05 Marzo 2022

Agnus Dei. Un racconto per Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini è nudo, davanti allo specchio, si masturba. Il corpo è elastico, esatto, l’estate, di notte, è bassa, come uno sciame di locuste. Nello specchio, gli sembra di vedere diversi Pier Paolo Pasolini, a centinaia, uno dietro l’altro; il primo è preso per i capelli dal secondo, e così via. Di chi sono la copia?, si chiede lo scrittore. “Il calco contraffatto”, gli pare di aver letto in un Vangelo gnostico. Con le matrici sbagliate, quelle inutili alla creazione dell’uomo, Dio, è scritto, ha creato gli angeli inferiori.

Pasolini si tocca – è nella casa di Chia, qualcuno è stato da lui, quella notte, qualche notte prima, non ricorda, come se avesse turbolenze di sale negli occhi, come se con dedizione stesse lavorando, con un taglierino, a togliere i ricordi, ad annullarli. Pensa al sudario. Non voglio che abbiano un’immagine di me, ma una copia, pensa. Pensa che gli uomini ricorrono continuamente al morso: anche le mani sembrano mascelle. Pasolini si masturba ma il cazzo non gli viene duro: nello specchio appaiono e scompaiono moltissimi Pier Paolo Pasolini. Uno di questi urla, e gli altri, riflessi, migliaia, si spaccano. Pasolini capisce che non c’è differenza tra la luce e lo specchio e si inginocchia, prega che il pavimento si sfondi, prega di poter precipitare, è così bello essere niente.

Da tempo la sua firma è involuta in uno sgorbio. Non sa più firmare. Firmava in modo splendido. Prima. Pier Paolo Pasolini. L’eleganza del centometrista: calligrafia distesa, atletica, efficace, l’effimero di ciò che è regale. Da tempo, un’unica P riassume, nel gorgo indecifrabile, tutte le altre lettere. Come l’occhio che si apre la prima volta sul mondo, dopo un sonno demente, e divora, si dice. Dimenticare la grammatica, si dice, scandire guaiti, si dice. Ora gira per la stanza a quattro zampe, il caldo assegna alla terra una virilità nuova, e Pier Paolo Pasolini sa fare la bestia. Intorno alla casa immagina le paludi, i rospi simili ad antichi mappamondi del Seicento, pervicaci e silenti, capaci di ammazzare un airone.

Pasolini, in piedi, ora, piscia contro lo specchio. Il liquido rimbalza sul vetro, sembra luce, e lui, Pier Paolo Pasolini, la fenditura del cosmo da cui fiotta il sole e la lebbra. “La notte sarà annientata”, ripete, “non ci sarà il sole né la luna”, ripete, ripetendo l’Apocalisse – ha perso il numero dei giorni, a mala pena modula l’anno, a volte si dimentica di essere uomo.

“Cresci ringiovanendo, come i demoni”, gli aveva detto, un ragazzo. Qualcuno, ogni tanto, lo chiama dal cortile di Chia, “Pier Paolo, Pier, Paolo, Pà!”. Lui, nudo, si nasconde sotto la scrivania, gli sembra un bosco. Vede la voce che lo chiama, la mascella, i denti – denti ovunque. Vede gli altri Pier Paolo Pasolini che escono dallo specchio, invadono la villa: alcuni sono nudi, elastici, bellissimi; altri sono in tuta; altri con la camicia, la cravatta. Tre Pasolini sono sdraiati sopra la scrivania, fanno l’amore, guaiscono. Lui, Pier Paolo Pasolini, si stringe, a quattro zampe, imita il verso dell’agnello, quel mugolio infinito, profondo, eterno, che spacca l’oro della teologia. L’aveva chiamato così sua madre, “agnello mio, agnello”, e gli premeva il viso addosso – sentiva il suo odore, di donna tradita. Erano sulla riviera romagnola, aveva otto anni, la madre gli ordinava di scrivere cartoline ornamentali al padre: “chiedigli di raggiungerci”. Preferiva le stagioni volubili, gli intermezzi della pioggia, il corvo che impone all’azzurro una violenza marziale, come se il cielo fosse l’elmo di un re. Sentiva la madre, in bagno, che recitava la lettera scritta al marito. “Ti sei dimenticato di me… ai tuoi occhi sono invisibile… viviamo in una promiscuità di menzogne… il mio corpo ti fa orrore”. Come se leggendo la lettera potesse assegnare una potenza raddoppiata all’odio; come se, recitandola, potesse trasformarla in uno schiaffo.

