Naturalmente, come tutti, anche la casa editrice Adelphi si occupa di Russia, e dunque, di riflesso, di Ucraina. Lo fa con libri analoghi, scritti da prospettive cronologiche diverse, pubblicando Stalingrado di Vasilij Grossman (secondo la ricostruzione di Robert Chandler, uscita nel mondo anglofono nel 2019), e ripubblicando i libri di Anna Politkovskaja già in catalogo da tempo, La Russia di Putin (edito in origine nel 2005), Per questo (raccolta di articoli uscita nel 2009) e Diario russo (in origine nel 2007). La lista indica un uso coerente del catalogo editoriale: quando i tempi maturano, libri vecchi di anni dimostrano una impeccabile autorevolezza. Se si accettano suggerimenti: nel 2020 la Yale University Press ha pubblicato Vasily Grossman and the Soviet Century; lo ha scritto Alexandra Popoff, russa, già autrice della biografia di Sof’ja Tolstàja, la moglie del grande Lev. Ne dicono un gran bene.
Ma non è questo il punto. Il punto – appunto – è il catalogo: l’identità di un editore, il sancta sanctorum, il corpo benedetto. Come si sa, la maggior parte dei grandi editori il proprio catalogo, nei decenni, lo ha per lo più sputtanato; Adelphi, in questa specie di Armageddon, è stata un Eden. Cura degli autori, custodia del catalogo – che in Adelphi significa: appartenere a un club, l’ingresso al tempio – e dialogo tra i libri pubblicati (uno rimanda agli altri, e viceversa, dando la fatale percezione di una ‘visione del mondo’) sono il carisma Adelphi, la missione di un editore degno. Eppure, Adelphi non è più l’Adelphi: l’editrice più ambita d’Italia, la più elegante, non è più la più snob. Le mancanze, così, il fatuo menfreghismo di chi, come gli altri, deve vendere un marchio prima che un contenuto, piazzarsi in classifica, fare il piazzista, hanno l’odore di un barrito.
Esempio. Se si vuole mungere dal proprio catalogo qualcosa che pertenga all’‘attualità’ – opera di alto cinismo, non disutile – Adelphi ha in sé uno dei libri più anomali e spiazzanti sull’era sovietica. Lo ha scritto Lidija Čukovskaja, riferendo dei suoi Incontri con Anna Achmatova 1938-1941. Pubblicato ne ‘La collana dei casi’, nella traduzione di Giovanna Moracci, nel 1990 risulta “temporaneamente non disponibile” presso la casa editrice e non acquistabile – se non usato, a caro prezzo – nei portali che vendono libri. Che tristezza, che peccato, che incuria. Il libro, in realtà, è bellissimo: l’etica stalinista è annientata dall’aristocratica noncuranza di uno dei pochi, rari poeti del secolo, con il gesto nobile, tartaro, feroce di una donna ancorata al verbo, sempre ultimo, esegeta dei più intimi sussulti. Ad Anna Achmatova – insieme a Boris Pasternak, la superstite di un’epoca che amava sterminare i poeti – tolsero tutto: il marito, Nikolaj Gumilëv, anticomunista, fucilato nel 1921 dai bolscevichi; il figlio, Lev, arrestato poco più che ventenne, nel 1935, poi definitivamente, dal ’38, perché di genia controrivoluzionaria. Le impedirono di pubblicare, decretarono che i suoi versi erano afflitti da “pessimismo nevrotico, misticismo, culto per il passato aristocratico della Russia, erotismo malato”, fu espulsa dall’Unione degli scrittori. Visse di stenti, la poetessa più letta del suo tempo; le sue poesie, proibite, passavano di labbro in labbro, come al vaglio del fuoco. Lo stratagemma con cui le poesie di Anna Achmatova varcarono, elettrificate dal samizdat, l’era atroce è narrato dalla Čukovskaja con parole pari a un monito, ben più esemplari di qualsiasi protesta esibita in tivù, di qualsiasi saggio ribellista:
“La camera di tortura che del tutto concretamente inghiottiva interi quartieri della città e idealmente tutti i nostri pensieri, nel sonno e nella veglia, la camera di tortura che gridava la sua grossolana menzogna da tutte le colonne dei giornali e da tutti i radio-megafoni, esigeva da noi che non nominassimo il suo nome invano, neanche tra quattro mura, a quattr’occhi… Anna Andreevna mi leggeva versi di Requiem in un sussurro… d’un tratto, nel bel mezzo del discorso, si interrompeva e indicandomi con gli occhi il soffitto e le pareti, prendeva un pezzetto di carta e una matita; poi diceva ad alta voce qualcosa di molto frivolo, ‘Volete del tè?’, oppure, ‘Come siete abbronzata!’, scriveva velocemente fino a riempire il foglietto e me lo porgeva. Io leggevo i versi e quando li avevo impressi nella memoria, glieli restituivo in silenzio. ‘L’autunno è venuto così presto’, diceva Anna Andreevna ad alta voce e, acceso un fiammifero, bruciava il foglietto in un posacenere. Era un rito: le mani, il fiammifero, il posacenere – un rito splendido e doloroso”.
