08 Marzo 2020

“I gatti non vanno in paradiso. Le donne non possono scrivere le opere di Shakespeare”. L’8 marzo secondo Virginia Woolf

Ciao caro Davide,

oggi è l’8 marzo – festa della donna: non mi piacciono queste date che ‘intrappolano’ un contenuto in uno schema, una frase, però… però le statistiche dicono che ogni giorno nel mondo vengono uccise 137 donne, da noi basta ascoltare un TG, a giorni alterni una donna viene uccisa, una sfregiata… per non parlare di quel che succede oltre il mondo cosiddetto ‘civilizzato’. Queste date non mi piacciono ma una riflessione è d’obbligo. Nel nostro ambito – e per rimanere nel solco woolfiano, ho riaperto A Room of One’s Own, la pagina in cui lei immagina un’ipotetica sorella del Bardo, tale Judith. Tu stesso e molti altri l’avranno già letta, ma credo non sia male rileggerla (tra l’altro è un’ottima risposta a chi trova la Woolf noiosa…). Sono andata a capo più spesso che nell’originale per ‘dar aria’ al testo. (Paola Tonussi)

***

“Eccomi a chiedermi perché le donne non scrivevano poesie all’epoca di Shakespeare, eppure non so come venivano educate, se imparavano a scrivere, se avevano qualche salotto dove stare da sole (…). Evidentemente non avevano denaro; (…) si sposavano, volenti o nolenti, non appena lasciavano la mano della balia, probabilmente a quindi o sedici anni.

Sarebbe stato estremamente strano, anche con questi pochi dati, che una di loro si fosse a un tratto messa a scrivere le opere di Shakespeare, conclusi, pensando a quel vecchio signore (credo fosse un vescovo), il quale ha dichiarato che era impossibile immaginare una donna, passata presente o futura, il cui genio si potesse paragonare a quello di Shakespeare. Lo scrisse persino sui giornali. E una volta disse anche, a una donna che gli aveva chiesto informazioni, che i gatti in realtà non vanno in paradiso benché abbiano, aggiunse, una specie di anima.

Quanti pensieri ci risparmiavano, quei vecchi signori! Quando apparivano loro quanto si restringevano i confini dell’ignoranza! I gatti non vanno in paradiso. Le donne non possono scrivere le opere di Shakespeare. 

Ad ogni modo non potevo non pensare, mentre guardavo le opere di Shakespeare sullo scaffale, che almeno in questo il vescovo aveva ragione: sarebbe stato impossibile, completamente e totalmente impossibile, che nell’epoca di Shakespeare una donna scrivesse le opere di Shakespeare.

Immaginiamo, giacché ci riesce così difficile conoscere la realtà, cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella, poniamo chiamata Judith, meravigliosamente dotata. Shakespeare studiò – poiché sua madre era ricca – alla Grammar School; gli avranno insegnato il latino – Ovidio, Virgilio e Orazio – e qualche elemento di grammatica e di logica. Era, com’è noto, un ragazzo irrequieto, che cacciava di frodo i conigli, e forse anche i daini; e dovette anche, prima di quanto avrebbe voluto, sposare una donna dei dintorni, che gli diede un figlio un po’ più presto del solito.

Questa avventura lo spinse a cercar fortuna a Londra. S’interessava, a quanto pare, di teatro: dicono che abbia cominciato facendo la guardia ai cavalli presso l’ingresso degli attori. Presto imparò a recitare, divenne un attore di successo, e si trovò al centro della società contemporanea; vedeva tutti, conosceva tutti, sfoggiava la sua arte sulla scena, il suo spirito per strada, e riuscì persino a esser ricevuto nel palazzo della regina.

Intanto sua sorella, così dotata, rimaneva probabilmente in casa. Lei non era meno avventurosa, piena d’immaginazione e desiderosa di conoscere il mondo di quanto non lo fosse suo fratello. Ma non aveva studiato. Non aveva potuto imparare la grammatica e la logica, per non dire leggere Orazio e Virgilio. A volte prendeva un libro, magari un libro di suo fratello, e leggeva qualche pagina. Ma poi arrivavano i suoi genitori e le dicevano di rammendare le calze o di far attenzione all’umido in cucina, e di non perder tempo tra libri e carte.

Questi ammonimenti saranno stati netti, benché affettuosi, poiché si trattava di persone agiate, che sapevano come debbono vivere le donne, e amavano la loro figlia; anzi, è molto probabile che fosse la figlia preferita di suo padre. Forse riusciva a riempire di nascosto qualche pagina, su nel sottotetto; ma poi aveva cura di nasconderle o bruciarle.

Ad ogni modo, appena arrivata alla pubertà, era stata promessa al figlio di un vicino mercante di lane. La ragazza protestò che il matrimonio per lei era una cosa abominevole; perciò suo padre la picchiò con violenza. Poi, cambiando tono, la pregò di non fargli questo danno, questa vergogna di rifiutare il matrimonio. Le avrebbe regalato una bella collana, oppure una bella gonna, diceva, con le lacrime agli occhi. Poteva forse disubbidirgli? poteva forse spezzargli il cuore?

Eppure la forza del suo talento la spinse a un gesto inconsueto. Una sera d’estate Judith fece fagotto con le sue cose, scese dalla finestra e prese la strada di Londra. Non aveva ancora diciassette anni. Gli uccelli che cantavano sulle siepi non erano più musicali di lei. Come suo fratello, lei possedeva la fantasia più viva, il più vivo senso della musica delle parole. Come lui, si sentiva attratta dal teatro.

Bussò alla porta degli attori: voleva recitare, disse. Gli uomini le risero in faccia. L’amministratore – un uomo grasso, dalle labbra spesse – proruppe in una gran risata. Disse qualcosa sui cani ballerini e sulle donne che volevano recitare: nessuna donna, disse, poteva essere attrice. Accennò invece… potete immaginarlo. Nessuno le avrebbe insegnato a recitare. D’altronde non poteva mangiare nelle taverne, né girare per le strade a mezzanotte.

Eppure il genio di Judith la spingeva verso la letteratura: desiderava cibarsi abbondantemente della vita di uomini e donne, studiare i loro costumi. Infine (poiché era molto giovane e di viso somigliava a Shakespeare, con gli stessi occhi grigi e la fronte curva), Nick Greene, l’attore-regista, ebbe pietà di lei: Judith si trovò incinta di questo signore e pertanto – chi può misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando si trova prigioniero e intrappolato nel cuore di una donna? – si uccise, una notte d’inverno, e venne sepolta a un incrocio, là dove ora si fermano gli autobus, presso Elephant and Castle.

Così, più o meno, sarebbe andata la storia, credo, se ai tempi di Shakespeare una donna avesse avuto il genio di Shakespeare.

Comunque, sono d’accordo con il vescovo defunto (…): è impensabile che una donna ai tempi di Shakespeare potesse avere il genio di Shakespeare. Poiché un genio come quello di Shakespeare non appare tra la gente ignorante, servile, che fa lavori grossolani. Non era apparso in Inghilterra ai tempi dei sassoni o dei britanni. Non appare oggi tra le classi lavoratrici.

Come poteva perciò apparire allora fra quelle donne che iniziavano a faticare (…) non appena avevano lasciato la balia, costrette dai loro genitori e da tutto il peso della legge e della tradizione?

Eppure, qualche specie di genio sarà esistito tra le donne, come sarà esistito fra i lavoratori. Di quando in quando, una Emily Brontë o un Robert Burns sorgono splendenti, a dimostrare la sua presenza…”.

Virginia Woolf

Gruppo MAGOG