Essere originari prima che originali, tale è la massima artistica che con dedizione e devozione Agostino Arrivabene ha fatto magistralmente propria. Originario significa operare nel ricordo dell’origine invisibile, significa manifestare ovvero esprimere, sperimentando che l’arte è superficie, ma superficie che nel gesto del suo artefice riflette il fondo su cui appare, un fondo altro e sovrano su ogni ragione. Originario è il silenzio da cui fluisce e in cui permane la parola, originaria è la parola che di ciò testimonia. Quel logos in principio è infatti l’unitario ordito del molteplice e la sua inconcepibile uguaglianza, che è silenziosa e che è invisibile, perché lì non c’è occhio e segno, ma la loro fondativa unità. Da tale unità l’artista riceve il suo occhio e spicca i suoi segni e li depone su un supporto. Eleva quindi quel supporto di tela o legno a essere il sostegno immaginifico per una contemplazione e una meditazione, una tappa nel cammino intellettivo. Originario è colui che a momenti si toglie di dosso l’animale sociale, parte verso lidi selvaggi, verso picchi eccelsi, e dà uno sguardo al rimanente. Non c’è dubbio, tu che sei, tu fosti e sarai, oltre questi spasmi del divenire. Ma in questi moti, nell’onda e nel vento, cogli la trama stessa dell’intelligenza che te li fa consacrare e sperdere insieme.
Agostino Arrivabene, Erotomachia infera
Thesauros, titolo della mostra di Arrivabene a Palazzo dei Diamanti, è traducibile in tempietto, scrigno, corredo votivo. Una mostra in tal senso è uno scrigno sacro. Sacro perché separato dal clamore del mondo e perché votato al silenzio del mondo. L’opera chiusa in esso è un’offerta in cui il visibile viene dato in pasto a un fuoco invisibile, lo sguardo nostro splendivoro. E questo è semplicemente, incredibilmente, il ragionare di un grande artista, del vecchissimo artista e oggi dell’artista in piedi faccia al secolo. Ne deriva un balenio dei lineamenti e un vorticare dei simulacri che aggallano per essere riassorbiti a fondo nella retina, quasi formule incantatorie, insistenti e pacate, per rifocalizzare l’occhio dell’osservatore. Esempio ne è Erotomachia infera, luminosamente e drammaticamente perfetta, con un abbraccio tra Paolo e Francesca che è sospeso sull’ombra avvolgente l’orgia dannata, abbraccio che invero è un aggrapparsi dell’una alla caduta dell’altro. Questo è: aggrapparsi alla caduta. Qualunque dantista vi riconoscerebbe fulmineamente il cuore ermeneutico del V canto dell’Inferno. Ed è l’amata, colei che parlava, che stando in basso pare reggere il muto amato. Si tratta di una traduzione nel senso più alto, che in fondo è anche il senso del compito artistico: è rigerminata tradizione.
Mai aneddoto in Arrivabene. Sicché i titoli sono segnali di luoghi mitologici (ad esempio Atena, Lucifero,Centauromachia) o logici (ad esempio Verbo, Contra mundum, Sementi) che vanno appieno riesplorati. C’è una geografia, ma non c’è mappa. In ciò la mano di Arrivabene funge da sommovitore di convenzioni figurative, per giustezza e insieme stravaganza nel colorismo e nel disegno nonché nella disposizione scenica. Tale maestria è il sostegno plastico che gli permette di riconfigurare gli asterismi usuali con la studiata naturalezza di una precessione degli equinozi o di un’inversione dei poli. Sacro sangue esemplifica scopertamente questo modus operandi, per il tema del Cristo incoronato di spine, così iconico nella riserva di immagini d’Occidente, e per i mutamenti d’accento nel contempo lievi e radicali che Arrivabene vi opera: il volto completamente coperto da riccioli microscopicamente esatti, eredi di un Antonello da Messina, velo devoto e terrifico insieme; soprattutto una corona di spine da cui il sangue cade verso l’alto, ascende dal capo coagulandosi in un arabesco di corallo, su sfondo aureolato, luminescente, l’oro opaco di una regalità estinta.
Arabesco, corallo, reticoli vegetali e minerali, sono stilemi di Arrivabene che indicano stabilmente una metamorfosi colta nel suo maturare. Stranissima, a tratti crudele e a tratti ciprigna, primavera. Crescono pianticelle leonardesche e fiamminghe dal corpo de Il sogno di Asclepio, accolto da un prato stagliantesi su un paesaggio utopico ma pittoricamente topico quale omaggio a Ercole de’ Roberti, crescono algheggianti trombe vegetali dall’efebo estatico de Il peso della porpora, crescono rampicanti e radici aeree come di magnolia dall’Homo novus che si erge nel laghetto di rigenerazione sovrastante il labirinto nel deserto. Germinazione e diffusione di organismi che traggono linfa dall’uomo, e dall’uomo nasce un mondo. Simile discorso vale per la luce di Arrivabene che è sempre uscente, che parte da dentro, che attornia le figure e si sprigiona da esse. È bioluminescenza. Non c’è dubbio che si dia qui un’occasione massima per comprendere che la luce è endogena, che è lo sguardo che dà luce al mondo, e che è l’intelletto che dà luce allo sguardo e in definitiva al mondo che l’occhio vede illuminando e guarda illuminandosi.