Il libro, assente la denuncia ‘sociale’, per fortuna, la prodiga rabbia, non è privo di civetterie: la Achmatova rievoca i giorni parigini con Modigliani, le lettere di Pasternak, l’amicizia con Mandel’štam; il carisma mette in scacco il regime, inopportuno e brutto; di fronte alla nitidezza di un verso sembra inerte, fugace tratta di falene, la protervia dei potenti. Il 5 agosto del 1940, Anna Achmatova firma una poesia sulla Parigi occupata dai nazisti, l’incipit è formidabile:
“Quando sotterrano un’epoca
non risuona il salmo funebre,
è all’ortica, alla bardana
che spetta abbellirla”.
Il libro è fitto di sentenze – “no, il dolore non impedisce di lavorare” –, insegna la sontuosa arte del sopravvivere nonostante il massacro, con rigore invitto. Forse per questo, oggi, nell’era della cronaca ‘diretta’ o eterodiretta e di un brutale ‘così va il mondo’, è ritenuto inutile. Eppure, è forse il libro più vivido, più vivo, sulla Russia che sia dato di leggere, oggi.
Scrittrice di talento, scampata alle purghe staliniane – in cui fu inghiottito e ucciso il marito, il fisico Matvej Petrovič Bronštejn – Lidija Čukovskaja è per lo più dimenticata dal nostro Paese: nel 2019 Calabuig ha pubblicato La casa deserta. Inseguiva i grandi poeti, Lidija: conobbe Marina Cvetaeva, di cui delineò un ritratto; nel 1966 si ribellò pubblicamente all’estetica comunista propalata dal premio Nobel Michail Šolochov:
“Compito degli scrittori non è perseguitare, ma intercedere… Ecco cosa ci insegna la letteratura, nei suoi migliori rappresentanti… Un libro, un racconto, una novella, un romanzo, in una parola le opere letterarie tutte, valide o meno, geniali o insignificanti, false o veritiere, non soggiacciono a nessun tribunale né penale né militare, ma possono essere giudicate soltanto dalla letteratura stessa e dal pubblico. Il Tribunale penale non ha poteri sulla letteratura… Voi avete parlato da apostata della letteratura. La storia non dimenticherà la vostra infamia. Quanto alla letteratura, essa saprà vendicarsi da sé, come si vendica di tutti coloro che si sottraggono ai pesanti doveri ch’essa impone”.
In questo caso, l’editoria si è vendicata, impunemente, di tutti, con indistinta indolenza, bastarda ignavia, degli aguzzini e delle vittime, dei giganti come degli infimi.
Per capire la portata d’emblema – o meglio: l’ortodossia del disprezzo – di Anna Achmatova, bisogna leggere il suo sommo allievo – la poesia è sempre sequela e iniziazione e passaggio di consegne – setacciato, pure lui, dal delirio sovietico, Iosif Brodskij. In Il canto del pendolo – edito da Adelphi, ancora in catalogo – Brodskij dedica un saggio ad Anna Achmatova, La Musa in lutto, in cui scrive, tra l’altro:
“Se l’Achmatova continuò a scrivere, è perché la prosodia assorbe la morte e perché si sentiva in colpa per essersi salvata… L’Achmatova tentava semplicemente di far fronte a un’esistenza svuotata di ogni significato, al vuoto che di colpo si apriva davanti a lei dopo la distruzione delle fonti di ogni significato… Il grido di compassione con cui sono rese le varie voci del Requiem si può spiegare solamente con la fede ortodossa dell’autrice; il grado di comprensione e di capacità di perdono che dà origine al lirismo straziante, quasi insostenibile, di questo componimento soltanto con la straordinaria qualità di un cuore, di un io e col senso del tempo innato in questo io. Nessuna religione aiuterebbe a comprendere, ancor meno a perdonare, meno che mai a sopportare questa doppia vedovanza decretata dal regime, questo destino del figlio, questi quarant’anni di silenzio coatto e di ostracismo”.
Che alla poetessa dell’amore desolato, virile o virginale, sia stato dato di dire la morte, la vigilanza, lo strazio, la veglia sul prigioniero, l’agonia assurda, è affare che si confà alle grandezze e che nessun vilipendio editoriale può svilire. Il figlio Lev non capiva la madre, preda di un passato illustre, ostaggio del proprio genio.
Sfollati da Mosca, nell’ottobre del ’41, Lidja e Anna si incontrano a Čistopol’; da lì, insieme, si spostano verso Taškent. Lidja ricorda “l’incontro con la Cvetaeva e la morte della Cvetaeva”. Anna ha 52 anni, è novembre, “deserto, stiamo fermi molto a lungo fra due stazioni”. Imbambolata e veggente, “Anna Andreevna si è rianimata… vede molto più di me”. La Achmatova vede, all’improvviso, “un’aquila!”. Il rapace si getta nel fiume, al modo di un sigillo.