Come tutti i premi anche il Premio intitolato a Cesare Pavese ha velleità alquanto vaghe. Ovviamente, “il Premio Cesare Pavese nasce per rendere omaggio a un autore divenuto un classico della letteratura italiana e internazionale”. Il Premio, leggo, “viene assegnato agli scrittori e agli intellettuali che meglio hanno saputo trasmettere il legame con il territorio, il valore dell’impegno civile o fornire punti di vista stimolanti su tematiche attuali”. Siamo alla catastrofe estetica: trasmettere il legame con il territorio, impegno civile e soprattutto fornire punti di vista stimolanti su tematiche attuali (ma cosa significa, ma cosa vuol dire?) non hanno nulla a che vedere con la letteratura (il cui unico impegno è la grandezza, il disastro interiore), sono caratteri talmente nebulosi e fuorvianti che vanno bene per premiare di tutto, Baricco come Faulkner come il primo che passa.
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In effetti il ‘Cesare Pavese’, arrivato all’edizione XXXV, è stato vinto, nel 2012, anche da Alessandro Baricco, per uno dei libri più anonimi, Tre volte all’alba. D’altronde, c’è da dire che il ‘Cesare Pavese’ è un premio di terza fascia: a chi non vince lo Strega, il Campiello, il Viareggio o il Bagutta, ma neppure il Premio Chiara, eppure ha il nobile pelo dell’intellettuale italico – cioè, non ha peli sullo stomaco – affibbiano il ‘Pavese’. Il premio è andato, di solito con i libri peggiori, ai soliti nomi, a Gad Lerner e a Umberto Eco (nel 2011, con il catacombale Cimitero di Praga), ad Aldo Cazzullo e a Vittorio Sgarbi, a Claudio Magris, a Beppe Severgnini, a Massimo Cacciari, a Roberto Vecchioni, a Cristina Comencini e ad Alberto Asor Rosa. Insomma, di solito il Premio intitolato a Cesare Pavese, poveretto, va a una manica di tromboni, di trombati dai premi che contano di più.
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Così, il povero Cesare Pavese, uno che dovrebbe essere un inno alla vita e alla giovinezza – lo sono, almeno, i suoi libri, Lavorare stanca e Il mestiere di vivere, un diario che pretende, ancora, alleati – è diventato una vera tristezza. Anche quest’anno, secondo il solito schema, il premio è andato a due tromboni trombati da altri club letterari: Lidia Ravera e Corrado Augias, con due libri di rara inutilità, Il terzo tempo e Questa nostra Italia. Quest’anno, però, il ‘Cesare Pavese’ ha fatto, come dire, uno scatto in avanti verso il progresso. Per meglio dire, ha pisciato fuori dal vasetto letterario.
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Il ‘Cesare Pavese’, in una appendice speciale, eminentemente politica, è andato anche a Xi Jinping, che non è un esimio poeta cinese ribelle al potere, ma il Presidente della Repubblica Popolare Cinese. Nel 2016, infatti, l’editore Giunti ha pubblicato dell’illustrissimo un libro, Governare la Cina, che illustra come “Da più di mezzo secolo la Cina registra impetuose trasformazioni. Il paese è oggi il leader mondiale con cui Stati Uniti e Russia sono costretti a fare i conti. In un libro che raccoglie discorsi, interventi, articoli, lettere del presidente della Repubblica popolare cinese; le chiavi per decifrare un universo complesso e affascinante, verso il quale l’Occidente dimostra ancora una inspiegabile e colpevole miopia: il progresso della Cina ha avuto e continuerà ad avere un impatto formidabile sul resto del mondo”. Bizzarro, bizzoso: in una banale ‘quarta’ di copertina si registrano frasi fragorosamente colloquiali (sono costretti a fare i conti), ma soprattutto una inattesa granata sul deretano dell’Occidente, ingiustificata (storicamente, i cattivi occidentali hanno studiato assai la Cina, cito, a casaccio, da Marco Polo in qua, Richard Wilhelm, il sinologo tedesco che ha tradotto l’I-Ching, e Lev Tolstoj, e Carl Gustav Jung, e Giuseppe Tucci, e Fosco Maraini, e André Malraux…).
