“Io e il mio lavoro siamo passati praticamente inosservati. I miei cassetti sono pieni di manoscritti non stampati”. Così si lamentava nel 1969 Hans Günther Adler (1910-1988), praghese di lingua tedesca. Del resto la sua biografia vale come paradigma per intendere le conflittualità emerse tra gli ebrei di lingua tedesca negli anni immediatamente successivi alla Shoah. Liberato il 13 aprile 1945 da Buchenwald, nel 1947 Adler si trasferì a Londra, in fuga dal regime comunista cecoslovacco. Da tempo scriveva poesie, aforismi e romanzi e gli unici a non abbandonarlo, durante il soggiorno londinese, furono i coniugi Elias e Vera Canetti. I due si premurarono già dal maggio 1948 a presentare il praghese alla comunità ebraica esule negli Stati Uniti. Vera aveva letto il suo imponente manoscritto dedicato a una ricerca storica sul campo di concentramento di Theresienstadt, dove lo stesso Adler aveva perso tutti i suoi familiari. Hermann Broch e Hannah Arendt furono tra coloro che più presero a cuore l’uomo e l’opera.
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Inizialmente la ricerca di fondi per la pubblicazione sembrò portare i frutti sperati: “Immagino debba essere raggruppato un comitato di uomini che si adoperino per una simile opera”, scrisse Broch alla Arendt nel dicembre 1948, “e poiché Leo Baeck vuole scrivere l’introduzione credo che questo sarebbe particolarmente facile”. Anche Albert Einstein era favorevole. Ma qualcosa, tra gli esuli americani, non funzionò. Lo stesso giudizio di Broch nel ’49 era radicalmente cambiato: “Non voglio più saperne”, scrisse ancora all’amica filosofa, “non bisogna preoccuparsi di campi di concentramento sconosciuti”. Lo stesso Baeck, a dire di Broch, divenne “maldisposto”. Così il libro poté uscire solo nel 1955, e in Germania. Un volume di un migliaio di pagine che, includendo testimonianza, documentazione e analisi sociologica e psicologica, rappresenta una delle pietre miliari nella storia della Shoah e che pure ancor oggi non ha trovato una sua versione italiana.
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Diversa, seppur tarda, la sorte in Italia del romanzo Un viaggio (trad. di Marina Pugliano e Julia Rader, Fazi, Roma 2010) e in ogni caso, anche per questo testo, la pubblicazione nella Germania Federale post-bellica fu tutt’altro che semplice. Apprezzato e “sponsorizzato” da Elias Canetti (ne tesse un grande elogio in una lettera del 1952), è possibile che sul rifiuto dell’editore Suhrkamp alla pubblicazione di Un viaggio abbia pesato il famoso anatema di Adorno scagliato nel 1949 (“scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”), visto che in questo romanzo Adler prova a raccontare l’olocausto in forma poetica: per sua stessa ammissione, “più che dire esplicitamente”, il praghese voleva “rappresentare”, astraendo. Per questo l’intero percorso del “viaggio” lì ricostruito, da Praga a Theresienstadt, fino alla liberazione, è compiuto sostituendo i nomi della realtà con nomi di fantasia. Non si parla neppure di “ebrei” e di “nazisti”, ma di “fantasmi” e “cavallette”. Tanto da lasciar pensare che sia stato proprio questo suo ricorso continuo ad allegorie, a metafore e a metonimie, più che l’anatema adorniano, a rendere a lungo “incompresa” ed emarginata questa sua opera. Ma nel romanzo emergono altri dati, questa volta di contenuto, che facilmente hanno reso sospetto, se non inviso, Adler a certa editoria postbellica. Paul, il sopravvissuto, si ritrova tra i “vinti”, tra coloro che hanno scatenato l’orrore, ma “non vuole avere i beni di altra gente, non vuole la vendetta, solo la proprietà andata perduta”. E alla donna che sostiene siano state dette “un sacco di bugie” risponde solo: “Io sono suo ospite e non la incolpo”. E del resto Paul “vuole un’attestazione ufficiale per il presente, non un obolo per il passato”, fino a credere che, nonostante tutto il male accaduto e subito, “la gioia sia possibile”. Questa prospettiva di speranza permise ad Adler di pubblicare finalmente questo suo Un viaggio nel 1962, presso l’editore Bibliotheca Christiana, di Bonn. Dovettero trascorrere altri anni, ma infine, nel 1974, gli venne riconosciuta anche la prestigiosa medaglia intitolata a Buber e Rosenzweig, per il dialogo tra cristiani ed ebrei.
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Un viaggio è ad oggi l’unica opera adleriana di cui il lettore italiano possa godere. Oltre al grande saggio-documento dedicato al campo di Theresienstadt, un occhio di riguardo lo meriterebbe anche la produzione poetica (circa 1200 componimenti raccolti nel 2010 dall’austriaco Drava Verlag nel volume Andere Wege). Curioso e solo moderatamente sorprendente il giudizio duplice, per così dire “biforcuto” di Broch, che se da un lato, una volta ricevute da Adler le sue composizioni, scrive alla Arendt parole censorie (“Assolutamente terribili; dunque gliele eviterò, anche se mi sbarazzerei volentieri di quei manoscritti”), appena due settimane dopo, il 19 luglio 1949, indirizza una lettera ad Adler con il seguente commento: «Caro Dott. Adler, considero straordinariamente importante il fatto che nelle sue poesie Le sia riuscito di mantenere la tensione hölderliniana verso l’espressione lirica più essenziale e insieme di superare “l’hölderliniano” (non da ultime la forma hölderliniana e la confusione moderna intorno ad essa). Anche la dissoluzione del razionale nel simbolo irrazionale è riuscita nella maniera più felice e in diversi punti perfettamente. La ringrazio molto e di cuore per l’invio». A quale Broch credere? Al corrispondente innamorato o al letterato che cerca di rendere meno amara la sorte di un letterato esule come lui?
Vito Punzi