“Il cuore trionfa, più forte di tutto”. Paul Valéry, il poeta maledetto
Filosofia
Franco Rella
“Solo di questo abbiamo bisogno: grande solitudine interiore”
Cultura generale
Per prima cosa passarono da Milano, “città gigantesca, da incubo”, solo perché avevano perso i bagagli, poi giù verso la Riviera ligure, Rapallo, San Michele di Pagana, i paesi diventati una indelebile pagina delle letteratura inglese grazie a Ezra Pound, William Butler Yeats, Ernest Hemingway. Era aprile, era il 1947, quando Dylan Thomas, questa specie di Bacco malato, icona caravaggesca della poesia occidentale, questa specie di Rimbaud redivivo, folle&pingue, nato a Swansea, la città con il cigno sullo stemma, Galles, il brutto anatroccolo diventato il più grande poeta del dopoguerra, arrivò a Firenze.
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Del fatidico ‘Giubbe Rosse’, dove s’affollavano i futuristi e Soffici brindava con Papini, Dylan Thomas, alieno ai bagliori dei club letterari, ricorda il tavolino. Lì sopra scrisse una delle tante, patetiche, lettere livide di lacrime alla moglie Caitlin, enormemente tradita (lei ricambiava, per altro, con godimento): “Posso solo dire che ti amo come non mai; questo significa che ti amo per sempre, con tutto il cuore e tutta l’anima, ma questa volta come un uomo che ti ha perso. Ti amerò. Davvero ti amo. Sei la donna più bella che sia mai vissuta”. Quando i poeti arrivavano a omaggiarlo, Dylan si nascondeva. “Qualche volta andava in centro a Firenze a passare una serata nei caffè. Attorno si radunavano gli intellettuali. Thomas fissava nel vuoto e si addormentava. Una fonte attendibile racconta che una volta si nascose nel guardaroba per evitare di incontrare uno scrittore italiano venuto a fargli visita” (Paul Ferris, in Dylan Thomas. Essere un poeta e vivere di astuzia e birra, Mattioli 1885, 2008).
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Preferiva la compagnia di Luigi Berti, grande traduttore dall’inglese: si davano, insieme, a memorabili bevute. I poeti italiani erano noiosi già all’epoca, evidentemente. Eppure, Dylan Thomas, poeta puro, che depurò la poesia dall’eccesso culturale, riportandola alla sua natura formale e ferina, ha influenzato una bella fetta della lirica italiana. Eugenio Montale e Piero Bigongiari lo onorarono con le loro traduzioni (modeste quelle di Montale), uno dei grandi poeti di oggi, Alessandro Ceni, nasce ispirato da Dylan Thomas. D’altronde, anche Dylan ha un antico debito verso l’Italia.
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Siamo nel 1932, o giù di lì, Dylan è un “ladro del fuoco”, direbbe Rimbaud – l’unico paragone decente – uno che ha il fuoco lirico dentro. Nel 1932 Dylan Thomas ha diciotto anni: l’anno successivo sarebbe sbarcato a Londra con una poesia in tasca, destinata a una fama infinita, And death shall have no dominion, che strapperà sospiri a Sua Maestà Lirica Thomas S. Eliot. Di lì a pochissimo, nel 1934, Dylan Thomas sorge alla poesia inglese con la prima raccolta, 18 Poems. Nei primi anni Trenta, giovanissimo, Dylan Thomas pratica il giornalismo (sul South Wales Daily Post) e fa teatro, presso il Little Theatre, con la sua amica Ethel Ross.
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Precocissimo, uno sparo, va considerata la verve ‘teatrale’ di Dylan Thomas. Dal 1945 la BBC ingaggia Dylan per una serie di conversazioni radiofoniche: lui è un po’ druido, un po’ aedo, un po’ pagliaccio. Il 18 giugno del 1946 delinea il poeta così: “un poeta è poeta soltanto per una minuscola parte della sua vita; per il resto è un essere umano, e uno dei suoi doveri è di conoscere e di sentire quanto più è possibile tutto ciò che si muove intorno e dentro di lui, così che la sua poesia possa essere il suo tentativo d’esprimere il culmine dell’esperienza umana in questa nostra strana terra che ha tutta l’aria di voler andare all’inferno”.
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La poesia, estremamente, è una attitudine, un Nord delle ossa, una postura. Poi, nell’eventualità, si scrive. Dylan Thomas ci insegna che, beh, si può vivere come poeti – affollati da una strana disperazione, da una straordinaria gioia.
