09 Aprile 2020

“Ci sono personalità che illuminano una stanza. La sua illuminava un viale”. L’autobiografia di Woody Allen: esilarante, cinica, morbosa. Mia Farrow viene fuori come una specie di Medea…

I libri autobiografici sono spesso noiosi e pieni di bugie. Lo scrittore tende a raccontarsi davvero solo se celato dietro un personaggio di fantasia, mentre quando parla esplicitamente di sé è tutto teso a mostrare il meglio. Non così nell’attesissimo A proposito di niente di Woody Allen – a lungo boicottato negli Stati Uniti, ma subito pubblicato in Italia da La nave di Teseo – in cui l’autore non si risparmia in autocritica. Il titolo stesso, a ben guardare, è una diminutio auctoris.

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Allen parte proprio dall’inizio, dalla sua infanzia a Brooklyn, con una madre responsabile ma autoritaria e così brutta da mettere in crisi la teoria freudiana e un padre affettuoso e complice, ma anche inaffidabile e trafficone. In questo contesto, tra parenti ebrei improbabili e primi innamoramenti non corrisposti, dal suo desiderio di evadere nasce l’amore per il cinema e il sogno di Manhattan. Mentre frequenta con scarso profitto una scuola inadeguata alla sua intelligenza, Woody sviluppa numerose passioni: in particolare baseball, giochi di prestigio, musica jazz. Riesce bene in tutto, ma è in cerca del suo vero talento, il “talento di divertire”, che troverà diventando prima battutista, poi comico, poi sceneggiatore, poi attore e regista.

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Con umiltà si dichiara meno colto di quel che si crede, elencando tutti i grandi libri che non ha letto e quelli che l’hanno annoiato, e confessa di aver iniziato a leggere Kafka e Ionesco solo per attirare l’attenzione delle ragazze che gli piacevano al liceo, per lo più prime della classe in dolcevita nero. E quanti di noi iniziarono a vedere i film di Allen al liceo proprio per impressionare un intellettuale cinefilo oggetto del desiderio? Forse la cultura, più o meno ampia, che ci costruiamo, poggia per molti su un’impalcatura di tentate seduzioni, che reggerà poi gli amori veri per le opere stesse.

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Narra con ironia i suoi rapporti con le donne, da quando invitò una compagna delle elementari a bere un cocktail, come aveva visto fare al cinema, al matrimonio giovanile con una studentessa di filosofia, di cui dice “mi resi conto di essere nei guai quando, durante una discussione filosofica, Harlene dimostrò che non esistevo”, fino a Diane Keaton, l’amica di sempre, per cui ha parole che farebbero venire voglia qualsiasi donna di essere la Diane Keaton di qualcuno: “Penso che, se Huckleberry Finn fosse stato una bella ragazza, sarebbe stato così. Ci sono personalità che illuminano una stanza. La sua illuminava un viale”.

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Sono pagine a tratti ridondanti, per la ricchezza di aneddoti e la girandola di nomi più o meno famosi dell’ambiente hollywoodiano, ma qualche lungaggine è ampiamente compensata da squarci di sentimento e battute fulminee. Vi piaceranno se lo amate davvero, se avete visto tutti i suoi film, se lo conoscete bene e volete conoscerlo ancora meglio. In caso contrario, potreste uscirne annoiati. Allen può essere l’amico esilarante alle cui parole abbeverarsi senza sosta o il conoscente logorroico da allontanare in passeggiata e aggirare al buffet, difficile la via di mezzo. Anche perché durante tutta la lettura sentirete la sua voce dentro la testa, come se fosse lì di fianco, a raccontarvi la sua vita gesticolando nel modo tipico.

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Se invece avete comprato il libro per pura morbosità – e non c’è niente di male, “i fatti miei mi annoiano sempre a morte, preferisco quelli degli altri”, diceva Oscar Wilde – allora vi conviene andare direttamente a circa metà, dove si inizia a parlare della vicenda Farrow. Qui il tono si fa cupo e le battute più rare, seppur nemmeno narrando gli eventi più tragici Allen rinunci a qualche sferzata di micidiale umorismo. La storia più o meno la conosciamo: nel 1992 Allen tradisce la compagna Mia Farrow con la di lei figlia adottiva ventenne, Soon-Yi. Di rimando la Farrow lo accusa di aver abusato dell’altra figlia adottiva, Dylan, di sette anni. Accuse che dal punto di vista legale cadranno all’istante, infondate, ma che nella narrazione mediatica renderanno Allen pedofilo e incestuoso per gli anni a venire, con una recrudescenza alla nascita del metoo: in principio un movimento di libertà, divenuto ben presto censoria caccia alle streghe.

