20 Agosto 2020

Benvenuti nell’opera di Stefan Zweig, lo scrittore eccezionale. (Wes Anderson, dopo averlo letto, è andato in estasi)

C’è stato un tempo in cui i romanzieri che andavano per la maggiore erano austriaci benché l’Impero austro-ungarico dove erano nati non esistesse più. Uno tra gli ottimi era Stefan Zweig (1881-1942) che oggi leggete grazie alla cordata Adelphi-Castelvecchi-Ponte alle Grazie e altri che non saprei dire perché i suoi libri li ho dispersi tranquillamente.

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A vent’anni Zweig stampò le sue poesie, due anni dopo le prime storie, tutte sentimentali ma passate dal colino di Balzac, dell’Inghilterra secondo Dickens. Storie passate anche al vaglio di Dostoevskij, per certi monologhi accecanti, orripilati. Zweig come Dostoevskij adopera spessissimo la prima persona, cosa che non deve farci velo sul fatto che è narratore immerso e onnisciente. Onnisciente del male, soprattutto.

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Poi, da bravo ebreo col ciuffo alla moda nella Vienna che conta, si laurea su Taine, uno storico francese che secondo un genio (Stevenson) era prima di tutto uno scrittore. In seguito, molto prosaicamente, gli si apre la vena: poesie a mani basse, pezzi teatrali, i primi saggi, storie di tradimenti (sempre ben tenuti segreti, per darli in pasto al lettore e alla lettrice perché solo lui o lei è degno di sapere).

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Scrisse anche storie per bambini e buone riflessioni sui suoi modelli letterari e soprattutto umani per capire, dopo tanti giri di boe, di esser nato per scrivere pensando alle donne. Vecchio stratagemma editoriale. Il risultato di questa precoce vocazione all’intrattenimento furono Notte fantastica (Adelphi), una sciarada degna dei bei tempi, delle milleeunanotte; Viaggio nel passato (Ibis) che squarcia il Novecento mostrando la sincerità del cosiddetto tradimento; soprattutto, arrivò Estasi di libertà recuperata tra le carte inedite solo nel 1982 (ultima edizione Clichy).

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Wes Anderson dopo aver letto Estasi che per gli inglesi è la Post office girl si è eccitato tanto da girare Gran Budapest Hotel. Arriviamo anche a lui, con calma…

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Chi cercasse direttamente i suoi capolavori dovrebbe prendere in mano certi libretti che se ne vanno via in un’ora e mezza: Mendel dei libri (Adelphi) storia di amore per l’erudizione e di odio per la storia che questa erudizione cancella; Gli occhi dell’eterno fratello (anche lui Adelphi), una specie di ritaglio da manoscritto indiano che vuol essere apologo e dirci l’impraticabilità della giustizia secondo il ‘costi quel che costi’.

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Zweig è narratore e lo sa al punto che a volte sfocia nell’allegoria. Prendete ad esempio Novella degli scacchi (Einaudi) dove si affrontano in un duello alla scacchiera, ma si tratta di vita e morte, un esule ebreo e una spia nazista durante un viaggio in nave verso il sud America. È un incubo lucido, senza le pastoie stilistiche di Schnitzler, senza alibi freudiane. Questo nel 1942 quando era già scappato in Brasile con la seconda moglie. Perché così lontano?

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Zweig era uno scrittore nel senso che vendeva mercanzie, non era un artista, ecco, non aveva il tarlo di Mann, lo charme adorabile di Hesse, l’estro ebbro di Rilke, la forza espressiva e agonistica di Schnitzler e nemmeno la sapienza arcana di Hofmannstahl. Era un venditore e varcò il confine.

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Però era accorto, conosceva chi bisognava conoscere e sapeva tenere stretti i rapporti con la sua lingua mitteleuropea. Zweig fu uomo del suo tempo ed ebbe ottimi rapporti col rivoluzionario Maksim Gor’kij e col più pacifista degli scrittori (più pacifista che scrittore, tutto sommato), Romain Rolland. E poi coi sommi parlava da pari a pari. Per i golosi segnalo le lettere con Rilke, La coppa di silenzio. Per i veterani della politica, invece, quelle con Joseph Roth, L’amicizia è la vera patria.

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Se fossi Citati potrei permettermi di dire che alcune novelle di Roth hanno titoli scelti dal suo amico Zweig. Il secondo amore, faccio per dire…

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Si rifugiò in Sudamerica per sfuggire ai nazisti, come il protagonista della Novella degli scacchi e qui rinunciò a combattere le sue paure, se ne andò come altri scrittori con un gesto incomprensibile di violenza anche se il suo modo fu meno plateale in confronto a Hemingway.

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Zweig aveva scritto, come un Manfredi in frac, romanzi storici ispirati come Magellano (ultima edizione BUR) e altri più corrivi e scorrevoli come Vespucci (edizione Piano B). Aveva inventato addirittura una sua storia personale del medico eretico Michele Serveto perseguitato da Calvino. In Brasile, nei suoi ultimi mesi, paragonava Hitler a un persecutore religioso quale era stato, per un periodo molto lungo, il puritano Giovanni Calvino. Davanti a tanta barbarie, meglio togliere il disturbo.