Quando la madre lo chiamava “agnello mio”, Pier Paolo Pasolini si ribellava: preferiva essere un lupo, una pantera, la bestia che uccide. Alcuni pastori, da Chia e da Soriano, lo avevano accompagnato, quell’anno, a vedere come si uccide l’agnello. Dopo un’ora di cammino, aveva preferito rifiutare. Si domandò se chi uccide può dirsi innocente; se sull’uomo l’innocenza grava come una colpa – o se è colpevole chi delega l’uccisione ad altri. I pastori avevano visi aperti e quadrati, uno di loro veniva dall’Algeria; per mesi stavano da soli, forse si univano con le bestie.

Sulla strada del ritorno, vide un cervo, al di là del sentiero. Il palco, intricato, nascondeva, forse, una cifra; gli occhi fissavano Pasolini, leali, giusti. Il cuore della bestia, come un sole, si muoveva, potente, dando al cervo la vastità di un simbolo. Avrebbe voluto mangiare quel cuore, tramutarsi in un essere che non distingue tra il buio e il pagliaio. Il cervo scartò, scomparendo – e con lui, come acqua, fuggì il prato, il bosco, il cielo, simile a un nastro.

Lo trovarono due settimane dopo, riverso, nudo, svenuto; era stato Moravia a intervenire, ad allarmare il Sindaco di Soriano; Pier Paolo Pasolini non mangiava da giorni. Era perfetto, bianco, luminoso, come un’accetta. “Volevo che qualcosa mi dominasse”, e poi, “ho cavalcato l’Agnello”, aveva detto. Nella casa, in una cartellina azzurra, sul pavimento, Moravia scoprirà l’articolo che Pasolini ha appena terminato di battere a macchina, s’intitola “Redención o de sangre”, c’è una dedica: a chiunque. Quel giorno le api invadono la casa di Pasolini, le finestre, nella fretta, sono lasciate aperte: da lontano, la casa fa l’effetto di una sfera, l’enorme pugno di Dio che sguaina miriadi di pianeti rumorosi, di galassie avide, veloci in astuzia e in estinzione. L’articolo sarà pubblicato da Enzo Siciliano, per la prima volta, su “Nuovi Argomenti” nel 1991, un anno dopo la morte di Moravia. Moravia l’avrebbe letto, quel giorno, dopo aver salutato Pasolini al Gemelli – “le infermiere volano come le idee di Platone”. Se l’era tenuto con sé – forse la distrazione giustifica il caos e l’ignavia è l’altra faccia della strage degli innocenti.

“Un trapezio bianco. L’innocenza, infine, è un sortilegio geometrico, ha la stessa disonestà di un’illusione ottica: viene da dire che soltanto sconfiggendo l’innocenza avremo, in premio, l’innocente. Ed è quello che importa, infine: l’uomo, il sacrilegio dell’innocente, più che il concetto, utile, come sempre, a oliare la matematica dello sterminio”. Cominciava così l’articolo. Avrebbe cominciato a leggerlo in Monteverde, Moravia, seduto in un bar. Voleva che tutti lo riconoscessero, come se il suo viso fosse un falò – Pier Paolo, invece, del fuoco era il cratere, il criterio respiratorio, il crollo. “Quando vedi Pier Paolo, ti senti cadere”, aveva sintetizzato un giornalista. Il viso di Pier Paolo era irriconoscente e irriconoscibile – un buco, vi inciampavi dentro, un grido di catrame –, per riconoscerlo era necessario che quel volto fosse sfregiato, spaccato, preso a calci in faccia.

