Consapevole della sua malattia, letale, un bel giorno del 1901 Marcel Schwob s’imbarcò per le Samoa. Voleva onorare la tomba del suo amico Robert Louis Stevenson, che era morto laggiù, sette anni prima. Le lettere che scrive all’amata Marguerite Moreno, attrice di fulgida bellezza, già onorata di un ricco bouquet di lettere (“Vorrei essere ucciso da te. Perché la morte sarebbe ancora te”), sono uno dei più bei romanzi ‘di viaggio’ mai scritti. “Le stelle nuove, il mareggio geometrico e liscio nelle sue curve, la desolazione della costa, il volo silenzioso e veloce degli albatri bianchi col becco rosa e le ali adorne, il vento glaciale del sud: tutto annuncia il deserto del polo australe che manda fino a noi il suo tenebroso soffio”. Discendente di un soldato crociato, figlio di un diplomatico con il tic per la letteratura – era amico di Jules Verne – Marcel intrattiene un rapporto epistolare con Mark Twain a 14 anni ed è – parola di Jorge Luis Borges – tra i massimi scrittori di racconti di ogni tempo. Le sue Vite immaginarie, dalla “perfezione irritante” (Colette), sono un libro ‘di culto’: Schwob definisce per flash, con la perizia di un calligrafo, con il genio di chi sa istoriare un Giudizio Universale su chicco di riso, l’esistenza di grandi (Empedocle, Lucrezio, Petronio, Paolo Uccello), piccoli (Katherine la Merlettaia), sconosciuti (Stede Bonnet) o notissimi (Cecco Angiolieri, il capitano Kyd) personaggi, con l’idea che “l’arte si pone dalla parte opposta delle idee generali, non descrive che l’individuale, non desidera che l’unico”. Marcel Schwob, genio dalla salute fragile – morì, neppure quarantenne, nel 1905 – è nato esattamente 150 anni fa. In Francia, una associazione specifica allinea le novità editoriali, qui: http://www.marcel-schwob.org. In Italia, le Vite immaginarie sono edite da Adelphi, e il fatidico epistolario dalle Samoa è riprodotto in Il terrore e la pietà (Einaudi, 1997). Si potrebbe fare di più.