Adam Zagajewski è tra i grandi poeti viventi, il 21 giugno scorso ha compiuto 75 anni, appartiene alla stagione di Seamus Heaney, Iosif Brodskij, Derek Walcott: effettivamente, si conoscevano tutti. Da tempo si dice che sarà il prossimo Nobel – profezia non beneaugurante –, negli Stati Uniti i suoi libri – compreso l’ultimo, “Asymmetry”, del 2018 – sono editi da Farrar, Straus and Giroux, l’editore più importante che c’è per la poesia, in Italia è stampato da Adelphi (“Tradimento”, 2007 e l’antologia “Dalla vita degli oggetti”, 2012), mentre la nota italica Wikipedia lo piglia sonoramente per i fondelli: “È noto soprattutto per la poesia Prova a cantare il mondo mutilato, uscita sul periodico statunitense The New Yorker dopo gli attentati dell’11 settembre 2001”. A volte mi pare che ci sia una cospirazione dei poetini italiani, quelli modesti, per evitare che i poeti veri approdino su queste coste; comunque, il menefreghismo è imperiale. Nato a Leopoli, Zagajewski subì il destino di molti dei suoi: costretto all’esilio in Polonia, studia a Cracovia. S’impegna contro “la falsificazione della realtà e il linguaggio ideologico promosso dalla propaganda comunista”, e i suoi testi vengono banditi dalle autorità polacche. Nel 1982 emigra a Parigi, abiterà per qualche anno negli Stati Uniti; dal 2002 è tornato a Cracovia. Nel 2017 la Spagna lo ha onorato con il “Princesa de Asturias”, andato, negli anni, a Philip Roth, Leonard Cohen, Paul Auster, Juan Rulfo… Per questo, per leggere di lui dobbiamo sfogliare “El País”. Di Zagajewski suggerisco due leccornie bibliografiche: l’antologia “Prova a cantare il mondo storpiato”, a cura di Valentina Parisi (Interlinea, 2019) e “Il fuoco eracliteo nel giardino d’inverno”, doppio volume edito da Raffaelli nel 2017, a cura di Alberto Fraccacreta.
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Lei ha scritto di “giornalismo onnipresente” e dell’altrettanto onnipresente “scienza popolare”. Esattamente ciò che abbiamo assistito in questo periodo: lei, come lo vive?
Facendo ciò che ho sempre fatto… Rispetto i bravi giornalisti, che cercano la verità e indagano le cose, con profondità, è chiaro. Eppure: il giorno appartiene al giornalismo, la notte ai poeti, ai musicisti. Dalla parte notturna dell’esistere otteniamo un po’ di forza, perché la notte non è soltanto simbolo di oscurità e paura, ma anche di arte e riflessione… D’altro lato, continuo la mia vita sedentaria: non viaggio più, seguo ciò che accade nel mondo, vivo una vita mentale.
Ha vissuto parte della sua vita negli Stati Uniti. Cosa pensa della tragedia scaturita dal caso Floyd?
La società americana è profondamente divisa. È tragico che quel paese straordinario, che ha salvato per due volte l’Europa dal conflitto bellico, sia ferito da questa profonda frattura. Ho avuto diversi colleghi afroamericani che non hanno avuto alcun problema di integrazione. Uno dei miei migliori amici è stato Derek Walcott, l’immenso poeta caraibico. Londra mi pare un buon esempio di società multirazziale. Il problema, negli Stati Uniti, è che l’America bianca non ha un leader – non lo è certo l’attuale Presidente. Allo stesso modo, gli afroamericani non sono rappresentati da qualcuno della statura di un Martin Luther King.
Minneapolis è la metafora di quella emarginazione…
I demoni non scompaiono. Come ha detto René Girard, la violenza fa parte della società… Basta guardare, ad esempio, i campi profughi attaccati dalla pandemia. La miseria, la mancanza di futuro, sono parte della violenza. Chi è come noi non può capire la profondità della disperazione di quelle persone.
Lei è nato quando c’erano i campi di concentramento, sembra avere interiorizzato l’epoca oscura dell’Europa…
Di certo, sono un figlio della guerra, anche se non sono testimone di quegli orrori. Parte della mia vocazione è non dimenticare il cuore di tenebra di quella guerra. Non è l’unica cosa che faccio, ovviamente, non sono un politico, ma uno che guarda, una presenza. Ricordo sempre che Auschwitz era a un’ora di macchina da dove vivo. In un certo senso a Cracovia, una città molto bella, si vive all’ombra di Auschwitz. Di solito, i turisti vanno a visitare il campo di concentramento e le miniere di sale, come se fossero la stessa cosa.
