13 Dicembre 2020

È ora di leggere “The Recognitions”, il capolavoro di William Gaddis. Un romanzo che stordisce

Sovente annoverato fra i grandi autori della postwar fiction statunitense, quando non addirittura considerato l’autentico padre del romanzo massimale postmoderno, William Gaddis rimane ancora oggi, a distanza di sessantacinque anni dal suo folgorante, corrusco esordio The Recognitions, un autore avulso da etichette e mode imperanti: “for a very small audience” (R 478), come il romanzo escatologico che Willie, uno degli sfuggenti alter ego dell’autore nel romanzo, tenta di completare.

Dopo le riedizioni di The Recognitions e JR – il secondo, relativamente celebrato romanzo di Gaddis, quello della sua revanche sui critici, vincitore del National Book Award for Fiction nel 1976 – ad opera della sempre lodata Dalkey Archive (2012), la “New York Review of Books” si pone l’obiettivo di comunicare l’estetica di Gaddis ad un pubblico più ampio, inserendo i suddetti romanzi nella collana Classics; la nuova ristampa di The Recognitions sfiora le 950 pagine – se non si considera la nuova prefazione di Tom McCarthy, che si aggiunge alla vecchia prefazione di William H. Gass, mantenuta come postfazione –, un estenuante tour de force di densità stordente. Oltretutto, la nuova copertina, sobria ed elegante al contempo, dai caratteri che ricordano neanche troppo vagamente quelli della primissima edizione della Harcourt Brace & Co. (1955), invita ulteriormente all’acquisto e ad un’attenta (ri)lettura.

Inserita da Harold Bloom nel suo canone, è questa un’opera che abbraccia, su più livelli, innumerevoli aspetti della civiltà occidentale, tra cui personaggi, fatti e aneddoti presi dai domini dell’arte e della religione, rielaborati attraverso una visione peculiare. Tuttavia, il concetto stesso di “occidente”, di per sé problematico, implica intrinsecamente, a partire dall’etimo (occĭdĕre, tramontare), una sorta di nichilismo del quale lo stesso Gaddis pare assolutamente consapevole e che permea l’intera opera, sebbene convogliato da uno stile sfavillante, che fa della sintassi cumulativa uno dei suoi punti di forza (in netto anticipo sui tempi), e da dialoghi sbalorditivi che mescolano linguaggi alti a un linguaggio osceno e talvolta blasfemo che ha fatto impallidire buona parte della critica letteraria statunitense coeva. Al di là della lingua inaudita che erompe dalle sue pagine, il romanzo è mirabile per la profondità – la ricerca della trascendenza, nonostante tutto, è autentica – e le innumerevoli feritoie: il velo tende spesso quantomeno a sfilacciarsi, rivelando una visione ambigua che testimonia l’impossibilità di raggiungere un sistema esaustivo. Un romanzo di stratificazioni che richiede, appunto, una devozione religiosa.

Le affinità di Gaddis al movimento modernista, perlomeno nella prima fase della sua carriera, sono fin troppo evidenti. Certo, abbiamo a che fare con un innovatore autentico e non con un autore meramente derivativo, ma io ritengo che l’opera debba essere considerata come un ponte tra il (tardo) modernismo e il postmodernismo: come scrive William H. Gass in A Temple of Texts, “real sound”, ma pur sempre “in a dull decade” (55) di transizione. L’eredità modernista trapela irrimediabilmente dalla sua scrittura, giacché il vento incessante della poesia di T.S. Eliot e il suo anelito oggettivizzante stormiscono fin dalle prime pagine di The Recognitions, non solo per questioni stilistiche, ma anche per l’aura religiosa del romanzo, come sostiene Steven Moore (9), il più grande esegeta dell’opera di Gaddis. Il modernismo in Gaddis, tuttavia, è già in odore di qualcos’altro, e pare assestarsi su un modus operandi che implica una soggettività non trascurabile, nonostante una convergenza teorica col formalismo del New Criticism: “The writer should avoid the possibility of being taken over by his own fiction” (21), afferma deciso in un’intervista concessa a Tom LeClair nel 1980, quasi a scansarsi da ogni eventuale illazione sul fatto che gli eventi della sua vita abbiano influito sulla stesura dei suoi romanzi. Soggettività trasfigurata, un po’ sulla falsariga del Lowry di Under the Volcano, ma sempre con l’intento di mantenere separate arte e vita, in netto anticipo sulla metafiction del Gass di Willie Masters’ Lonesome Wife (“YOU HAVE FALLEN INTO ART–RETURN TO LIFE”, 60).