Di fianco al bar, in un parcheggio sotterraneo, Moravia sentirà guaiti, tonfi cupi di sangue, grida. Dalla grata che si apre sulla strada, sottilissima, Moravia capirà, per bagliori e scatti, che si tratta di una lotta di cani, abusiva. Il tempo di vedere una bestia, magra e albina, che s’incunea nell’altra, nera, come un coltello; i denti del cane che si mescolano a quelli del padrone e a quelli degli scommettitori; “la città è un vespaio di denti, un morso infinito”, penserà Moravia, e penserà a quanti camion ci vogliono per raccogliere tutti i denti degli abitanti di Roma, e quelli dei paesi limitrofi, e d’Italia, d’Europa. Si accorgerà che anche le dita sembrano denti e gli verrà voglia di essere lui quello che strappa i denti al prossimo, li strappa e li raccoglie in borse sempre più grandi.

Con la consueta violenza analitica, in quell’articolo Pier Paolo Pasolini parte da un quadro, il San Serapio di Francisco de Zurbarán, per raccontare lo stillicidio di una civiltà. “Serapio ha la faccia da scimmia, è brutto, deformato da una conversione che conduce alla tortura”, scrive Pasolini. Del quadro lo affascina che il santo sia legato per i polsi – “le corde dei torturatori replicano il cordone che stringe la tunica” –, che la veste “si dilati in una forma celestiale, ironica, pare una placenta” e che lo sfondo sia nero, atroce; dall’oscurità compaiono, appena percepibili, gli alberi a cui è imprigionato il santo. “Il cartiglio con il nome di Serapius è attaccato con uno spillo sul fondo nero: ciò esaspera la finzione – la messa in scena della tortura – e il canone di una santità terribile. Serapio, per quel che ne sappiamo, muore nel 1240; il culto è confermato da papa Urbano VIII nel 1625; Zurbarán realizza l’opera nel 1628. Il cartiglio identificativo disegnato dall’artista conferisce a quell’uomo la vanità di una figura spettacolare e spettrale, da ammirare nel diorama agiografico, simile a una bestia impagliata in un Museo di scienze naturali. Serapio, intontito, è una bestia pronta al macello: leggiamo nelle turpi storie pie che il monaco sarà dissezionato dai Mori, arto per arto, e sviscerato; il cartiglio, a quel punto, pare l’istruzione data a un macellaio in merito ai quarti da staccare all’animale. Serapio, insomma, è lì, appeso, per essere mangiato”.

A Pasolini non interessa tanto la storia di Serapio – nato a Londra, cavaliere durante la Terza Crociata, agli ordini di Riccardo Cuor di Leone, sarà guerriero mercenario per il principe d’Austria e poi per il re di Spagna, fino alla conversione e all’estremo sacrificio – ma quella dell’ordine a cui appartiene, l’Orden de la Merced, o meglio, l’Ordo Beatae Mariae Virginis de Mercede. Fondato da Pietro Nolasco nel 1218, approvato da papa Gregorio IX nel 1235, l’ordine mendicante ha in sé l’atletismo della milizia, nasce nel pieno della Reconquista; oltre ai voti tradizionali – povertà, obbedienza, castità – un quarto ne sancisce il carisma: riscattare i cristiani prigionieri dei Mori, costretti a convertirsi, offrendo in cambio il proprio corpo. “Dare la vita per lo sconosciuto, senz’altra riconoscenza che lo scherno, offrirsi come ostaggio dell’infedeltà”, scrive Pasolini, a matita, in calce all’articolo, “…e io per chi perderò la vita?”.

La notte, nella casa di Chia, cade all’improvviso, di spalle, in agguato, come se qualcuno la rovesciasse da un catino. Le stelle, lì, sembrano pietre, e il corpo nudo di Pier Paolo Pasolini un occhio, di cui le braccia sono le ciglia.

