06 Febbraio 2023

Vita tra gli Ainu, il popolo inaccessibile

Il 7 ottobre del 1893, su “The Speaker”, un giovane William B. Yeats recensisce con entusiasmo Life with Trans-Siberian Savages, suggestiva cronaca di viaggio di B. Douglas Howard, “uno sportivo ed esploratore inglese con la passione per la religione e i popoli dei primordi, portato all’avventura”. Nel libro, l’esploratore racconta il suo viaggio in Siberia e nell’Estremo Oriente russo, raccontando, tra l’altro, “le novità del sistema concentrazionario russo”: nell’isola di Sachalin, situata sopra il Giappone, venivano deportati prigionieri più o meno pericolosi (due anni dopo la questione verrà sviscerata in uno dei libri più potenti e inattesi di Anton Čechov, L’isola di Sachalin, appunto, edito in Italia da Adelphi). Le intenzioni di Howard, tuttavia, non erano umanitarie. L’avventuriero si era messo in testa di visitare le estreme comunità degli Ainu, “razza antichissima, che sopravvive secondo i suoi costumi tradizionali, grazie all’inaccessibilità dei suoi villaggi”. La parola inaccessibile, si sa, è miele tra le fauci dell’esploratore: B. Douglas Howard parte da Londra nell’autunno del 1889, attraversa la Russia, l’India del Nord, la Cina, la Corea, lo Stretto dei Tartari e il mare di Ochotsk. “L’unicità delle mie esperienze non ha precedenti: ho vissuto insieme a quella gente, e la loro vita mi ha posto interrogativi a cui ho tentato di rispondere”, scrive l’autore introducendo il suo libro di viaggio.

Il libro, stampato da Longmans, Green and Co. a Londra e New York ha la rustica velocità del reportage: privo di accortezze antropologiche, antiaccademico, B. Douglas Howard è un osservatore ispirato, capace di entrare in empatia con chiunque incontra, sia un aristocratico principe russo incrociato a Vladivostok, che con dovizia di cibi tenta di dissuaderlo dai suoi viaggi, che i nobili Ainu, incontrati nelle foreste di Sachalin. Nel cuore del libro, l’avventuriero racconta My First Ainu Bear Hunt. “Ero uno di loro”, scrive, con fenditure di gioia, l’esploratore. La caccia all’orso si svolge tramite un rituale coordinato e astrale, che inizia con l’avvelenamento delle frecce e i canti di rito, sommessi. A B. Douglas Howard, tuttavia, interessa più che altro la scena ‘da romanzo’: esperto di caccia – “avevo cacciato il grizzly nelle Montagne Rocciose, e nonostante i diversi proiettili bisognava attendere l’ultimo gemito per essere certi che non avrebbe contrattaccato” – assiste come medico improvvisato i feriti, si getta nell’agone. La caccia all’orso è concitata: la belva, colpita con una freccia all’occhio, reagisce ferendo un paio di uomini, abbattendone un terzo. Infine, collassa. Il solo riferimento che ha a disposizione l’esploratore è narrativo:

“L’oscurità profonda e vibrante della foresta; la vampa continua del grande fuoco del bivacco che rivelava l’enorme carcassa dell’orso abbattuto e proiettava la sua livida luce sul gruppo di cacciatori selvaggi dalla barba irsuta e la testa arruffata, accovacciati mentre rosicchiavano grumi di succosa carne cruda; il cerchio con gli emblemi delle piccole divinità pagane, improvvisate con le pietre, contro cui riposavano gli archi, le frecce avvelenate, i grandi coltelli che scintillavano nel riverbero delle fiamme… ecco il quadro che da ragazzo avevo visto in sogno, dopo le mie sfrenate letture di Fenimore Cooper”.

L’affinità tra L’ultimo dei Mohicani e il viaggio tra gli ultimi villaggi Ainu è una costante del libro. Alla fine della caccia, gli Ainu si dirigono davanti alla tana dell’orso, una grotta, per salutarlo, augurandogli un viaggio senza ostacoli nei regni al di là di questo. Uno dei cacciatori, il più coraggioso, risulterà ferito a morte. Nel capitolo del libro che traduciamo in appendice – A Death and Burial – viene raccontato, per sommi capi, il rude servizio funebre, il terrore della morte, la crudele etica della vedovanza.

