18 Marzo 2024

“Presi il volo e mi legai la nebbia ai fianchi”. L’epopea degli Ainu

Nell’agosto del 1937, su “Le Vie del Mondo”, la “Rivista mensile del Touring Club Italiano”, Giuseppe Tucci firma un lungo articolo su Gli Ainu. Il servizio dedicato a sviscerare la misteriosa minoranza etnica relegata in Hokkaido, numericamente esigua (“forse gli Ainu sono gli unici superstiti d’una razza bianca diffusasi in Estremo Oriente”), è scritto in stile divulgativo, a tratti brillante, spesso assertivo. All’epoca, Tucci era ritenuto il massimo tibetologo al mondo, aveva organizzato sei spedizioni in Tibet e altrettante in Nepal e fondato da pochi anni l’IsMEO (Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente). Il servizio è ricco di fotografie; dopo aver descritto i tratti somatici – differenti da quelli dei giapponesi – degli Ainu, Tucci ne descrive costumi e cultura.

“Fino a non molti anni fa, le donne si compiacevano d’un tatuaggio curioso sulle labbra, a disegno di baffi e di barba… In mezzo al villaggio si trovano sempre delle gabbie, nelle quali vengono rinchiusi dei piccoli orsi catturati sulle montagne vicine… La caccia all’orso è una delle occupazioni di questa gente, e ciò spiega il carattere totemico dell’animale”.

Il centro della vita sociale e spirituale degli Ainu è la cattura e l’uccisione, secondo rito, dell’orso. I villaggi in cui abitano gli Ainu sono costituiti da rudi capanne, costruite secondo un codice stabile; frenetica la vitalità religiosa:

“sentono dappertutto la presenza di forze divine… predomina la deità madre del fuoco che, adorata nel focolare domestico, è una specie di nume tutelare della famiglia… Non ci sono sacerdoti o intermediari fra il mondo divino e quello umano: ogni capo di casa compie i riti tradizionali escludendone le donne”.

I riti – anche quelli funebri – sono parchi, scarni; a dire di Tucci, la vita degli Ainu, “vicino al mare e sulle falde dei monti” è “semplice e primitiva”. La sensibilità artistica è “scarsa” – a contrasto “con un paese come è il Giappone, ove il popolo tutto è per istinto dotato di squisita sensibilità artistica” –, la cultura pressoché nulla: “la civiltà ainu è molto povera e non ha portato alcun contributo particolare al formarsi della cultura orientale”. Ciò è testimoniato dall’assenza quasi totale di un repertorio letterario che racconti miti, epopee, riti degli Ainu.

Misteriose sono le origini degli Ainu, forse provenienti dalla Siberia, diffusi in Hokkaido e sull’isola russa di Sachalin. Laterali ai grandi moti della Storia e alle sue latebre, gli Ainu paiono un popolo di sconfitti, rei di resistere in un arcano isolamento. L’interesse nei loro riguardi, conclude Tucci, “è accresciuto dal fatto che questo popolo è prossimo alla definitiva scomparsa come unità etnica”.

Le severe conclusioni di Tucci sono state contestate da uno dei suoi allievi più brillanti, Fosco Maraini. In Hokkaido dal 1938, Maraini è tra i rari studiosi a raccontare, fotografare e filmare le residue vestigia degli Ainu; in diversi articoli – raccolti in Gli ultimi pagani, Bur, 2001 – Maraini traduce il genio di un popolo sulla scia della scomparsa, il fascino di un’esistenza elementare, dalla ritualità sobria perché coerente con i moti della natura. Il rapporto di Maraini con gli Ainu è ventennale; parte dei manufatti raccolti dall’antropologo nella sua prima spedizione sono stati donati al Museo di Antropologia e Etnologia di Firenze (che così le descrive in una mappa divulgativa: “La collezione raccolta nel 1939-41 da Fosco Maraini è completamente dedicata agli Ainu di Hokkaido. Sono 500 oggetti circa che raccontano le abitudini di un popolo la cui cultura è ormai praticamente estinta. Tra questi spicca una ricca collezione di Iku-bashui, bastoncini cerimoniali di legno, scolpiti e decorati e sei attush, i kimono tradizionali fatti di cotone e di fibre d’olmo tessute a mano”). Gli studi compiuti da Maraini dimostrano – a contrario di ciò che si credeva – una decisa propensione estetica da parte degli Ainu.

In precedenza, gli Ainu erano stati studiati dallo iamatologo Basil Hall Chamberlain – Aino Folk-Tales, 1888 – da John Batchelor, missionario per la Chiesa d’Inghilterra – The Ainu of Japan: the religion, superstitions and general history of the hairy aborigines of Japan, 1892 – e dall’etnologo lituano Bronisław Piłsudski, di fede socialista, spedito in esilio dallo zar Alessandro III, che nel 1912 radunò i materiali delle sue ricerche condotte a Sachalin. A Shiraoi, in Hokkaido, un museo, l’Upopoy, racconta con mole di documenti la vicenda e la cultura degli Ainu.

Spesso la storia degli Ainu è avvicinata a quella degli Emishi, antica, audace genia di nativi, in contrasto con l’imperatore del Giappone, poi scomparsa. Gli Emishi sono ‘animati’ da Hayao Miyazaki in uno dei suoi film più noti, La principessa Mononoke (1997): anche qui, si tratta di una eroica storia di marginali, di popoli sopraffatti.