Tale luce interiore, aureolare, che pallidamente cerne volti e corpi, trova un’estrema riflessione ne L’inaudibile II°, nel fiotto di colori, arcobalenico, che esplode dalla schiena dell’uomo piegato, come i superbi dell’XI del Purgatorio sotto i loro massi di vanagloria artistica o di alterigia politica, uomo titanico per dimensioni, uomo curvo verso un suolo che sa di abisso. È questa una fosca iridescenza che sta al cuore e al fondo di tanti lavori di Arrivabene, memore di quella che sancì il patto tra l’invisibile e il visibile. Fosca, perché quel maturare del mutamento è nel verso ora della rinascita ora dell’estinzione, messa in dramma come fusione con l’elemento subumano e sovrumano. Così l’uomo chino che esplode di colori evapora in un cielo da crepuscolo degli dèi, un cielo veramente inaudibile per il devoto, prostrato dal crollo dell’Olimpo. Così Asclepio verdeggia nei piedi e nel capo, confuso al manto erboso che lo sostiene e lo vena. Così in Lucifero il volto del busto impubere è sprofondato nel nero, è nero come lo sfondo del ritratto, è nero come l’irraffigurabile fondo della psiche.
Agostino Arrivabene, Vergine fossile
Gemmazione celeste e regressione elementale fanno tutt’uno anche in quei sensibili miracoli di tecnica che sono i lavori su legno fossile di Arrivabene, dove la linea pittorica pare man mano accostare, seguire, guidare la linea vegetale del tronco tagliato, con i suoi anni anellati e le sue diramazioni linfatiche. Di nuovo l’arabesco. Come nella Vergine fossile, suadente sotto il velo del nome e delle increspature, eppure con occhio lontanissimo, a immagine di quella Madre della natività che negli antichi, sgravata, guarda altrove, perché di chi è quel figlio non figliato, se non di nessuno che sia ancora figlio o genitore, perché in chi è quel figlio non figliato, se non in chi non sia più né figlio né genitore? Una ghirlanda radiante cerchia il volto della Madonna e sono raggi non sai se del legno o del pennello, simili alla grazia che carnosamente rappresentano, quella grazia che non appartiene a un creatore o a una creatura, ma avviene nel loro incontro che è la loro reciproca esautorazione. Anche in Aracne, la tessitrice punita mostruosamente da Atena, la materia lignea è usata come segno che modella il gesto e che il gesto rimodella, per tessere l’emblema della vicenda amara e superbamente artistica della fanciulla, per tessere una rete in cui l’occhio stenta a distinguere cosa è supporto e cosa disegno, cosa necessità e cosa arbitrio, e ne è ammaliato.
Tale ambiguità del metamorfico in Arrivabene afferma una soglia e con essa un’inoppugnabile bontà: estranea all’irretire in equazioni di sole incognite, essa è un enigma di cui molto, ma non tutto, per cui pochissimo, sappiamo, e che dà il via a una cerca. Ora, una soglia è tanto più decisiva quanto più è definita, ossia idonea a indicare l’oltre che siamo chiamati a esplorare, l’indefinito. Sicché nulla cede a vaghezza in questo laboratorio di oscure e cangianti metamorfosi. Ovidio docet. Il fine tratto, svezzato al poundiano “with usura the line grows thick”, rende limpida l’iride trasmutante, perché lo guida ardore di perfezione e sprezzatura, come un guanto in olio e seta lanciato altissimo, a sfidare il nulla che piove nella storia. Che l’opera di Arrivabene richiami i secoli umani fino al nostro e li getti nel calderone del senza-tempo, anche nel respiro creaturale, rinascimentale, dello sviluppo e del disfacimento, ma totali, non contraffatti da fregole mercantili, questo è un sigillo aureo, il sigillo dell’artista, sul proliferare del segno e della forma.
Agostino Arrivabene, L’inaudibile II°
Per questo e per altro, quelle di Arrivabene sono opere che chiamano nella durata. Il loro gesto fondante è un solerte, giocoso legiferare su forze divergenti, ed è tutta una deontologia che si automanifesta nella probità esecutoria dell’artista. Ci vogliono, parrebbe dirci, regole esteriori, ma queste, se non diventano interiori, non produrranno che patine. Ci vuole interiorizzazione, ma senza coscienza delle regole formali, non si produrrà che inintelligibilità. Quando tali regole non sono comandate dai monasteri ma dai mercati, l’artista si esilia e osserva i maestri lontani, ne apprende lo sguardo e le tecniche, e scruta il presente come la notte dei tempi, come l’origine tenebrosa, dove solo la qualità dell’ascolto conta. Qui anche i simboli si ascoltano, i più semplici, i più universali, i più poveri: un cuore, un alloro, una corona. Con un sentimento aurorale, per l’alba della forma. Ripetendo in sé: “solo la carità è misura” (Meister Eckhart). Solo un intelletto innamorato rende l’immaginazione capace di misura. E la misura reale è data dalla relazione caritatevole con il mondo, quella che sola patisce le analogie tra uomo e universo.
Questa misura, imparata tra estremi che sono il micro e il macro come l’antico e l’utopico, carolando con essi, assorbendoli e sezionandoli, limandoli e riaccorpandoli, così trovando la propria voce, che articola e riscatta il cieco fluire delle parvenze e promette incontro ad altre voci, è la radicalità in ogni tempo contemporanea dell’artista che Arrivabene è.
Federico Pietrobelli
*L’immagine di copertina e quelle che decorano l’articolo sono di Agostino Arrivabene
Ferrara, Palazzo dei Diamanti 16 luglio – 1° ottobre 2023