30 Giugno 2018

Addio a Donald Hall, il poeta “laureato” che sapeva ascoltare i grandi poeti. Ha fatto la più bella intervista a Ezra Pound, quando “il silenzio stava entrando dentro di lui”. In questo paese di ghiri e di marmotte nessuno lo ricorda…

Poi non fermatemi se mi incazzo. La conversione accadde grazie a Edgar Allan Poe. “Avevo dodici anni e amavo i film dell’orrore. Il mio vicino di casa sapeva della mia passione e mi disse, allora devi leggere Edgar Allan Poe. Mai sentito nominare. L’ho letto. Mi sono innamorato. Volevo diventare Edgar Allan Poe”. La conferma della conversione fu grazie a Thomas S. Eliot. “A diciotto anni, una mia amica conosceva alcune matricole di Yale che parlavano di Thomas S. Eliot. Ho risparmiato. Ho speso due dollari e cinquanta per l’Eliot avvolto in una tenue copertina blu. Ho deciso che sarei diventato poeta per il resto della vita”. Donald Hall, in effetti, deceduto il 23 giugno scorso, 89 anni di carriera lirica, è stato poeta. Poeta di razza. Una ventina di libri di poesie – il primo, tonante, del 1955, Exiles and Marriages – una quindicina di libri per bambini, sei libri autobiografici e un numero fastoso di saggi. Per i fan delle statistiche, sappiate che nell’annata 2006-2007 Donald Hall è stato ‘poeta laureato’ per gli Stati Uniti, onore sommo, capitato, dopo di lui, a Charles Simic e a Charles Wright, e prima di lui a tipi come Joseph Brodskij, Mark Strand, Robert Penn Warren, William Carlos Williams, Elizabeth Bishop, Robert Lowell, e scusate se è poco. È pochissimo, pare, per l’editoria patria, nostra, dove i poeti sono dei paria e che di Donald Hall non ha pubblicato un rigo, che scempio, arriviamo, liricamente, sempre troppo tardi, quando i poeti sono nella tomba. In Italia, di Donald Hall, sono pubbliche due interviste, quella a Thomas S. Eliot e a Ezra Pound. Pubblicava Minimum fax. Introvabili.

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Oltre a essere un poeta formidabile, Donald Hall era un narratore di genio. In una fatidica chiacchierata rilasciata alla Paris Review, ricorda l’incontro con Robert Frost. “Abbiamo giocato a softball. Era il 1945, Frost aveva 71 anni. Giocava in modo vigoroso, come un bimbo viziato. La sua squadra doveva vincere. Ricordo che Frost era disposto a tutto purché la sua squadra vincesse, anche a cambiare le regole. Doveva vincere e basta. Anche in poesia”.

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Riguardo a T. S. Eliot spiattella un dettaglio spassoso. “Tornava da una vacanza invernale alle Bahamas. Lo intervistai a New York. Magro, abbronzato, meraviglioso. Che sorpresa. Lo conoscevo da anni – non lo vedevo da un paio di anni – nel frattempo aveva sposato Valerie Fletcher. Che cambiamento! Nel 1950, quando lo incontrai per la prima volta, mi pareva un cadavere. Pallido, rigido, con una tosse continua. Questo uomo antico, pieno di gentilezze, pronto per la tomba. Dopo il suo secondo matrimonio, pareva più giovane di vent’anni”.

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Io sguazzo nel pettegolezzo, lo sapete, d’altronde è così che si scrive la storia della letteratura, e forse vale la pena ascoltare Donald Hall che parla di Ezra Pound, visto che gli ha fatto l’intervista più bella. “Era la primavera del 1960, lo intervistai a Roma, avevo paura dell’uomo che avrei incontrato. Ricordavo quella storia, leggendaria del giovane poeta americano che va a Venezia, riconosce la casa dove Pound vive con Olga Rudge, impulsivamente bussa alla porta. Forse si aspetta di vedere un maggiordomo, ma la porta viene aperta da Pound in persona. Il giovane è sorpreso, confuso, e balbetta al poeta, Come sta, mister Pound? Pound lo fissa, poi, prima di sbattere la porta, dice, Vecchio. Ad ogni modo, il Pound che ho intervistato nel 1960 non era ancora penetrato nel silenzio, ma il silenzio stava entrando dentro di lui. C’erano enormi pause tra le sue frasi… perdeva il filo del discorso… spesso la memoria fuggiva e lui era roso dalla disperazione, come se stesse scrivendo una frase alla Henry James. Era depresso – quella depressione che di lì a poco si spalancò in una voragine di silenzio. Ma in quel 1960 sono stato benissimo con lui: era gentile, dolce, affettuoso, vispo. Ci fermammo a bere un caffè in un bar. Il cameriere parve riconoscere entrambi, facendo una rapida connessione. Parlava in italiano, non lo capivo, capii solo l’ultima parola, figlio. Pound mi guardò, poi guardò il cameriere, e disse, ”.