Il mito dell’elusività di Gaddis, tuttavia, pare definitivamente sfatato da Joseph Tabbi, autore dell’eccellente Nobody Grew But the Business: On Life and Work of William Gaddis (Northwestern University Press, 2015), un testo imprescindibile che propone un’intrigante interconnessione tra vita e opera del geniale romanziere. Ne emerge l’evoluzione coerente di un autore indefinibile, anche attraverso aneddoti succosi che lo mostrano come un autentico maverick, degno di un personaggio letterario dei suoi, e non è un caso che, già nel 1952, un altro irregolare come Chandler Brossard lo immortali in Who Walk in Darkness (come scrive Moore in una sezione del sito The Gaddis Annotations, la figura di Gaddis fornisce la base per Harry Lees, “a Harvard dandy who drinks too much”).

The Recognitions si pone già fin dal titolo come un romanzo quantomeno singolare: sempre Moore, in The Gaddis Annotations, rimarca l’utilizzo pressoché nullo, in lingua inglese, del termine “recognition” al plurale, che qui è da considerarsi traduzione letterale di Recognitiones (I ritrovamenti dello Pseudo-Clemente). Inoltre, il termine “recognition” è distribuito svariate volte nell’arco dell’opera (ben 81 apparizioni se si tiene conto dei derivati), generando ambiguità non indifferenti che sfidano qualsivoglia lettore. Per quanto concerne invece l’aspetto squisitamente tecnico del romanzo, non si può trascurare l’importanza degli stratagemmi stilistici ai quali Gaddis ricorre: il processo accumulativo e le connessioni proliferanti rivelano l’interesse di Gaddis nel creare un rapporto proficuo con un lettore consapevole, la cui partecipazione viene costantemente incentivata da un fluire incessante di informazioni da disciplinare attraverso una lettura estensiva dell’opera. Nel concreto, ripetizioni, citazioni, reminiscenze di opere letterarie passate (per addurre un esempio, nel “There would be time”, R 15, riecheggia il “There will be time” della “Love Song of J. Alfred Prufrock” di Eliot) contribuiscono alla “vision of order” (Moore) che giace alla base dell’utopia regressiva gaddiasiana: catene associative, calembours, allusioni non solo escatologiche, ma anche scatologiche (!?!) e sessuali, tra le altre, alludono ad accenni di fuga bachiana/bruckneriana, un espediente compositivo che, scarnificato, verrà portato alle estreme conseguenze dall’amico David Markson, soprattutto a partire da Wittgenstein’s Mistress (1988).

The Recognitions è, anche per questo, un grandioso pezzo d’arte polifonica, sebbene presenti una figura centrale, ovverosia il pittore e falsario Wyatt Gwyon – che, nella fantasia di Gaddis, dovrebbe avere la fisionomia scarna del celebre fotografo Walker Evans (Moore) –, il quale influenza indirettamente la vita e le azioni di gran parte degli altri personaggi. L’autore trasferisce aspetti della sua personalità poliedrica in Wyatt, ma anche in altri personaggi quali l’aspirante drammaturgo Otto, il compositore Stanley, il blasfemo Arthur (che assume il nome di Anselm in riferimento al santo d’Aosta), il mellifluo critico d’arte Basil Valentine (quasi una sorta di demone gnostico) e il sopramenzionato “Willie”, mentre altri personaggi del romanzo sono modellati su persone reali che Gaddis ha frequentato durante le scorribande al Greenwich Village (il pittore Max, ad esempio, altri non è che Anatole Broyard, mentre Esme, forse la protagonista femminile del romanzo, è l’ineffabile Sheri Martinelli, musa di Pound, ma ai tempi ancora bruciante infatuazione dell’autore).

La trama è discretamente tortuosa nel suo ribollire di sottotrame che si intrecciano fra loro, alcune delle quali prive della presenza, perlomeno fisica, di Wyatt, ed è da circa metà del terzo capitolo della prima delle tre parti del romanzo, idealmente strutturato come un trittico, che lo stesso protagonista non viene più nominato. Una tale, allusiva complessità spinge il lettore a scomporre ulteriormente la narrazione di Gaddis, di modo da trovare una giustificazione alle sue connessioni, sovente facendo riferimento a opere di altri autori o a sezioni precedenti della stessa opera. Joseph Tabbi, nel suo saggio “William Gaddis and the Autopoiesis of American Literature”, prova a mettere in risalto il fatto che i processi cognitivi attivati dall’autore nell’atto della composizione vengano risolti nell’atto di leggere con consapevolezza i suoi romanzi (113). L’approccio compositivo gaddisiano, inoltre, risente indirettamente anche del concetto di ripresa kierkegaardiano, come sottolineato da Klaus Benesch in “In the Diaspora of Words: Gaddis, Kierkegaard, and the Art of Recognition(s)” (“analysis of repetition as a spiritual/poetical mode of “knowing”, 36-37), nonché del tentacolare concetto di entropia, qui intesa come flusso di frammenti di pensiero e discorso da disciplinare (The Recognitions è già “a work of fragmented pieces and of a breakdown at a number of levels”, Le Clair, 24-25).