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Gli archivi di Ethel Ross, ora, sono al Swansea University Archives, ma fu Roberto Sanesi, supremo anglista e grande traduttore delle Poesie di Dylan Thomas (la prima fu nel 1953, per Guanda, aveva 23 anni…), a fare la scoperta. “Alla ricerca di testimonianze sugli anni giovanili di Dylan Thomas, nel 1958 incontrai a Swansea Ethel Ross, cognata del pittore Alfred Janes. Nel 1932, quando Miss Ross conobbe per la prima volta Dylan Thomas allo Swansea Little Theatre, il giovanissimo poeta era già un ‘veterano’ delle peripezie filodrammatiche di quel periodo di provinciali tentativi di revival nella piccola sala di tipo parrocchiale incastrata fra il mare e la collina a Southend, Mumbles”. Ethel mostra a Sanesi “tre fogli battuti a macchina”. Titolo: Lunch at Mussolini’s. Pranzo da Mussolini. Questa la testimonianza di Ethel: “Questo particolare sketch (Thomas) me lo diede per metterlo in scena al Little Theatre. A quel tempo ero io che di solito scrivevo degli sketches comici per i parties che si tenevano dopo ogni spettacolo; ma quello non venne mai rappresentato… Comunque, il testo l’ho ancora io”. Il testo viene pubblicato nel 1970 sulla rivista Il Dramma e riproposto nel 1972, da M’Arte Edizioni in Milano, in un libro artistico, stampato in 100 copie numerate, con silografie di Mino Maccari. Ora, per altro, è leggibile in un sito italiano dedicato a Thomas, con parecchi materiali interessanti.
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Beh, pare una ‘chaplinata’, qualcosa tra l’atto buffo, la smorfia di Chaplin, l’esigenza comica dei Marx, lo sgorbio di Buster Keaton. Il Dux è un tipo assillato dalla famiglia, che brontola e che agisce d’impeto, come una bestia fragile, contro chi non la pensa come lui. Siamo negli anni Trenta, in Galles, e Benito Mussolini è osservato da un ragazzo di 18 anni con l’ossessione per la poesia e la fantasmagoria biblica in corpo. Il guizzo geniale mi pare proprio quello: guardare il Duce, di cui è nota la prorompente oratoria pubblica, nell’atto privato, incalzato dalla moglie sul cibo (conta soltanto quello e guai a dire che la cucina italiana è modesta), che si premura di sottolineare, niente aglio, per favore, perché “stasera devo tenere un discorso patriottico”, e quando ha l’indigestione scatena incidenti diplomatici e guerreschi. D’altronde, direi, si governa come si caga, il cervello è l’appendice dell’intestino. (d.b.)
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“Pranzo da Mussolini”
Un atto unico di Dylan Thomas
La stanza da pranzo nella casa di Mussolini a Roma. Entra Mussolini. Indossa la sua uniforme più pittoresca e la migliore della sue espressioni inscrutabili. La famiglia scatta sull’attenti. Lui si siede. Loro si siedono.
MUSSOLINI (versandosi il caffè). Insomma, questo è troppo. L’acqua per la barba era fredda un’altra volta. Lo scaldabagno non funziona, e il bagno è in condizioni schifose.
LA MOGLIE. Beh, ma cosa pretendi caro, se ci vuoi tenere una mitragliatrice?
MUSSOLINI. Bisogna pure che mi difenda, no?
LA MOGLIE. Ma non nella stanza da bagno, caro.
MUSSOLINI. Bah! (Sbucciandosi una banana). E guarda questa banana, è marcia. Possibile che non vada mai bene niente in questo posto?
LA MOGLIE (compiacente). No, caro. Spero ti sia ricordato di cambiarti la biancheria.
MUSSOLINI. Certo. E di far prendere aria alla camicia. E di pulirmi i denti. E di lavarmi dietro le orecchie.
IL FIGLIO. Perché papà s’è messo l’uniforme oggi? Deve andare a posare una prima pietra o a inaugurare una biblioteca pubblica?
LA MOGLIE. Sta’ zitto, caro. Deve andare a farsi fotografare.
MUSSOLINI (secco). Piantala, signorino. (Il ragazzo comincia a frignare. Le donne si guardano).
LA MOGLIE. Benito! (Nessuna risposta) Benito!
MUSSOLINI. Insomma, cosa c’è? Non ce l’ha un fazzoletto questo ragazzo?
LA MOGLIE. Sì, caro.
MUSSOLINI. E allora perché non lo adopera? (Il ragazzo ricomincia a frignare) Non lo vedi che sono occupato? Stasera ho un discorso importante.
