11 Giugno 2019

“Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”: leggete Evgenij Zamjatin, l’antidoto contro l’esteticamente corretto

La frattura, qui, è scomposta. Intanto: bibliografia liofilizzata e un titolo. E poi: poetica in forma di ideologia. Partiamo dalla seconda. Dei molteplici sguardi che ci sono dati, ci accontentiamo di uno. Narrare, oggi, significa quasi sempre pattinare sulla superficie: una forma di giornalismo con pathos, far cronaca della propria fantasia. Occorre ‘farsi capire’ – mica capire! Non si elabora, dico, altra strategia narrativa che quella dell’italiano in America, mero scimmiottamento della trama. Allenamento alla stupita stupidità dei ‘fatti’. Alienazione dalla lingua – perché tutto ciò che è lingua sa di intransigenza, ha una autenticità al diamante, insopportabile.

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Di Evgenij Zamjatin, ad esempio, sappiamo solo Noi, la cui scrittura iniziò un secolo fa, fu pubblicato per la prima volta, in inglese, nel 1924, “è il capostipite di tutte le distopie del Novecento”, come insegna la ‘quarta’ dell’edizione Mondadori, a cura di Alessandro Niero, pubblicata nel 2018. La versione Mondadori ripiglia quella Voland del 2013, segue quella di Barbara Delfino per Lupetti del 2007 e soprattutto quella di Ettore Lo Gatto pubblicata da Garzanti e da Feltrinelli. Insomma, Zamjatin è risolto lì. Morto nel 1937 a Parigi, dove era riuscito a espatriare nel 1931, grazie all’avallo di Maksim Gor’kij, Zamjatin, esaltato come un nuovo Gogol’, fu ‘rivoluzionario’, poi spina nel fianco della Rivoluzione, con la penna intinta nell’acido. Fu decisamente celebre: nel 1930 l’Anonima romana editoriale traduce la “tragicommedia in quattro atti” Mister Kemble: la società degli onorevoli campanari. Eroe del gruppo dei “Fratelli di Serapione” – teorico di una narrativa formalmente ineccepibile, con tecniche di montaggio scacchistiche, in reazione all’egida dell’impegno ‘sociale’ – nell’anno della morte è censito così da Lo Gatto, che mise una pietra sopra all’incontenibile: “Originariamente comunista, lo Z. si allontanò sempre più dalle idee sovietiche, ma all’estero visse solitario, senza aderire all’emigrazione politica. Scrittore originale di contenuto e di stile tra il raffinato e il popolare, Z. non aveva ancora dato piena espressione alle sue grandi possibilità artistiche”. Fu, anche in gruppo, solo a se stesso, per questo morì, poeticamente, da poveraccio.

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In un memorabile articolo del 1921, dal titolo indicativo, Ho paura, Zamjatin delinea la cruna dell’arte in contrasto con la politica imperante, contro lo Stato dilagante. “Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”.

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Sostanzialmente, Zamjatin è risolto in Noi. Tra gli sparuti testi altri, Il destino di un eretico (Sellerio), Racconti inglesi (Voland), A casa del diavolo (Mup). Così, quando Dafne Munro mi invia il trittico di racconti edito da Edizioni Urban Apnea – sia lode all’iniziativa editoriale che pubblica una invidiabile varietà di testi riesumati dall’oblio, da Ambrose Bierce a Camillo Boito, da Horacio Quiroga ad Antonio Ghislanzoni, da Bruno Schulz a Gertrude Barrows Bennett – resto ingenuamente sbalordito. L’ironia corrosiva di Zamjatin, il genio nello strutturare situazioni apodittiche e apocalittiche, la sinuosità del linguaggio, tra coltello e piuma, me lo fa preferire a tanti narratori americani precipitati nel canone (Carver? Ma che è al confronto? Un cioccolatino nella fabbrica di cioccolato…). Zamjatin, ecco, è una specie di antidoto all’esteticamente corretto.

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Zamjatin flirta con il paradosso e la sinestesia (“Caldo. Le giornate sono gialle, cariche della gialla pienezza delle mele mature pronte a cadere al primo tocco, al primo sguardo o soffio”), ha il talento della metafora esistenziale (“Se una pietra cade in acque sonnolente, le agita creando mulinelli che ne increspano la superficie. Ma poi i mulinelli si espandono, lasciando solo irrilevanti increspature simili alle rughe che si formano nell’angolo di un occhio sorridente. E alla fine tutto torna piatto e immobile”), pone gli occhi, su ogni situazione, di sbieco, puntati sull’inatteso e sulla vergogna. Il racconto X è spassoso, racconta l’abiura di un diacono, non tanto attratto dal marxismo quanto dal ‘marthismo’, cioè dalle dolci forme dell’ambita Martha: “la fondatrice di questa dottrina (totalmente avulsa da qualsiasi riferimento filosofico alle classi sociali), al momento solo accennata tra le righe, un giorno di primo mattino, si dirigeva verso il fiume per un bagno. Si spogliò, appese il vestito su un ramoscello, mise in acqua la punta del piede destro… e a un paio di metri a sinistra, sotto a un cespuglio, stava accovacciato nudo il diacono Indikoplev (non ancora pentito)”. Zamjatin, con esasperante bravura, passa dallo sketch divertito alla descrizione lirica, dal grottesco all’appagato, dal colto al greve.

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Il racconto più bello – a varietà di stili corrisponde pluralità di invenzioni narrative – s’intitola La caverna, riproduce una nuova era del ghiaccio, postumana. Questo è l’esordio. “Ghiacciai, macerie, mammut. Le buie scogliere notturne sono case da rivivere in qualche modo. Nelle scogliere, le caverne. E nessuno che conosca l’origine di quel rumore notturno sul sentiero pietroso degli scogli, chi sia a soffiare la nevosa polvere bianca sniffando su per il sentiero. Forse un mammut color grigio-tronco, forse il vento. O il vento stesso è il ruggito ghiacciato del re dei mammut. Una cosa è certa: è inverno. E tu devi stringere i denti più forte che puoi per non sbatterli; devi fare legna con un’accetta di legno e ogni notte devi trasportarla di caverna in caverna, sempre più in profondità. Poi devi coprirti il più possibile con ispide pelli di animali. Anni fa, un mammut grigio-tronco si aggirava tra le scogliere di notte, dove sorgeva San Pietroburgo. Uomini della caverna avvolti in stracci, pelli e mantelle si spostavano di caverna in caverna”. I mammut a San Pietroburgo – lo spettro di Zamjatin dovrebbe irrorare le nostre vite, dovrebbero usarlo nelle scuole di scrittura, dovremmo leggerlo per dare profondità a furor di farfalle a questa bieca ‘realtà’. (d.b.)

*In copertina: Evgenij Zamjatin (1884-1937)

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