Innumerevoli i rapporti intertestuali che The Recognitions intrattiene con miriadi di testi filosofici e letterari, tra i quali spiccano le già menzionate Recognitiones clementine, The Golden Bough di Frazer e la White Goddess di Graves. Gaddis pare convogliare la tradizione – o perlomeno la nostalgia di essa – attraverso il già menzionato processo compositivo: tradizione (contenuto) attraverso innovazione (forma). La sua è infatti una visione che è sostenuta da un conservatorismo elitario che tradisce un tentativo utopico di strutturare il mondo attraverso un ordine ben definito che giace sulle stratificazioni della cultura occidentale. Wyatt, il tormentato artista/falsario che fugge disgustato dalle imposture degli ambienti pseudoartistici di una New York priva di redenzione, è protagonista del romanzo anche in quanto fulcro di questo tentativo. Quest’utopia regressiva include un’idea di ordine basantesi finanche su principi di matrice logico-matematica, tipici del platonismo rinascimentale (ma già presenti nella scolastica), che emerge a partire dalle primissime pagine dell’opera: “Evenings Gwyon spent closeted with Thomas Aquinas, or constructing, with Roger Bacon, formidable geometrical proofs of God” (R 7).

Questa è una visione che pare tuttavia destinata al collasso, rivelando il nichilismo che giace alle fondamenta della cultura occidentale, e che parte quantomeno dalla filosofia presocratica (curiosa la vaga analogia con Essenza del nichilismo di Severino). Diversi personaggi di The Recognitions sono innervati dalle ansie dell’autore circa quest’ordine illusorio dai sentori neoplatonici, tra i quali, ovviamente, Wyatt, le cui mire estetiche non possono riflettere altro che una rivisitazione del passato con un preciso punto di riferimento spaziale, nella fattispecie, le Fiandre di Autunno del Medioevo di Johann Huizinga, che si sovrappongono per larghi tratti alla New York del secondo dopoguerra, altra società transizionale in quanto terreno fertile per l’esplosione della cosiddetta Corporate America (cf. Wilkens, “Nothing as He Thought It Would Be: William Gaddis and American Postwar Fiction”, 609). La sfiducia che Wyatt riversa sull’arte moderna, del resto, è cassa di risonanza per le idiosincrasie dello stesso Gaddis – imbevuto, tra le altre, di estetica berensoniana: Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva è un’opera consultata a più riprese –, per cui l’espressionismo astratto in voga ai tempi è “part of the disorder” (LeClair 20), e si sovrappone ad un’estrema attitudine curatoriale che disvela un’insopprimibile tensione verso l’auto-distruzione, nel senso di una rielaborazione della cultura procedente attraverso un’azione anti-trasformativa.

Di conseguenza, Wyatt stringe uno scellerato patto dal retrosapore faustiano con il mercante d’arte ed editore Recktall Brown, in tutta probabilità assolutamente cosciente di essere parte integrante del meccanismo capitalistico che la sua etica condanna fermamente. E tuttavia, come il Pierre Menard borgesiano, si ostina a cercare di trasferire finanche lo spirito dei capolavori del Rinascimento nordico nelle sue contraffazioni, ma poi, come un novello Faust, si strugge nella ricerca di una redenzione forse meramente illusiva. La sua angoscia ha sovente a che fare con la ricerca di una verità metafisica che il Cristianesimo non può soddisfare interamente. Ogni religione pare la contraffazione di una precedente religione o la mistura sincretica di diversi sistemi di rituali: questo viene esplicato mirabilmente attraverso il reverendo Gwyon, padre di Wyatt – modellato in maniera geniale su Robert Graves, che Gaddis ha voluto visitare di persona a Maiorca (Tabbi 72-73) –, il quale mostra interesse per il cattolicesimo durante il suo soggiorno al Real Monasterio de Nuestra Senora de la Otra Vez, per poi volgersi al paganesimo convertendosi al Mitraismo, del quale il Cristianesimo sembra essere una mera contraffazione (R 57). Wyatt, d’altro canto, è interessato al pelagianesimo e al suo concetto di libero arbitrio, e una sorta di atmosfera pelagiana (cf. Moore 35-42) permea buona parte delle sue azioni, che tradiscono anche tracce evidenti delle concezioni di Meister Eckhart: una reazione naturale al senso di colpa puritano instillatogli dalla zia May, che condanna a più riprese il suo talento artistico fin dall’infanzia.