In diversi punti della sua scrittura allude a una “Europa divisa”.
L’Europa è un paese. Diviso. Non mi fido dei politici, sono ossessionati dal mantenimento del potere, non conoscono l’idea aristotelica di ricerca del bene comune. Cercano, piuttosto, il bene proprio, cioè stare in un luogo di comando il più a lungo possibile… Penso che il problema essenziale, ora, sia capire se il mondo stia tornando alla lotta eterna per cui tutti i paesi vogliono primeggiare sugli altri, allargando i propri domini. La storia dell’umanità si basa su questa lotta eterna, che negli ultimi anni l’Europa ha cercato di ammorbidire. Continuo a credere nell’Europa ma abbiamo bisogno di politici visionari e geniali per dare sostanza a questa idea. Non so cosa bisogna fare. Ci sono persone che agiscono, altre che pregano. I poeti appartengono a quelli che pregano. Il mondo occidentale ha avuto bisogno dei monaci per consolidarsi: i poeti sono necessari ora come allora lo erano i monaci. I poeti pregano e contemplano, non aspettatevi da loro alcuna proposta diretta per la vita sociale…
Lei menziona l’Europa come eredità di Rilke, Milosz, Machado…
Il poeta scrive che esiste una Germania dell’industria e dell’esercito e una Germania della poesia e della musica. Nei nomi che ha citato c’è l’Europa segreta della poesia, un’Europa segreta che non ha alcuna influenza politica, ma che è indispensabile come luogo per nascondersi, come riserva di energia per il futuro.
Oscurità, crepuscolo, ombra, sono parole familiari nella sua scrittura.
Per me la nozione di oscurità è ambivalente. Non esiste solo l’oscurità malvagia, la tenebra. Adoro l’oscurità di giugno, quando il tramonto è lento, gli uccelli cantano. L’oscurità è quella del crimine, ma è anche quella dei merli che fischiano. L’Europa è piena di merli, credo che sia un uccello che canta per noi. Due cose ci dona il buio: meditazione, pace, ma anche la paura. Ci saranno sempre quelle due nozioni, intrecciate, il pericolo e la salvezza, perché di notte quando senti i merli una certa felicità ti inonda. La felicità della meditazione.
Lei ha scritto: “Un mondo senza aggettivi è triste come una sala operatoria che funziona la domenica”. E menziona una serie di aggettivi: buono, cattivo, subdolo, generoso, vendicativo… Con quale aggettivo celebrerebbe il mondo di oggi?
Drammatico. Come ciò che è aperto a ogni cosa. Drammatico non significa tragico. Dobbiamo scegliere che direzione prendere.
“Ciò che accade sarà invisibile, leggero”, scrive in una poesia. “Sarà azzurro come l’occhio della ghigliottina”.
Non puoi cogliere una visione da un punto, hai sempre bisogno di un gruppo di punti. C’è qualcosa di triste nel finale di quella poesia, ma un poeta non tenta una conclusione, mira alla complessità. Credo ancora nella gioia, nella speranza.
Da Kafka ha estratto questa frase: “Nella lotta tra uno e il mondo, uno deve schierarsi con il mondo”.
C’è sempre tempo per volgersi a se stessi. Per ora, per essere onesti, occorre schierarsi con il mondo. È facile dire: sono giusto, sono buono. Il mondo è più saggio di noi. Quindi, sì, dobbiamo volgerci al mondo.
Juan Cruz
*L’intervista, di cui si traducono alcuni brani, è stata pubblicata in origine su “El País”
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Kierkegaard su Hegel
Kierkegaard diceva di Hegel: ricorda qualcuno
che erige un enorme castello, ma vive
in una semplice capanna, lì nei pressi.
Così l’intelligenza abita in una modesta
stanza del cranio, e quegli stati meravigliosi
che ci furono promessi sono ricoperti
di ragnatele, per ora dobbiamo accontentarci
di un’angusta cella, del canto del carcerato,
del buonumore del doganiere, del pugno del poliziotto.
Abitiamo nella nostalgia: Nei sogni si aprono
serrature e chiavistelli. Chi non ha trovato rifugio
in ciò che è vasto, cerca il piccolo. Dio è il seme
di papavero più piccolo al mondo.
Scoppia di grandezza.
Adam Zagajewski
La poesia è tratta da: Adam Zagajewski, “Dalla vita degli oggetti. Poesie 1983-2005”, Adelphi, 2012
**In copertina: Adam Zagajewski in una fotografia di Tomasz Wiech (tratta da qui)