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Le motivazioni a supporto dell’assegnazione del ‘Cesare Pavese’ a un non letterato, anzi, a uno che se gli è grato mette i letterati in gabbia, è spassosa, la ricalco per esteso. “Lavoro costruito con grande cura, anche nella veste editoriale, arricchito di immagini eloquenti che illustrano e completano l’opera di impegno politico e civile intrapreso dal Segretario generale del Partito Comunista Cinese e Presidente della Repubblica Popolare Cinese dal 14 marzo 2013. Il libro si articola in XVIII capitoli che affrontano sistematicamente il piano ad ampio respiro del programma del Presidente, il cui obiettivo primario è quello di realizzare il sogno cinese del grande ringiovanimento della Nazione, progetto questo da conseguire attraverso sfide decisive, capaci di far fronte alle difficoltà che il cammino di apertura e modernizzazione della Cina comporta. Egli intende costruire un ponte di comune prosperità civile tra Cina ed Europa perché «il tè e la birra non sono affatto inconciliabili». Si tratta, dunque, di un progetto impegnativo che – siamo certi – potrà essere ampiamente realizzato grazie all’intelligenza dell’Uomo politico, alla sua particolare esperienza, ai suoi nobili sentimenti, tra i quali spiccano l’attaccamento alle persone, il pensiero costantemente rivolto al popolo e la lotta nell’interesse degli altri. Temi questi che hanno consonanza con l’amore per il territorio e il progresso della società propri di Cesare Pavese”. Soprassediamo sulla battuta del tè e della birra, è degna di Fantozzi (come simboli ideali di Cina ed Europa citerei, chessò, Confucio e Platone, Laozi e Dante, Li Po e Shakespeare…). Più che altro, la motivazione della Giuria è un tappeto rosso al sovrano rosso, è una clamorosa leccata di.
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Riflessione generale. Un premio letterario non va dato a un uomo politico. Per una ragione banale – lo scrittore, di solito, ha bisogno di soldi, il politico no. E per una sostanziale. Non darei un premio neanche a Nelson Mandela né a Winston Churchill né a De Gaulle. Perché? Perché un uomo politico, per quanto sia retto e puro, resta un uomo, cioè un fallimento. L’uomo politico, nella migliore delle ipotesi, punta al bene – al bene proprio e a quello di un fatidico ‘popolo’, di una parte. Ecco, l’azione ‘a fin di bene’, anche se non si tramuta in qualcosa di spaventoso, è comunque relativa: ciò che è bene oggi, domani non lo è, è altro. Lo scrittore, invece, può essere un uomo molto peggiore e corrotto dell’uomo politico, ma lavora per il bello, per creare una forma bella. Magari la forma che ha trovato non sarà infallibile, magari non sarà imperitura; almeno, non fa morti. Ed è aperta, nelle intenzioni, a tutti. Assegnare un premio letterario a un grande uomo politico è un gesto politico. Ingiustificato. È una precisa presa di posizione.
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Per altro, a Cesare Pavese interessava la letteratura statunitense e la Grecia antica: eppure, un premio ‘Pavese’ al Presidente Trump – o a un Obama – o ad Alexis Tsipras sarebbe comunque una cretinata.
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Nel caso specifico la giustificazione è soltanto una. O Xi Jinping ha acquistato tutte le vigne delle Langhe, oppure, francamente, non si capisce il perché di un premio dedicato (orrore, orrore) al “valore dell’impegno civile” tra le sue candide manine. Xi Jinping, Segretario generale del Partito Comunista Cinese, ha realizzato la sintesi demonica di marxismo-leninismo con il capitalismo. Insomma, ha creato una micidiale satrapia. Con l’intenzione – realizzata, dall’Africa a Milano, da Londra alla Groenlandia – di conquistare il mondo. Pare che quelli di Santo Stefano Belbo, dove si svolge il ‘Cesare Pavese’, siano già stati conquistati da tale visione del mondo.