Gli Ainu affascinano B. Douglas Howard, che sa di trovarsi al cospetto di una umanità originaria, un’Atlantide nei recessi russi. Gli Ainu sono un mistero. Il suo reportage, così, si chiude su una domanda.

“Sebbene gli Ainu siano considerati gli aborigeni di Sachalin, e i loro discendenti sono considerati gli aborigeni del Giappone il loro tipo fisico è del tutto diverso da quello dei popoli contigui, così come le loro abitudini di vita, rigidamente legate alla foresta. Il loro sistema teologico, avanzato, si associa alla natura di un popolo gentile, generoso, contemplativo. Forse l’abitudine alla solitudine e alla vita nella foresta sconfinata li ha educati all’introspezione, alla comprensione del Sé e del Sé nell’universo? Forse il loro sistema religioso è radicato intorno a questa idea originaria… Questa gente ha unicità che costituiscono un problema per la nostra mente, degno di considerazione”.

Nell’agosto del 1937, sulla rivista “Le vie del mondo”, Giuseppe Tucci, il grande tibetanologo, riassume in modo un po’ brutale l’enigma degli Ainu:

“Lo studio degli Ainu e delle loro forme di vita è molto interessante dal punto di vista etnografico, anche perché essi hanno avuto punti di contatto con quelle civiltà antiche che presentano ancora tanti punti oscuri. L’interesse è accresciuto dal fatto che questo popolo è prossimo alla definitiva scomparsa come unità etnica: urge quindi raccogliere più largo materiale possibile sul suo conto. Ma a parte queste considerazioni, la civiltà ainu è molto povera e non ha portato alcun contributo particolare al formarsi della cultura orientale”.

Uno degli allievi di Tucci, Fosco Maraini, si metterà, dal 1938, sulle tracce degli Ainu del Giappone. Arguto, appassionato, geniale, ne svela le profondità dei riti. Dai suoi viaggi scaturiranno alcuni studi miliari, tra cui Gli Iku-bashui degli Ainu (1942) e Lo iyomande degli Ainu, raccolto in Gli ultimi pagani (Bur, 2001). Il vecchio Yeats, nel frattempo, si apprestava a mollare questo mondo. Lo catturavano i meandri della filosofia induista, dopo essere stato folgorato dal teatro Nō. Da ragazzo, invece, la vicenda occulta degli Ainu, un popolo marginalizzato dalla Storia eppure ricco di folklore, gli ricordava, forse, quella della sua Irlanda. Nell’anno in cui scrive del libro di B. Douglas Howard, ha terminato la raccolta degli Irish Fairy Tales, ha pubblicato The Celtic Twilight e i suoi studi sui testi di William Blake. Amava i miti originari e l’originalità di una poesia capace di forgiare miti. Yeats ravvisa una continuità tra “l’arcana essenza della vita degli Ainu” e “la tradizione più profonda della mistica europea”. Lo inebria il pensiero di un’esistenza ai primordi, nel miracolo: “la nostra vita, con tutta la sua abbondanza, è poi tanto migliore?”. Naturalmente, sono le stagioni di un poeta, che non considera il gelo, la fermezza del sangue, il tetano.

