La maschera pallida ed emaciata di Lincoln, l’orgogliosa fisicità de L’ultimo dei Mohicani, il capitano Achab dell’oro e dei deserti raffigurato ne Il petroliere, i baffi demoniaci del macellaio di Gangs of New York. Sono solo quattro incarnazioni, tra le sparute presenze sul grande schermo (solo 11 film negli ultimi 28 anni dopo l’Oscar virginale ottenuto nel 1989 per Il mio piede sinistro) che Daniel Day Lewis ha distillato per coloro che hanno avuto la fortuna di ammirarlo sul pianeta Terra. Ora l’addio, come solo i giganti sanno annunciare e portare a compimento: come ufficializzato prima dell’estate, l’attore anglo-irlandese balla l’ultimo valzer sul grande schermo in Phantom Thread, opera del cineasta americano Paul Thomas Anderson (ricorderete la pioggia di rane di Magnolia o, ancora meglio, il felice sodalizio proprio con Day-Lewis nel già citato Il petroliere, correva l’anno 2007). Ambientato nella Londra post-bellica, il film delinea la vicenda del famoso stilista Reynolds Woodcock e della sorella Cyril, al centro della moda britannica, impegnati a vestire reali, stelle del cinema, ereditieri, dame e debuttanti. Paul Thomas Anderson dirige e allinea le luci (uscirà dalla china involutiva che gli arabeschi della sua produzione artistica stanno prendendo?), Jonny Greenwood dei Radiohead conferisce il suono alle ossessioni dell’artista, Daniel Day-Lewis presta corpo (e anima) a Woodcook, il North Yorkshire inglese funge da sfondo. Il resto sono amori che fanno a pezzi vite e inquietudini diffuse, come si può intuire dal primo trailer ufficiale diffuso proprio nella serata di ieri (il film esce negli Stati Uniti a Natale in “limited release” in perfetto timing pre-Oscar, per l’Italia al momento una data non c’è). La tessera definitiva di una rassegna di volti destinati all’immortalità sotto forma di nitrato d’argento, materia di cui sono composti i nostri sogni e la celluloide che li veicola
Marco Brezza.