In quei giorni ama Francisco de Zurbarán, il grande pittore spagnolo. Un vento strano, sabbioso, avvolge Chia e conferisce ai ricordi qualcosa di irrequieto, di irremovibile. Migliaia di Pasolini calano dalla torre, sono sul tetto, come ragni; Pier Paolo ne afferra qualcuno e lo getta nell’armadio. Gli altri lo guardano, guardinghi, attendono la mia morte, pensa, e pensa a quando lo squarceranno: miriadi, miliardi di Pasolini che scassano il corpo di Pier Paolo, lo deformano, lo indossano. Scrive di Zurbarán, con statuaria foga – “le cose accadano solo se le scrivo”, scrive, divorando, come sempre –, a Maria Callas. Il vento, caldo, spesso, gli lacera le pupille. “…Zurbarán non ama la violenza dell’azzurro, lo terrorizza la morte per acqua, e sul veliero che lo porta verso il Vicereame del Perù capisce perché ama la compagnia dei monaci e degli avventurieri rispetto a quella dei nobili, che idolatrano Velázquez. Ha un carattere cupo, un’onestà immobile, capace di improvvisi entusiasmi: i re dissimulano le debolezze, mentre i monaci le esaltano in un vasto repertorio di colpe e digiuni e punizioni. Questo ha capito Zurbarán. A Lima lo turbano i crocefissi con capelli autentici incollati sul cranio di Cristo – a chi appartengono, a quale radiosa tonsura o desiderio derelitto? – e gli avvoltoi sopra le case: ha visto un cavaliere spagnolo squartare un indigeno, per il gusto, la sua risata suona come uno scroscio di spade. Vedi, Maria, con Zurbarán c’è ancora quell’equilibrio australe tra ubiquo e obliquo, tra sacro e osceno, tra rito e rifiuto – fatti portare a Siviglia, guarda il Sant’Ugo nel refettorio: guarda quel pane, pare un volto, così autorevole, la scena ha la nobiltà di un’icona, un nitore selvatico. Dopo di lui, l’arte è grandiosa o didattica, un preziosismo, esercizio da imbonitori di masse, di chi vuole avvincere un cardinale, un nobile, un potente…”.

Accenna anche a un film su Zurbarán, “immagino questa scena, mi ossessiona: il pittore si fa portare al confine della giungla. Il viaggio è faticosissimo. Zurbarán suda, eppure non si spoglia dei suoi abiti. La luce, lì, ha una consistenza acquatica: soffoca, e al pittore sembra di affogare nell’oceano. Le montagne, lontane, hanno una dignità mosaica, indecente. In una scena si vede Zurbarán al cospetto della foresta, fitta, ignota, come un idioma indecifrabile. Dal groviglio degli alberi, appare un giaguaro. La visione è istantanea; il pittore è sconvolto dall’eleganza della bestia, sta per svenire, vorrebbe svanire, vagare a quattro zampe… il giaguaro non c’è più. Tornando in Spagna, il pittore pensa che potrà diventare quel giaguaro disegnandolo, ma non è così, perché l’arte è una condanna a morte – lo sai anche tu – e si crea qualcosa per ucciderla. Il pittore, così, capisce che alcune cose nel regno gli resteranno precluse per sempre, eppure c’è un’ebbrezza nell’ebetudine…”.

Dell’Agnus Dei del Prado, passato per una mostra a Milano, Pier Paolo Pasolini ha scritto sul “Corriere della sera” qualche giorno prima: “…privo di ornamenti retorici, con le zampe legate, abbandonato su una pietra; non esiste figura più esatta dell’Agnello. Zurbarán non raffigura una bestia al macello, ma un animale teso alla rassegnazione. Quell’agnello non sarà gratificato dal sangue, ma ucciso per incuria, dimenticanza, abbandono. Morirà di fame, al buio, all’oscuro della Storia. Sbaglia chi pensa il quadro come un’opera naturalista; è metafisica, dacché Zurbarán non ha dipinto un agnello condannato alla morte, ma l’attesa sconfitta, la fine del mondo rimandata, l’apocalisse procrastinata. Quella di Zurbarán non è un’opera ‘dal vero’, ma un’opera che dice la verità, simboleggia la rassegnazione, la resa. Neppure Dio, il grande macellaio, ha cura di quell’agnello, in stato di abbandono, con quel muso terribilmente umano. […] Zurbarán era ossessionato da quello scabro Agnus Dei, tra il 1631 e il 1640 ne dipinge almeno cinque copie, per giungere a risultati formali sempre più raffinati, per sottrazione, per disfacimento del credo. Quell’opera esplicita il crollo del pittore, che si accanisce a dipingere il punto inopportuno, inesplicabile, indecente di Cristo. Il Nazareno non poteva che ispirare orrore; neppure degno di essere ucciso…”.