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Morte e sepoltura

Tornati dopo un’assenza di tre giorni, trovammo il villaggio in uno stato di angoscia. L’uomo ferito durante la nostra recente caccia all’orso aveva profonde lacerazioni alla spalla, una mano squarciata. Sono entrato nella sua capanna. Era affollata di gente. Lo sciamano aveva compiuto i riti ordinari e il ferito era vicino al fuoco, più vasto del solito, per tenere lontano il freddo, associato alla morte. Gli uomini avevano un’espressione disperata, e un qualche senso di attesa e di speranza associato al mio ingresso. Mi mossi per visitarlo. Il povero uomo era rigido, le mascelle serrate, tanto che alcuni denti apparivano fratturati. La pelle era madida di sudore freddo, gli occhi sporgevano dalle orbite. Il dolore di questo triste spettacolo era aggravato dalla mia considerazione: ero impotente, quell’uomo non aveva speranze. Le ferite inflitte dall’orso avevano lacerato i tendini e questo aveva provocato il tetano: durante gli spasmi la rigidità delle sue membra era così intensa che nessuna forza avrebbe potuto arginarla. Mezz’ora dopo il mio ingresso nella capanna, i muscoli respiratori, insieme agli altri, si irrigidirono, fino a diventare duri e inattivi, e quell’uomo si mutò in una statua. Non riusciva a respirare, morì per soffocamento.

Accesero altri fuochi in prossimità della capanna. Alcuni uomini appiccarono un fuoco, molto grande, sulla cima della collina vicina, dove, nel silenzio della notte, si alzarono suoni e canti di lutto e di adorazione. Il villaggio viveva una sorta di stato allucinato. Al mattino, lo sciamano inaugurò i riti e le cerimonie del lutto, in forma sommessa: il mio defunto compagno di caccia indossava i suoi abiti migliori, pellicce sgargianti. Sulla stuoia su cui sedeva, spiccavano l’arco, le frecce, il coltello. Qualcuno gli aveva intrecciato i capelli, che avevano una pettinatura nobile. Alla sua sinistra, c’era un acciarino, alcuni alimenti. Il corpo fu posto su un telo, insieme agli oggetti: sul telo erano fissati degli anelli di modo che, dopo l’ingresso del palo, il corpo potesse essere trasportato con comodità.

Tutti gli abitanti del villaggio iniziarono la processione: in testa c’era il vecchio capo, io ero al suo fianco, lo sciamano scortava gli uomini che portavano il cadavere. La marcia, piuttosto tortuosa, è durata mezz’ora: in un angolo riparato della montagna era scavata una tomba, profonda circa tre piedi, con alcuni pali per preservarne la struttura. Acqua come libagione fu sparsa un po’ ovunque; rami preparavano il giaciglio. Ogni persona in lutto depose qualcosa nella tomba, un oggetto utile al lungo viaggio che attendeva il morto: chi un vaso, chi una pipa e del tabacco, chi del cibo. Per ultimo furono aggiunti l’arco, le frecce e la faretra spezzati, e lo scudo, anch’esso spezzato. La tomba fu riempita con terra e rami. Un palo conficcato nei pressi della tomba, del tutto solitaria, era l’unico segno che identificava il luogo in cui giaceva il cacciatore più coraggioso del villaggio.

Nonostante la verità del dolore, tutti, appena rientrati al villaggio, cominciarono ad affannarsi in modo isterico: chi a lavorare, chi a mangiare. Così, con una filosofia di cui li ritenevo incapaci, gli Ainu sembravano trovare nell’occupazione la ricetta per dimenticare il lutto, per inacidire nell’oblio il dolore. In questo modo, cercavano un surrogato alla consolazione, con disperato e tetro vigore, e con più acribia di certi capi del pensiero moderno, che si ritengono infallibili. Come potevano credere a un padre divino, unico, inaccessibile, vivente e vivo che non avevano mai visto? Non ho mai visto un cimitero tra gli Ainu, né tombe diverse da quelle che ho descritto. Sembra che abbiano un grande terrore della morte e di tutto ciò che può ricordarla.

Il giorno dopo il funerale, mentre passavo davanti alla capanna del defunto, udii alcuni strilli, repressi a fatica. Due o tre donne assistevano a un processo che pareva molto doloroso. Questo consisteva nel radere a zero la testa della vedova: non con un coltello, ma con la lama affilata di una conchiglia. Tale sanguinoso spettacolo mi commosse, e mi offrii per radere la donna con il mio coltello prediletto. Non me lo concessero. La procedura della conchiglia era l’unica consentita, quella tramandata dalla tradizione; la sofferenza l’elemento essenziale che sigillava il segno della vedovanza.

B. Douglas Howard

Gruppo MAGOG