11 Gennaio 2020

Con tutta la musica brutta che c’è in giro, perché proprio Young Signorino? Discorso di un uomo che crede ancora nella bellezza, nonostante tutto

Normalmente l’intelligenza ci chiama a un dovere: arginare la bruttezza perché la nostra innocenza si affermi – nella contemplazione del bello – mediante una sensibilità mai soggetta alla povertà propria del brutto, appunto. Che vorrà mai dire povertà del brutto, poi? Ci sogneremmo mai di affibbiare alla bruttezza delle qualità che non siano negative? Come dicevo, normalmente no; ma oggi dov’è di casa la “normalità”? Non certo nella normalità tradizionalmente intesa.

In questa nuova normalità – così paradossalmente estesa – le peggiori blatte del sottobosco affiorano divenendo i giusti Vitelli d’oro per chi manca d’una completezza in sé stesso. Tra queste non posso non citare Young Signorino: un trapper tra i tanti, ma ancor più disturbante! So ciò che mi si potrebbe dire, magari una frase di questo tipo: «Chi ti credi di essere, Apollo?» rispondo: «Affatto, ma nemmeno un Dioniso stordito ed ebete; semmai un umile uomo che crede ancora, e nei limiti, in una giustezza del gusto che non si infrange per forza nel relativismo culturale di chi ascolta un determinato artista». Comunque sia, ammetto che – sostenendo la bruttezza dell’artista Young Signorino – sto intendendo quanto questo mi paia brutto internamente al mio ideale di bellezza pratica; quindi potrete benissimo evitare d’accogliere quanto intenderò se sarà in contrasto con la vostra prassi… ebbene sì, fondamentalmente pure io sono un relativista – mio malgrado.

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Che cos’è presente in Young Signorino? Credo molte cose, tra tutte una genialità – seppur usata per raccontare una somma infelicità generazionale: non riscattabile, beninteso… ciò è la cosa più triste. Ricordo pure l’odioso brano che Achille Lauro – nome preso in prestito all’amato sindaco napoletano, monarchico – portò a Sanremo 2019, Rolls-Royce: tra tutti quei desideri di morte v’era la dichiarazione d’una “vita non vivente”, non solo dell’artista ma pure del suo pubblico – un’ansia nel prestarsi al fluire che chiama solamente la brevità e, possibilmente, la celebrità: la condizione di meteora che muore in un’esplosione studiata (mediaticamente) per alcuni giorni; e che possa lasciare un riverbero di malinconia, non negli odiati famigliari, ma proprio in quel pubblico (che desidera morire anch’esso, in quanto non sa impegnarsi per essere felice della propria insignificante vita). Diciamocelo: che male c’è nell’insignificanza? Questo possiamo vedere: paura d’essere imposta da un clima di non essere. Infatti questo mal di vivere è ingiustificabile, giacché immotivato: prima di ritenersi finiti, e già conclusi, occorre almeno meditare la propria [pure se materiale] infinitezza… magari mediante un’arte che non sia effimera! Ma come si potrà mai approssimare un tale pensiero, una tale motivazione, a chi si perde in una musica così rassegnata – da cui, tra l’altro, si ritiene di dipendere? Di fatto, nel suo marciume vitale, corrompe la “frutta” che le sta vicino spacciandosi per arte: in quanto espressa mediante un’arte – la musica, seppur estremamente annichilita. Concludo il mio sfogo rabbioso e torno alla razionale lucidità che mi dovrebbe competere.

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Young Signorino divenne comunemente noto, e parodiato, dopo quel capolavoro – per il quale verrà ricordato: ovvero tutta la sua intera esistenza sarà quella “canzone” – che è «Mmh ha ha»… Ascoltandola una o più volte se ne ricava un forte fastidio e un altrettanto forte disgusto, poi si raggiunge una quasi-comprensione: «Non è che sta immortalando i pensieri del cosiddetto maschio alpha, ignorante e dominante?». Quelle parole rigurgitate sono infatti i pensieri ridotti a istinto d’un animale gravido di desideri non meglio formulabili. Potremmo così pensare che quest’uomo sia un genio, ma la sua arte rimarrà comunque buona a un solo ascolto – esattamente come guardare Pistoletto che rompe gli specchi –: non rappresentando una latente eternità, quest’arte scade nel momento della sua consumazione; e, come un alimento, esaurisce il suo compito lasciandoci solo un gusto… e quello di Young Signorino non è affatto buono sulla lingua!

