11 Luglio 2019

A volte una partita di tennis è meglio della letteratura. Federer vs. Djokovic del 2014 e McEnroe vs. Connors del 1984 sono come un romanzo, un dramma

La “digitalità” un tempo dei Rosewall, dei McEnroe, che ritorna nei Djokovic, nei Federer, e vale a dire quella qualità fondamentale che fluiva nelle mani dei maestri in tempi in cui tutti potevano “giocare al tennis” col sogno di diventare dei campioni, o meglio, in cui solo chi aveva tocco poteva “giocare al tennis” a certi livelli e per esser grandi non c’era necessariamente bisogno d’atletismo, corsa, forza e colpi meccanicamente allenati, bensì di tocco, d’istinti misto a genio, gli uni e l’altro inallenabili, e a condurre agli allori non era mai né il calcolo e né la potenza – né naturalmente il calcolo cerebrale fuso alla potenza corporea – fusione propria di Nadal – che ha incontrato un fedele alleato nelle “padelle supersoniche” – i diritti ancora allo scriba – quali sono le racchette che hanno stravolto il gioco.

Eppure tocco e genio persistono. Persistono ad apparire a dispetto. Persistono ad apparire superiori. Nei gesti bianchi, in questi spazi eterei, in questi atti sublimi, nei Momenti del tennis – non solo nei gesti di Federer – nel candore più impersonale – il tennis è poesia quanto l’atto letterario.

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Perché è preparazione ed estro, studio ed espressione, eleganza ed esplosione, improvvisazione ed esercizio, talento e allenamento, sbotto e compostezza, ricerca e deflagrazione, sentenziosità e annullamento, strenuo lavorìo individuale (è sempre meno il gioco da dandy cultori del fair play e del delicato sensuale spontaneo andamento alla Colette, l’uno e l’altro esaltati da Montherlant, e sempre più uno sforzo), ma quasi d’obbligo, in primissima battuta, una regola non scritta, è una strana nobiltà, un gesto impersonale, un asservimento di sé, e un servizio regale, che scaturisce da evidenti narcisismi e un pensiero maniacale – perché i McEnroe, come i Borg e i Connors, gli Edberg, come i Becker e i Lendl, gli Agassi, come i Sampras e i Safin, i Federer, come i Nadal e i Djokovic, non possono che esser più o meno lateralmente dei pazzi maniaci – degli ossessivi compulsivi narcisisti – personaggi degni di una grande opera di Balzac o di Dostoevskij – le prede delle loro passioni divoranti – tutte concentrate in una sola che ha decisamente l’aria della follia – i quali trovano miracolosamente proscenio in un cerimoniale d’ammirazione pubblica, osannati, vezzeggiati, non solo dalle attenzioni degli spettatori, dei giornalisti, delle telecamere, ma anche di una folla di servitori: giudici di sedia – stipendiati dai giocatori stessi per tramite della loro associazione; di linea – soggetti a cambi della guardia; raccattapalle, quale fu Federer da bimbo – in un gioco così poco democratico ci sono spazi per simili ascese; porgisalviette; reggiombrelli; massaggiatori; celeri incordatori dietro le quinte del teatro.

Con i giocatori, a loro volta, contro l’ego, servitori: assoggettati alle regole del gioco e del cerimoniale; consapevoli di essere tanto soggetti quanto oggetti; consapevoli che infine il re sarà soltanto uno e solo; e che per cominciare a giocare è necessario servire; servizio e poi via di volée.

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Il servizio e via d’involata. Come l’aria. È l’essenza di Wimbledon. Forse lo era. Perché c’è stato negli anni un concilio silenzioso e modernista. Nondimeno. L’ecclesia, lei rimane. Pure intaccata rimane. Rimane il servizio. L’involata più rara. Vanitas vanitatum. Resta una nobile cerimonia che è eterna ripetizione ma sempre differente. Resta una liturgia regale quasi fosse una via d’accesso alla trascendenza. Come l’arte.

Ma più che di Wallace, si è dalle parti di Florenskij, con un tocco, con un gioco, di Lewis Carroll, sul quale si dovrà necessariamente tornare.

Come bisognerà dire, magari a voce bassa per non suscitare sdegno nei profani, che in qualche caso una partita è meglio della letteratura, già. Basta il Central Court di Wimbledon ed ecco tre incontri di finale che assurgono ai ranghi del romanzo, del dramma, della tragedia, del quadro. Capolavoro. In principio fu McEnroe contro Borg (anno di grazia: 1980). Poi la venuta di Nadal contro Federer (anno di grazia: 2008).

Eppure, come per l’opera di Dostoevskij, appena si mettono un attimo da parte i due titoli più famosi – Delitto e castigo e I fratelli Karamazov – ecco saltare fuori i due titoli in cui il genio del romanziere si rivela ancor più assoluto e sorprendete – L’idiota e Il giocatore o L’eterno maritoed ecco la partita, forse troppo recente o forse non sufficientemente mitica, o tragica, o mistica, per godere d’uguale ammirazione, ma in realtà l’incontro perfetto della storia di Wimbledon, per lo meno della storia moderna, di quella rivedibile per immagini, forse non soltanto di Wimbledon, e vale a dire il grande ritorno di Federer contro Djokovic. Torneo del 2014. Federer che nel quarto set pare ormai spacciato ma torna a lottare – da lì riprende la sua seconda carriera di grande maestro del gioco – per infine arrendersi alla maggior freschezza atletica di Djokovic. Maestosamente… Il punteggio? 6-4 al quinto. 6-7, 6-4, 7-6, 5-7, 6-4. E i tie-break? Uno 7-9. Uno 7-4.

A memoria: in due, oltre 160 colpi vincenti (servizi esclusi) e 80 errori non forzati. Talvolta la proporzione è inversa. In una partita qualsiasi. Non certo in una finale. Figurarsi nella finale di uno slam.

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L’anno successivo, stavolta in semifinale, il re si ripeterà di suo, non in assolo perché la sfida richiede un rivale di livello, ma con una prestazione personale di perfezione assoluta. Un vero concerto…

Il recital individuale più grande di sempre. Non fosse per la finale di “Mac” nel 1984. Ma in quel caso Connors, favorito, si squagliò sotto i colpi del genio con fascetta. Non fu questo invece il caso di Murray, altro arcigno ribatittore fino allo strenuo. Tre set a zero. 6-4 periodico. A memoria: circa 55 colpi vincenti contro 10, 12 e non più di 12 errori non forzati dal rivale. Mostruoso…

Ma nel tennis e a Wimbledon, e soprattutto a Wimbledon, si è in un regno che pur fatto di numeri per giunta assai curiosi non è quello della quantità, o meglio, è un reame nel quale, diversamente da ciò che dice il saggio di René Guénon, non perché ci si immerge nelle cifre e nelle statistiche tanto amate dagli anglosassoni, si perde la qualità, specie se si stanno leggendo quelle di un re

(Nota: McEnroe nel 1984 sconfisse Connors 6-1, 6-1, 6-2)

Marco Settimini

(continua)

*In copertina: Wimbledon, 1980: Jimmy Connors ha qualcosa da dire a John McEnroe. Siamo in semifinale. Vincerà McEnroe 

**Il torneo di Wimbledon si può vedere qui

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