12 Luglio 2019

Quando Ivan Lendl finì in un film di Eric Rohmer. Da Hitchcock a Woody Allen, filmografia tennistica (ma il giocatore più estroso resta Ernests Gulbis)

Federer è re, “il tennista più regale che abbia mai visto” (Agassi) e pochi dubbi a riguardo, ma se bisogna cercare da un lato della rete il giocatore – se il perdente, a Wimbledon, fu Lendl, pur tra i più vincenti; se il joker fu Connors, uno dei più grandi agonisti di sempre; le regine e principesse furono moltissime e dei più vari tipi – Susanne Lenglen, Billy Jean King, Margareth Smith Court, Chris Evert, la Navratilova, la Graf, le sorelle Williams, Maria Sharapova ma mai “Lolita” (Clerici) alias Anna Kournikova – il giocatore del tennis contemporaneo non potrà esser che maniacalmente ai margini, non un vincente, già numero uno, non allora Safin, troppo vincente, a dispetto di una più che notoria passione per donne e casinò, ma – padre miliardario e chiaramente appassionato di Hemingway –, soldi da buttare via –, ed estro da vendere –, lo scapigliato Ernests Gulbis, autore di quello che è forse il più straordinario game di tutta la storia del tennis.

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Torneo: Nizza 2014. Montecarlo è vicina. Fondo di terra rossa. Quattro punti. Quattro colpi. Quattro smorzati da fondo campo con una nonchalance che neppure un suicida di Schniztler, che neppure un girovago di Morand, che neppure una puttana di Simenon, tutti a segno senza traccia di sorpresa negli occhi del folle che li ha appena eseguiti scommettendo sullo zero e vincendo. “Il tennis è lo sport più difficile, lo sport dei pazzi e degli uomini soli”, si legge in Sei chiodi storti, libro sulla vittoria italiana in Davis Cup. Il tennis è o meglio era, anche e più d’ogni altro, lo sport di chi voleva viaggiare, e, senza doversi troppo preparare, godersi la vita col gioco.

E – necessariamente – non può essere da un Federer troppo assorbito dal proprio genio tennistico e dalla Vittoria quasi con disinvoltura pari a quella di Gulbis, in un game da roulette (russa proprio come gli autori da questi più amati) come nella sconfitta, per darsi alla lettura, ma da un’altra non-vincente al pari di tale viziato nonché vizioso lettone (una notte in guardina per aver flirtato con una tik) eppur con ben altra biografia, Andrea Petkovic, tedesca di Tuzla, sfuggita ai bombardamenti dai cieli slavi a metà anni Novanta, l’intellettuale del circuito WTA, che si può udire un paragone con rimando alla letteratura, Federer come Goethe, per via della perfetta fusione di forma e sostanza a un livello superiore – di re in trionfo…

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E se si vince a Wimbledon si può finire con l’esser l’ossessivo modello estetico del protagonista di un film di genio (il film è ovviamente I Tenenbaum – e il modello ovviamente McEnroe), ma in ogni caso non è proprio necessario vincere Wimbledon per finire immortalati in una pellicola cinematografica. È il caso di Ivan Lendl, un cui istante di partita al Roland Garros, è finito ne L’amico della mia amica di Eric Rohmer, da citare nella serie di opere in cui il campo rettangolare appare nelle più varie forme sul grande schermo nel cinema d’autore, agonistiche, come in Delitto per delitto-L’altro uomo di Alfred Hitchcock, in Match Point di Woody Allen, ne Le stade de Wimbledon di Mathieu Almaric, o non-agonistiche, come ne Il giardino dei Finzi Contini di De Sica, in Breezy di Eastwood, in Io e Annie di Woody Allen, ne La signora della porta accanto di Truffaut, in Blow-up di Antonioni (nella famosa scena dei mimi con la pallina e la racchetta assenti), ne L’uomo invisibile di Carpenter (in cui a non esser visibile è invece proprio il corpo del giocatore), e in un misconosciuto corto di Peter Ustinov, citato da Clerici nella finale tra Federer e Philippoussis, e d’altro canto il tennis è stato uno dei temi ricorrenti di uno dei più grandi autori, Jean-Luc Godard, e di uno dei più grandi critici, Serge Daney, che peraltro per dieci anni tenne una rubrica sportiva su Libération.

Godard, che ha immortalato il tennis giocato per diletto nel Jardin du Luxembourg in Pierrot le fou – Il bandito delle ore undici, e che lo ha fatto riapparire a più riprese nella sua infinita filmografia, tra l’altro in JLG/JLG – Autoportrait de décembre, la sua opera più autobiografica e malinconicamente duhreriana.

Godard, che intervistato da L’Équipe nel 2001 ha detto di sognare di giocare al Roland Garros, ma con soprabito indosso e il sigaro in bocca, d’altronde il tennis è un po’ un duello western, insomma Sergio Leone, recitando Une Sarah Bernhardt, testo di Frederic Prokosch, e dedicato a Bill Tilden, uno dei più grandi tennisti, e più in particolare questo passo: “Il tennis è più di un semplice sport. È un’arte, come il balletto. […] Nel momento in cui entro in campo mi sento come […] Sarah Bernhardt. […] L’ultimo atto sarà tragico?”

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Assolutamente tragico è invece l’effetto di tre film recenti e del tutto dimenticabili: Wimbledon (2004), liberamente ispirato alla clamorosa vittoria di Goran Ivanisevic, in un torneo in cui non era in tabellone in veste di “testa di serie”; Borg / McEnroe (2017), dedicato alla grande rivalità tra lo scandinavo e l’americano, il gelido cyborg, il regolarista, e il talento pazzo, un irregolare. La battaglia dei sessi (2017), che narra la sfida lanciata da un giornalista maschio, ex professionista di 55 anni, a una campionessa donna, vincitrice.

Di più ci si può aspettare da un documentario McEnroe – L’impero della perfezione di Jean Faraut, uscito nel mese di maggio, perché è un film sul tennis ma per dire qualcosa pure su altro, il cinema, nello stile “meta” del vecchio maestro Godard, e come è evidentemente necessario fare in questo tipo di casi, e sempre…

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Non basta il paragone con riferimento interno (Clerici: “Il Federer di oggi è […] praticamente ingiocabile. Per cominciare, il suo campo pare più stretto degli abituali otto metri e ventitré, perché il fenomeno posa i piedini negli immediati dintorni della linea di fondo, e si rifiuta recisamente quanto serenamente di indietreggiare. Lì piazzato, Roger ribatte tutto quanto l’avversario tenti  di inviargli con gesti che, se non proprio mezze volate, son trequarti di volata. Un po’ alla McEnroe, se permettete, ma ad una velocità quasi doppia”). La letteratura sullo sport vuole quello esterno (Clerici: McEnroe come Mondrian per via delle sue inattese e astratte geometrie).

Per esempio, un giornalista de L’Indipendent paragonò Wimbledon ad Alice nel Paese delle Meraviglie: “Il tennis è un gioco in cui love vale zero, deuces are wild e il sistema di punteggio fu inventato da Lewis Carroll”. Esoterico… Esclusivo… Ma le folle accorrono a Wimbledon. Come in pellegrinaggio in Vaticano.

(Nota: La locuzione deuces are wild è mutuata dalle carte.)

Marco Settimini

(continua)

*Il torneo di Wimbledon lo potete vedere qui

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