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Come si sopperisce a una tale povertà, allora? L’eternità non è per forza vera, ma perché qualcosa sia arte deve almeno rappresentare un’impressione d’eternità – altrimenti rassegniamoci a fare delle inutili performance… Beh, come sopperire? È presto detto: si rimedia all’effimero costruendo ulteriore effimero che sostituisce di volta in volta il precedente lasciando comunque mancanza e malessere nello spettatore. Ma, poi, chi gode di questa musica si sente necessariamente mancante? Forse è mancante prima d’assistere a un tale spettacolo, uscendone poi beato – giacché ha adorato l’idolo, capiente come un dio… Che profonda inutilità, allora: qui non è più la bellezza a salvare il mondo, ma il suo opposto. Poi, chi giova di tale pochezza sa riconoscerla brutta – giovando dunque della bruttezza –, o ne canterà presunte lodi indicandola quale bellezza? Invero ho conosciuto chi mi mosse questo dire: «È un esteta che agisce nell’estrema decadenza del suo contemporaneo» … Ciò non è del tutto falso, effettivamente nel testo «Burrocacao rosa» vediamo il nostro vate immerso in una bellezza sfiorente, in abiti da me invidiati, coronato da una festosa ghirlanda mentre ripete la stessa frase ossessivamente: proprio come farebbe chi trova “dolcezza nella droga”, come sostiene lui stesso in un altro testo. Che poi la sua profondità è tutta nella singola frase che ripete: una singola frase che – mediante la sintesi propria della poesia – contiene l’universo, come l’ungarettiano «M’illumino / d’immenso» o il suo «Vestito nudo». Ora, senza alcun cinismo gratuito – anche se mi sto divertendo – credo di poter dire che se il signor Signorino avesse scelto la strada della poesia sarebbe stato pure bravo, ma l’ipotesi m’opprime – in quanto oggetto propriamente mentale. Altri adoranti indicano, nel Vangelo di Young Signorino, una prassi che auto-irride la stessa categoria cui appartiene, dicono: «Mediante sé stesso percula la Trap», se ciò è vero Signorino rappresenta l’approdo – del nostro contemporaneo – a una realtà talmente vuota di contenuto da decantare la sua nullezza pur di dire qualcosa – giacché, altrimenti, non direbbe nulla; e forse sarebbe un bene se pensiamo che quanto viene detto corrisponde solamente all’incapacità di dire ciò che non appartiene (e che non apparterà mai) alla generazione che sceglie questo artista per distendersi in un ascolto.

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Dopo tutto questo mio farneticare si può aggiungere poco altro, magari la vana speranza che gli uditori di una tale vita degradata [in musica] possano orientarsi diversamente: di musica brutta in giro ce n’è tanta, perché proprio la Trap, perché proprio Young Signorino? È una generazione molto povera quella che lo ascolta – forse più delle Sardine; ma si può essere più poveri delle Sardine? Che bruttezza infinita, irrimediabile pure con l’educazione al pensiero. Tra chi si fa dividere in due la lingua perché possa applaudire come quella d’un serpente, chi indossa l’anello al naso come un bove, e chi si macchia di nero le carni credendo di significare qualcosa a sé stesso – la bellezza s’è allontanata dalla nostra riflessione quotidiana, e la nostra bellezza [materiale, del corpo] s’è resa un mero supporto da far sfregiare – per nostro mandato [come diceva Pasolini] – prima che sia il tempo a consumarla: per paura del decadimento, dunque, distruggiamo ciò che dovremmo preservare, almeno nel ricordo che abbiamo di noi stessi. In ciò non vi sono strade applicative, metodi per recuperare un’intelligenza che – superbamente – ricava il bello dal brutto assumendo per sé questa fallacia, premiando un individuo che – come Cristo – si autodistrugge nella sua esteriorità a nome di tutti, aspettandosi una piena emulazione… che non manca ad arrivare, invero. Cos’è la mia invidia? Può darsi.

Paolo Pera

Gruppo MAGOG