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L’anno scorso, in gioco agostano, mi sono messo a tradurre alcuni brandelli dell’intervista di Hall e Ezra Pound, pubblicata nel numero primaverile di The Paris Review, nel 1962. Ripubblico alcuni passaggi, in onore di Hall. Un grande poeta (le sue poesie le leggete qui) che ha saputo ascoltare i grandi poeti. Che esercizio di estatica ed esimia modestia. Oggi vincono i modesti, quelli veri, i cretini.

Lei con i “Cantos” ha cambiato per sempre il modo di leggere e scrivere poesia. Un artista deve continuare a cercare nuove vie poetiche?

“Certo, l’artista è un infinito viaggiatore. Devi cercare di dire la vita come non l’ha detta nessuno, devi cercare di scrivere quello che vedi”.

Mi chiedo cosa pensa dei contemporanei…

“Non posso leggere tutto. Un uomo non può criticare ciò che viene dopo di lui. Non riesco a fare stime comparative. Vedo molta competizione, molta agitazione. Robert Lowell mi pare molto bravo”.

Un consiglio ai giovani scrittori.

“Perfezionare la curiosità. Ma questo non basta. La mera registrazione di ciò che pensa la pancia non basta. ‘Chiunque può essere spontaneo’, dicevo, da universitario”.

Lei è stato il segretario di William Butler Yeats dal 1913 al 1914. Cosa ha fatto per lui? Davvero gli ha tagliato delle poesie come ha fatto con la “Terra desolata”?

“Yeats era pieno di contraddizioni. A quarantacinque anni si è messo in testa di imparare la poesia da zero, che è come combattere una balena con le foglie. A volte è stato un idiota perfino peggiore di me. Quanto al resto, una volta, a Rapallo, gli ho impedito di pubblicare alcune cose. Gli ho detto che erano spazzatura. Yeats ha pubblicato lo stesso quei versi. Scrivendo, nella prefazione, che io gli avevo detto che erano spazzatura”.

Nel 1942 ha scritto che le sue posizioni intellettuali erano ormai divergenti da quelle di Thomas S. Eliot…

“Beh, io e Eliot eravamo diversi fin da subito. Il bello di una amicizia intellettuale è proprio nelle divergenze. Eliot era pieno di pazienza cristiana e di tolleranza, ha lavorato duramente, mi ha cercato. Quando ci siamo incontrati, abbiamo scoperto le nostre differenze. Abbiamo accettato le nostre differenze”.

Lei scrive che l’uso del linguaggio, usato dalla parte sbagliata, può essere devastante.

“Certo. Una pistola è sempre buona, dipende da chi spara”.

Un buon linguaggio può sponsorizzare un governo cattivo?

“Ciò che dice Confucio è illuminante: se gli ordini non sono chiari, non possono essere realizzati in modo adatto. Oggi la comunicazione mette ai margini la ragione. La pubblicità lavora nel subconscio: un nome viene reiteratamente ripetuto su un sottofondo musicale. Il linguaggio, oggi, nasconde il pensiero, impedisce risposte vitali. Questo è l’uso definitivo della propaganda, che mistifica la verità”.

Fino a che punto l’ignoranza è innocente?

“L’ignoranza può essere naturale o indotta. Oggi credo che l’85% sia ignoranza indotta, artificiale”.

Che cosa possiamo fare?

“L’unica possibilità di vittoria sul lavaggio del cervello in atto, è il diritto di ogni uomo di essere giudicato per le proprie idee. Non so se l’anima individuale riesca a sopravvivere. Ora ci sono i movimenti buddisti, una Circe indiana di negazione e dissoluzione. Siamo nel centro di molti misteri. Un’altra lotta è mantenere in vita i valori locali e particolari, difendere la cultura particolare, in questa terribile valanga dell’uniformità. Bisogna lottare per la difesa dell’anima individuale. Il nemico è la distruzione della storia; contro di noi agisce la propaganda e il lavaggio del cervello, il lusso e la violenza. Sessant’anni fa la poesia era l’arte dell’uomo povero: un uomo ai limiti del deserto, con qualche testo greco in tasca. Un uomo che poteva ottenere la felicità in una fattoria solitaria. Ora c’è il cinema, c’è la televisione”.

Come finiranno i “Cantos”?

“Non so scrivere un ‘paradiso’ quando ogni indizio ci parla dell’apocalisse. Più facile cedere agli inferi. Ma sto lavorando, sto raccogliendo gli schizzi dei miei voli”.

Il suo ritorno in Italia è segnato dalla delusione?

“Indubbiamente. L’Europa è dentro uno shock. Lo shock di non sentirsi più al centro di qualcosa. Ci sono tante cose che io, un americano, non posso dire a un europeo con la speranza di essere capito. Qualcuno ha detto che sono l’ultimo americano che vive la tragedia dell’Europa”.

 

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