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Diciamo che la Cina di Xi Jinping non è il migliore dei mondi possibili. Non lo dico io, lo dice Freedom House, nel rapporto “Freedom in the World 2018”: la Cina è un paese not free, non libero. Per capirci: se 100 è un valore che vale per ‘molto libero’ e 0 significa ‘libero per niente’, la Cina ha un risultato di 14 su 100. Per capirci meglio: l’Italia ha un risultato di 89 su 100. Per capirci sempre meglio: il Ciad ha un valore di 18 su 100, lo Zimbabwe di 30 su 100, la Turchia (brrr, quel bruto di Erdogan: a questo punto si merita almeno un premio di poesia…) di 32 su 100. Secondo la classifica stilata da Freedom House che riguarda la libertà di stampa, la Cina risulta ‘non libera’, fa poco meglio della Corea del Nord e molto peggio di Vietnam, Laos, Cambogia, Indonesia, paesi dove, diciamo così, non vige un giornalismo ‘anglosassone’. Anche al netto della malizia di Freedom House – i dati possono essere esagerati, io sono sempre un san Tommaso – la Cina non è il migliore dei paesi possibili.
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In forma più rigorosa, Freedom House riassume il problema cinese così. “Il regime autoritario cinese è diventato sempre più repressivo negli ultimi anni. Il Partito Comunista Cinese al potere sta rafforzando il controllo sui media, sui discorsi on line, sulle realtà religiose e sulle associazioni dei liberi cittadini, minando le già modeste riforme nel campo dello stato di diritto. Il leader del Partito Comunista Cinese e presidente dello Stato, Xi Jinping, sta consolidando un potere personale in forme mai viste in Cina da decenni”.
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Per non parlare dell’occupazione cinese del Tibet, di cui si parla quando ne parla Richard Gere, quando esce un film, quando reflui buddhisti attraversano il malmenato cervello europeo, quando ci si scambiano le cartoline del Dalai Lama, il guru del sorriso. Questo è un comunicato dell’Alto Commissario Onu per i Diritti umani, rilasciate il 19 giugno scorso. “Nonostante i ripetuti sforzi compiuti dal mio Ufficio per creare le condizioni favorevoli a un dialogo costruttivo, la Cina non ha consentito ai rappresentanti della Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani libero accesso alle cosiddette regioni cinesi della Regioni Autonoma Tibetana e della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, territori nei quali la situazione dei diritti umani è in costante e rapido peggioramento”.
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Perché, banalmente, il Premio ‘Cesare Pavese’ si occupa di questioni politiche, geopolitiche?
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Xi Jinping ha mai letto i Dialoghi con Leucò? Xi Jinping è forse un fan di Cesare Pavese, come lui ritiene la poesia ignifuga al potere?
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Tutti d’accordo nello stigmatizzare l’era comunista, che ha incatenato la libertà dell’individuo, poi fanno accordi con la Cina, perché il rosso è un po’ meno rosso se di mezzo c’è il colore dei soldi.
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Eccola, l’utopia di ogni governo: visto che gli scrittori non sanno più affrontare la Storia, tanto vale dare un premio letterario a chi la Storia la fa davvero, il politico, il governante, il gran khan. Che lo scrittori ritorni nella sua inutilità, a fare l’arlecchino di corte. Così, ogni garanzia non tanto di obbiettività – esistono solo obiettivi e obiezioni – ma di scavo, di messa in crisi, di morso formale e finale, di esplosione sfinisce, sfiorisce. Senza lo scrittore restano le parole promozionali dei governanti, che schifo.
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Fossi uno scrittore, per ragioni di ovvio principio (non mescolare mai il gesto letterario con il giogo politico, mai fondere incestuosamente arte e potere), rifiuterei il ‘Cesare Pavese’, non vi parteciperei, farei un volo dannunziano su Santo Stefano Belbo lanciando copie de La luna e i falò. Ma non è che veda molti scrittori in giro…
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La scena mi ricorda tanto quelli che applaudivano Nerone come poeta massimo, migliore di Omero, quelli che sovvenzionano l’ego del sovrano con aggettivi ben studiati: d’altronde, ogni dittatore ha l’ambizione di essere un grande artista, per questo, se può, uccide i grandi artisti. (d.b.)