Poco alla volta, setacciando la reticenza degli Ainu, si è iniziato a riferire del loro epos, della loro letteratura. Tra i testi leggendari – yukar – narrati oralmente, secondo un lignaggio di cantastorie, il più importante è il Kutune Shirka. In questo complesso sistema narrativo, l’eroe racconta in prima persona le sue avventure. Gli elementi della favolistica classica sono tutti presenti: l’oggetto magico – la spada –, la bestia fatale – una lontra d’oro –, la donna-strega. Il ragazzo opera tra incantesimi opposti, grazie a coraggio e capacità nello stratagemma. Il Kutune Shirka è stato recuperato e tradotto in giapponese dal linguista Kyōsuke Kindaichi; da quella versione è tratto il lacerto pubblicato dall’orientalista Arthur Waley – già traduttore, in inglese, del Genji Monogatari, del Tao Te Ching, degli Analecta di Confucio e dell’opera di Sei Shōnagon – su “Botteghe Oscure”, la rivista ‘romana’ di Marguerite Caetani, nel 1951. A quello ci riferiamo per questo esercizio traduttivo.

Così ne dice Waley nello scritto che introduce l’epica:

“Nel XVIII secolo, due cose colpirono i primi studiosi giapponesi degli Ainu: la ricchezza della loro letteratura, tramandata oralmente, e la lunghezza delle loro barbe. Il poema veniva intonato più che cantato: il verso ha accenti enfatizzati dal rumore di un bastone. A volte erano le donne più anziane a recitarlo; più spesso un uomo. Le donne possedevano un repertorio di poemi ‘privato’: generalmente, narravano di uomini preda della follia d’amore. […] L’epopea veniva recitata in occasione di cerimonie religiose, in mare, in attesa che i pesci abboccassero, o attorno al fuoco, durante le lunghe notte d’inverno. L’epopea è stata raccolta dal professor Kindaichi negli anni Venti e pubblicata nel 1932. Wakarpa, il vecchio capo Ainu, cieco, che si convinse a recitare l’intera epopea, morì prima della pubblicazione. Wakarpa è stato davvero l’Omero degli Ainu, che ha raccolto e organizzato un sistema narrativo altrimenti complesso e difforme? Può darsi: lui lo ha negato, dicendo di aver ripetuto quei versi così come gli erano stati insegnati. Se diciamo che questo poema è stato composto tra il IX e il XX secolo non sbaglieremmo di molto: una datazione tanto vaga temo però che non sia utile né illuminante”.

Vasta parte delle leggende liriche degli Ainu è sepolta tra le nebbie.

***

Kutune Shirka

Epica Ainu

Era notte
e non riuscivo a dormire:
il dio che vive sotto i letti
mi ha pungolato dal basso;
il dio confitto tra le travi
mi fissava dall’alto –

Mio fratello e mia sorella
russavano forte, entrambi.
Mi alzai dal letto per dirigermi
verso il luogo dove custodivamo
il tesoro. Vaso laccato legato
da corde: le sciolsi, una dopo
l’altra, tuffai la mano.

Giacca ricamata, spada
istoriata, cintura d’oro
e un piccolo elmo prezioso:

caddi nella boria

mi gettai addosso la giacca
allacciai la cintura
confinai il cranio nell’elmo:
la spada era mirabile –
mi ferii pur di infilarla nella cintura.

Credetemi: ero splendido
pari a un dio, di ritorno
dopo una grande gloria.

Capii, con la mente, cos’era
la guerra, compii, con la mente
vasti atti di eroismo –

Per la prima volta, uscii
di casa – il nostro castello
mi parve così bello.

La recinzione era fine
come grandi nubi –
ratti corrodevano
i cunicoli, uccelli
tempestavano di nidi
le muta – il vento creava
una musica sublime.

Un dio mi possedeva
l’aria mi portò in alto.
Sconfinai verso il porto
una lieve brezza marina
mi fasciava il volto.

Dolci voci valicano il mare
ho camminato sopra dune
di sabbia finché il dio
che mi possedeva non
fece tuonare i cieli.

In fretta, mi portò presso Ishkar:
un castello magnifico dominava
il villaggio – la lontra marina
lampeggiò d’improvviso pari
a una spada sui flutti.

Come quando sbuca l’alba
vidi una donna uscire dal castello:
sarebbe stata bellissima, pensavo.
Capelli rossi le rigavano un viso
dal mento troppo grosso:
nulla di bello era in lei
e i gioielli esaltavano
la sua bruttezza.

La dorata lontra marina
svanì tra le spume della marea:
mi gettai verso l’aperto –
mi sfuggì di mano ma sconforto
non ghermì il mio agire – mi tuffai
ancora, con la caparbietà
di un uccello marino:
la raggiunsi e fluttuò
nel mio ventre

le mie braccia si librarono
verso il cielo come rapaci

anch’io presi il volo
e l’aria mi sembrava
un secchio – legai
attorno ai miei fianchi
la nebbia perché nessuno
mi riconoscesse

i miei fratelli russavano ancora
il castello era magnifico –
volevo dormire: il rumore
del fuoco tartassava le mie
tempie – avrei dovuto
sacrificare la lontra – rabbia
nutrì il volto del fratello
una volta destato.

**

L’eroe si avvicina da dietro alla donna: scioglie i lacci del corpetto. È bellissima; pur abbrutita dall’invidia, è sotto i dettami di un incantesimo.

I giovani, sodi seni
parevano sfere di neve:
li accarezzai – si voltò:
“Sei tu? Credevo fossi morto”.
Mentre mi parlava, la sbriciolai
brano dopo brano
carne dopo carne
sentii il fruscio della sua
anima, l’anima malvagia
che si librava in volo.

“Donne: combattete con
le donne – lei è la sorella
malvagia: avrei dovuto ucciderla
io prima che l’eroe divino
mi infliggesse tale punizione”
disse Malinger.

Mi spinse a tornare a casa:
ma qual era la mia casa?
E da dove veniva quella ragazza?
Non esiste alcun ritorno a casa
se non ho il coraggio di sterminare
il male – questo pensavo tra me e me.

Gruppo MAGOG