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Scrivere storie incantate era il suo modo di giocare con le paure, come quando fa a pezzi il suo passato da ebreo narrando della Menorah, dell’arca con le tavole della Legge. Bellissimo, leggetelo con Skira, Il candelabro sepolto, perché anche lui era ebreo e questo non voleva trascurarlo, o meglio lo immergeva nell’oblio per dire che era pur sempre da qualche parte, non si sa bene dove.

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Per venire a noi. Resta il film di Wes Anderson, Gran Budapest Hotel dove Zweig è ovunque, dal bottone del cameriere in ascensore fino al piglio narrativo della voce fuori campo. Insomma Zweig sembrerebbe sdoganato: fino a quarant’anni fa, ubriachi di ideologie settarie, si tendeva a vedere Zweig senza magnanimità come un sempliciotto.

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Ecco ad esempio il giudizio saputello del pupillo di Auden, Spender, sulla New York Review (1982): “Negli anni Trenta era letto dalla Francia all’Unione Sovietica ma da adolescenti, da ragazze adolescenti. Lavori come Amok o Lettera a una sconosciuta [entrambi Adelphi] erano particolarmente eccitanti per le adolescenti di cinquant’anni fa. Avevano tutte le ragioni per trovare il plauso del ceto medio europeo. Sono tutte storie ad ambiente altoborghese (hochbuergerliche) nella Vienna di inizio Novecento con la sua immensa facciata di rispettabilità e buone maniere. Di fatto, proprio quella era la facciata. Quel che ci dicono le storie di Zweig, e a volte ci dicono solo una cosa, è che dietro la facciata ci sono storie segrete di passione – sesso, terrore, isteria, folle infatuazione. Chiaramente i più intelligenti e sensibili tra gli adolescenti erano solleticati a farsi raccontare che quella sciocca rispettabilità era un frontone falso”.

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Il riscatto è venuto dall’editoria nostrana, da questa Milano adelphiana che si atteggia a Vienna in ritardo, infine da Wes Anderson, dal barbaro americano che stritola la cinepresa per inquadrare un’Europa affondata nelle nuvole naziste. Anderson all’uscita del film nel 2014 sul Daily Telegraph ha impiegato parole più nitide di tanti critici: “Dopo aver letto due suoi libri incominciai a imparare di persona delle cose un tantino diverse da quel che mi diceva la sua voce di narratore. Questo perché molte delle sue opere sono scritte dal punto di vista di qualcuno che si mostra come abbastanza innocente che si addentra in territori oscuri, e io da parte mia sentivo sempre che Zweig era una delle persone più riservate che ci fossero e che sì, esplorava zone che tutto sommato non aveva mai conosciuto. Di fatto, le cose non stavano così. Aveva provato anche lui tutto quel che si può provare durante il cammino”.

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Zweig era la mia lettura da divano, di un divano che ti cattura e sparisci insieme all’autore e se riemergi è tardi, molto è successo però nel frattempo hai goduto della vera vita, quella dei valori. (Tradotto in spiccioli: leggendo la novellina di Zweig capii che la fanciulla X uscendo dalla camera di college con Y per andare al campo da tennis non era stata per nulla fedele a Z il quale, del resto, non si trovava nella nostra città).

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Per nostra fortuna ci sono un paio di siti bilingue tedesco italiano che offrono le poesie giovanili di Zweig. Ne scelgo solo una da qui.

Brocche inclinate

Tremanti ora vediamo le brocche inclinate
di passioni benedette all’improvviso
come quando una domanda vola selvaggia e malinconica
attraversando le ore.

Non era così dolce prima mentre camminavamo:
era solo nostalgia, per quanto sacra,
e oscurità dappertutto che faceva apparire
la promessa come fosse la bellezza definitiva.

Perché prima volevamo coltivare solo un sogno?
Mentre ora siamo vita meravigliosa
e lasciamo fluttuare in fraternità le anime,
quasi fossero stelle in volo.

Perché prima eravamo persi nei sogni dei giardini imbiancati,
quelli di cui nessuno sa dove si nascondono le porte,
ignorando la semplice povertà di adesso
che si scioglie nella nostra mano calda?

Non era forse più dolce, prima? Erano bugie d’amore che
rendono dolorosa la domanda presente,
e tremano le brocche inclinate dalle nostre giovani passioni.

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Forse Zweig è “solo” l’affetto, l’affetto di chi sa e vuole credere che il vero modo di viaggiare è percorrere uno spazio immenso dentro di sé, spazio scivoloso e quasi sempre ignoto, che potrebbe anche farci diventare lettori migliori, cosa che non sempre è lo stesso che essere persone migliori, perché quello si apprende dopo, fuori dal libro e un po’ alla volta, con fatica e con gesti gratuiti. Forse, chissà, man weiss nicht.

Andrea Bianchi

*In copertina: Ralph Fiennes in “Grand Budapest Hotel” (2014) di Wes Anderson, tratto, in parte, dai romanzi di Stefan Zweig

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