrina morale incerta, corrente, mutevole”). Soprattutto, in faccia alle pallide parole di Conte sull’Europa (“L’Europa è la nostra casa”), Dostoevskij rotea la spada sul muso del continente, prevedendone la catastrofe: “è alla vigilia del suo crollo, la vostra Europa. Un crollo totale e terribile. Il formicaio che già da un pezzo vi è stato edificato senza Chiesa e senza Cristo (perché la Chiesa, intorbidatosi il suo ideale, già da un pezzo vi si è trasformata in Stato), questo formicaio dal principio morale scosso alla base, privo ormai di ogni concetto generale e assoluto, è tutto scavato al di sotto”. Eccolo, Dostoevskij. Ferocemente umano, troppo umano – ne I demoni sancisce che ciascun uomo è responsabile dei peccati del prossimo – anti-occidentale, anti-cattolico, anti-capitalista. Questo Governo viene letteralmente incenerito dai concetti di Dostoevskij. Si dissotterrano i giganti sperando di far bella figura davanti al Colosseo, ma i giganti ti strappano la faccia a morsi. Conte è uno sfacciato. (d.b.)