La scena di Zurbarán all’imboccatura della giungla replica ciò che fa Pier Paolo Pasolini ogni notte. Il poeta, nudo, esce di casa e va verso il bosco. Le migliaia di Pasolini che assediano la casa di Chia applaudono: non hanno espressione e il loro gesto è cattivo, sarcastico. Dall’altra parte della casa, si apre una piccola palude; un airone grida, come se potesse legare con un laccio la notte; le rane lapidano lo spazio di fischi. Dicono che nel bosco sia tornata la lince, Pier Paolo Pasolini si aggira tra gli alberi, più fitti, con eleganza anomala. Vorrebbe morire intatto. Ha chiamato la lince Andrej: sa di non poterla vedere, è certo che è lei a vederlo. Prega di perdere tutto e di vivere a quattro zampe, belando, come gli illuminati. Passare dal lapsus al lupo, dall’opinione all’opera al nero. Sopra le pietre, sciabolate di muschio.

Quando Pier Paolo Pasolini si assenta, le migliaia di Pasolini, nella casa, cominciano a picchiarsi. Essendo le creazioni di uno specchio, non mettono limite alle efferatezze – non soffrono, perciò eccedono. Si prendono a morsi, si mutilano, si menano con gli arti appena disarticolati: braccia, gambe, ossa usate come asce. Cercano l’offesa e il massacro, la tentazione del terrore. Si mangiano, l’un l’altro, fino a farsi irriconoscibili.

L’affinità tra agnus e ignis lo fa trasalire: l’agnello è il fuoco, la benedizione tra le fiamme, il falò bianco. Ora gli pare di capire. Gesù è venuto a portare il fuoco… chi uccide l’agnello arde, perché l’innocente è l’incendio.

Maria Callas spedì la lettera a Chia; Pasolini non riuscì a leggerla, era a Roma e fu ucciso quattro settimane dopo. Qualcuno registrò quella lettera in un libro. “Caro Pier Paolo, quello che hai scritto sull’Agnus Dei è perfetto e mi tortura. Mi domando se un uomo possa scegliere il proprio carnefice, ed essere rifiutato perfino da lui. Noi non moriamo, Pier Paolo, questa è la condanna: noi siamo immortali. Come i vampiri, capisci? Continueremo, da morti, a tenere in ostaggio i pensieri e i desideri di chi non ci ha conosciuto, di chi vorrebbe averci. Ma siamo vampiri piuttosto strani. Non abbiamo denti. Siamo soltanto labbra. Labbra che sbavano, ovunque, incapaci di mordere…”, scrive, tra l’altro, la Callas. E verso la fine della lettera. “Vorrei sfigurarmi. Con una pietra. Spaccarmi la faccia. Qualcuno lo ha già fatto, in effetti. Vorrei che nessuno mi riconoscesse. In effetti, sono irriconoscibile… Parigi sfiorisce, i palazzi sembrano foglie e gli uomini mi sono nemici, tutti. Ti piacerebbe, qui, tu lavori solo nell’ostilità. Potresti raggiungermi. Da giorni ho un’immagine, forse l’ho letta in qualche libro, non ricordo. Una donna, piuttosto giovane, anonima, che entra nella camera mortuaria di un ospedale e bacia i morti che lì sono stipati. Di fianco ai morti dimenticati da tutti – vecchi, malati, storpi, orfani, abbandonati – si ferma più a lungo. Sembra una presenza dell’aldilà, incongruente, che fa irruzione tra i cadaveri e il dolore. È quasi trasparente, nessuno si accorge di lei, indossa vesti semplici. Rende puro il cadavere, ecco. Il suo compito è quello. A volte i cadaveri aprono gli occhi dopo l’abbraccio di quella donna. Non cerco altro. Non uno che mi ricapitoli; qualcuno che mi azzeri. Morire è così difficile…”.

Ma Pier Paolo Pasolini non è l’agnello e sa morire continuamente. Migliaia, miliardi di Pasolini escono dal corpo morto di Pasolini: è un’eruzione. Quella notte Roma è costellata di fuochi – alcuni cercano un volto tra le fiamme, alcuni bruciano vipere, a manciate. A volte il falò è bianco. Nella camera mortuaria vide la ragazza che va ad alleviare le pene dei morti. Nella casa di Chia videro la lince.

Davide Brullo

Gruppo MAGOG