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Nel libro Allen racconta molti fatti che messi a confronto con la versione di Mia Farrow ci fanno sentire come dentro al film Rashomon, in balia dei punti di vista. Da madre modello di quattordici figli, quattro naturali e dieci adottati, viene descritta come manipolatrice e crudele, facile ad attacchi d’ira, solita infliggere ai bambini umiliazioni e pene corporali. Per mostrarsi in pubblico filantropa “si aggirava per gli orfanotrofi passando in rassegna i bambini come un altro avrebbe sfogliato i libri d’occasione nel cesto di una libreria”, ma in realtà non li amava e non desiderava crescerli, addirittura a volte li restituiva per motivi futili. Alcuni, come Soon-Yi, erano trattati alla stregua di domestici, mentre con altri sviluppava rapporti morbosi. Ad esempio Ronan, oggi premio Pulitzer per l’inchiesta su Weinstein e acerrimo nemico di Allen, con cui dormì insieme nuda finché lui non ebbe undici anni.

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Mia avrebbe quindi manipolato la piccola Dylan per convincerla di essere stata abusata da Woody, che si descrive invece come figura paterna corretta e affettuosa, sostenuto da un altro dei figli adottivi, Moses. D’altra parte, la stessa famiglia d’origine della Farrow è narrata come un inferno, con abusi su di lei da parte del padre e dai fratelli, uno morto suicida e un altro in carcere per pedofilia. In questa tragedia greca, viene da chiedersi come mai Allen non si fosse accorto di niente. In fondo, gli sarebbe bastato applicare la sua massima per cui La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione” e oggi, al posto della televisione, le serie tv – per rendersi conto che Mia e Ronan Farrow assomigliano in modo inquietante alla regina Cersei e al figlio Joffrey del Trono di spade.

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Allen giustifica la sua inconsapevolezza con il fatto di non aver mai convissuto con la Farrow, ma leggendo l’intera biografia viene da pensare più a una sua attitudine profonda a estraniarsi dai fatti della vita quotidiana, a favore dell’arte. Scrive infatti, alla notizia dell’omicidio di Kennedy: “rimango a guardare per due minuti, elaboro l’informazione, spengo la televisione e torno alla mia sceneggiatura. Nulla poteva distrarmi”. E riguardo alle prime mogli: “se Harlene o Louise mi avessero detto di non volere figli, mi sarei adattato. Idem se mi avessero detto che ne volevano cinque. Un artista chiuso nel suo mondo di celluloide, inconsapevole della catena di vendette che gli si stava aggrovigliando intorno: di Mia Farrow verso di lui e forse, ancor prima, di Soon-Yi verso Mia Farrow, crudele matrigna e novella Medea. E basta vedere la trilogia di Park Chan-wook per sapere quanto è radicata la vendetta, anche ben più crudele del rubare un anziano marito, nella cultura coreana.

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La vera vittima è invece la piccola Dylan, oggi adulta, costretta a scegliere nella sua psiche tra un padre molestatore e una madre pronta a sacrificarla per rivalsa. Per ora continua a preferire la prima ipotesi. Ma un lieto fine, in questo dramma, per qualcuno c’è. Se inizialmente è apparso quantomeno inopportuno mettersi con la figlia adottiva della propria compagna, dopo quasi trent’anni di matrimonio e due figlie, il tempo ha dato ragione all’amore, ora non più scandaloso, tra Woody e Soon-Yi.

Oggi Allen è un marito innamorato, al punto da affermare: “la cosa di cui vado maggiormente fiero nella mia vita non sono i miei film, ma il fatto di avere liberato Soon-Yi da una situazione terribile, di averle dato modo di sbocciare e di realizzare le sue potenzialità”. Descrive la moglie come una donna forte, concreta, atta al comando, che tiene salda in mano l’organizzazione di tutta la loro vita familiare.

È interessante la dedica. In italiano “A Soon-Yi, la migliore. Pendeva dalle mie labbra e poi mi ha avuto in pugno”, ma l’originale inglese, “I had her eating out of my hand and then I noticed my arm was missing”, significa in realtà “l’ho fatta mangiare dalla mia mano e poi ho notato che mi mancava il braccio”. Una donna per nulla sottomessa, quindi.

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È un uomo solido e risolto, oggi, Woody Allen. Eppure, se gli chiedono quale sia il suo rimpianto più grande, risponde: “ho avuto milioni per fare film in totale libertà, e non ho mai girato un capolavoro”. A mio parere ne ha realizzati più d’uno, in testa a tutti Io e Annie e Match point, ma un artista geniale ha il diritto di essere perennemente insoddisfatto, specie se la sua citazione preferita è “non voglio la realtà, voglio la magia”, da Un tram che si chiama desiderio. Nel terzo atto della sua vita ha realizzato poi un’altra magia, forse il sogno di ogni uomo, forse un capolavoro: trovare una moglie ideale che gli toglie la grana quotidiana, con cui diventare, dopo tante relazioni con attrici bellissime, affettivamente stabile e fedele in tarda età. Che è un po’ come convertirsi a Dio al momento dell’estrema unzione, ma, come direbbe Woody, basta che funzioni.

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E funziona al punto che di tutto il resto sembra non interessargli più, compresa l’opinione altrui. Infatti conclude: “di vivere nel cuore e nella mente del pubblico non mi importa niente, preferisco vivere a casa mia”.

Viviana Viviani

*Editing di Luisa Baron

 

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