LA MOGLIE. Allora non ti dimenticare l’ombrello, caro, sembra che stia per piovere.
MUSSOLINI. Bah!
LA MOGLIE. A proposito del vestito nuovo di Edda…
MUSSOLINI. E t’aspetti che mi metta a discutere d’una faccenda del genere?
EDDA. Dovrò pure averne uno, no?
MUSSOLINI. Non essere impertinente.
LA MOGLIE. La bambina ha ragione. Se non facciamo alla svelta, perdiamo la svendita.
MUSSOLINI. Vorrei sapere a cosa serve cercar di fare il dittatore quando uno ha famiglia.
LA MOGLIE. Vorrei che tu non fossi così violento, caro. Quasi rompevi un piattino.
MUSSOLINI. Ma come osa? Come osa? Io lo faccio fucilare. Lo faccio fare a pezzi. Lo faccio…
LA MOGLIE. Qualcuno che non è d’accordo con te, caro?
MUSSOLINI. Che non è d’accordo? Quell’infernale direttore di tutta ’sta porcheria ha avuto il coraggio di criticarmi. (Afferra il campanello).
LA MOGLIE. No, un minuto caro. Non abbiamo ancora deciso cosa si mangia a pranzo.
MUSSOLINI. Pranzo! Quando i destini dell’Impero tremano?…
LA MOGLIE. Sì, caro. Non tornerai tardi anche oggi, eh?
MUSSOLINI. Non lo so. Come faccio a saperlo. Perché?
LA MOGLIE. Se continui ad arrivare in ritardo per i pasti non riusciremo mai a tenerci in casa una donna di servizio.
MUSSOLINI. Mai sentita una cosa simile. Sei tu che ti devi imporre.
LA MOGLIE. Sì, caro. Forse ti piacerebbe cominciare con la cuoca?
MUSSOLINI (in fretta). Io… eh… certo che no. Ho già abbastanza da fare. (Suona il campanello. Entra il segretario).
IL SEGRETARIO. Eccellenza?
MUSSOLINI (mostrando il giornale). L’avete visto?
IL SEGRETARIO. Sì, Eccellenza. La polizia segreta l’ha arrestato un’ora fa. Vogliono sapere cosa gli devono fare.
MUSSOLINI. Fare? Dobbiamo essere indulgenti. Era un vecchio amico di mio padre. Diciamo vent’anni di galera in una fortezza e un’ammenda di tre milioni.
IL SEGRETARIO. Molto bene, Eccellenza. E c’è un’altra questione.
MUSSOLINI. Un’altra?
IL SEGRETARIO. Al Lido due tedeschi si sono lamentati della cucina dell’albergo.
MUSSOLINI. Si sono lamentati della cucina italiana? È un insulto. Immediata rappresaglia con l’Ambasciatore tedesco.
IL SEGRETARIO (si inchina e si ritira). Molto bene, Eccellenza.
MUSSOLINI. Ecco come ci si deve comportare… Con fermezza. A fronte alta. È così che Napoleone…
LA MOGLIE. Sì, caro. Ma cosa vorresti a pranzo?
MUSSOLINI. Pranzo! Ma che importanza ha? Lo sai che non bado a cosa mangio.
LA MOGLIE. Cosa ne diresti di un po’ di vermicelli, allora?
MUSSOLINI. Assolutamente no. Li abbiamo mangiati lunedì.
LA MOGLIE. Ma sono nutrienti, ti fanno bene, caro.
MUSSOLINI. Ti ho detto niente vermicelli. Non facciamo che mangiare vermicelli.
LA MOGLIE. Magari potresti pensare tu a qualcosa.
IL FIGLIO. Maccheroni.
EDDA. Ssssh!
MUSSOLINI. Cosa vuoi dire, signorina? Ssssh? Suppongo di poter avere maccheroni se mi va di avere maccheroni, sì o no?
LA MOGLIE. Sì, caro. Ma ricordati cos’è successo l’ultima volta che abbiamo mangiato maccheroni.
MUSSOLINI. Eh?
IL FIGLIO. Sì, papà. Ti sei preso l’indigestione e hai mandato la flotta contro la Grecia.
MUSSOLINI. Come osi? Sai quanta gente è morta per avermi detto molto meno?
LA MOGLIE. Sì, caro, ma si può sapere cosa vuoi a pranzo?
MUSSOLINI. Te l’ho detto che non mi interessa. Basta che non ci sia l’aglio. Stasera devo tenere un discorso patriottico.
LA MOGLIE. Vermicelli, allora?
MUSSOLINI. Bah!