Wyatt tenta di “semplificare” la sua Weltanschauung verso la fine del romanzo, in quella che appare al lettore come una rivisitazione del pensiero di Thoreau (cf. “Or… or to have lived it through, and live it through again, and deliberately to go on living it through.”, R 896 e “live deliberately” R 900), e che tuttavia rimane nulla più che un progetto astratto: permane un nichilismo nemmeno troppo velato, ma questo tentativo di condensazione di trascendentalismo con filosofie continentali, quantomeno procedendo per “strappi” e allusioni, è indubbiamente suggestivo.

La dissolutio gaddisiana presenta anche implicazioni palesemente materiali: l’ostilità che Wyatt e soprattutto Stanley nutrono per la frammentazione (“[…] this modern disease”, R 615, quasi un calco di “That romantic disease, originality” R 89), reazione allergica alla degradazione dell’arte contemporanea, presenta innumerevoli connessioni con mutilazione, castrazione, e, generalmente, malattia, decadenza e decomposizione corporale (cf. Johnston, Carnival of Repetition, 147-150): “Finally we can’t even conceive of a continuum of time. Every fragment exists by itself, and that’s why we live among palimpsests, because finally all the work should fit into one whole, and express an entire perfect action, as Aristotle says, and it’s impossible now, it’s impossible, because of the breakage, there are pieces everywhere… (R 616).

Senza alcuna pretesa di esaustività, ho cercato di fornire alcune chiavi di lettura per interpretare forma e (alcuni) contenuti di The Recognitions. Oltretutto, non è da escludere che il processo di razionalizzazione del mondo nella filosofia occidentale proceda attraverso l’immagine della sfera, come approfondito da Peter Sloterdjik nella sua monumentale trilogia Sphären (1998-2004): sfere su sfere, oggetti circolari si susseguono nella narrazione, a partire dall’orecchino bizantino di Camilla, madre di Wyatt (“heavy Byzantine hoops of gold”, R 14; cf. anche il passo “Seven celestial fabrics, seven spheres, the colors of the seven planetary bodies […]” R 265). D’altra parte, lo stesso tema portante del romanzo, la contraffazione e il plagio, che coinvolge con oscillazione di gradiente pressoché tutti i personaggi, autentici simulacri, tende a negare persino la possibilità di una verità univoca, rivelando buona parte delle ipocrisie – hypokrisíē significa appunto “simulazione” –  della civilizzazione occidentale.

Il nichilismo sui generis di The Recognitions, che è suggellato dal devastante finale nel quale Stanley, devoto cattolico, causa la sua stessa morte provocando il crollo della chiesa di Fenestrula mediante le vibrazioni scaturite dalle note basse e dalle dissonanze della sua musica, va forse ben al di là della satira virulenta che Gaddis aveva intenzione di scrivere. La morte di Stanley, infatti, tragica e ridicola al contempo, ha il gusto allappante del sacrificio, sull’altare della vera arte: “and it is still spoken of, when it is noted, with high regard, though seldom played” (R 956), parole che ben s’attagliano all’arte compositiva dello stesso Gaddis, della quale si parla in termini lusinghieri, ma che de facto è ancora troppo poco trattata. Tempo di rimediare.

Michele Manca

Bibliografia:

Bloom, Harold, William Gaddis, Philadelphia, Pa.: Chelsea House Publ., 2004

Gaddis, William, The Recognitions, Champaign, IL: Dalkey Archive, 2012 (edizione utilizzata; New York: Harcourt Brace & Co, 1955).

Gass, William H., A Temple of Texts: Essays, New York, Knopf, 2006

Gass, William H., Willie Masters’ Lonesome Wife, Champaign, IL: Dalkey Archive, 2014 (prima pubblicazione presso TriQuarterly Supplement 2. Evanston: Northwestern UP, Evanston, 1968, poi ristampato da Alfred A. Knopf, New York, 1971)

Johnston, John, Carnival of Repetition (Gaddis’s The Recognitions and Postmodern Theory), Philadelphia: Univ. of Pennsylvania Press, 1990

Moore, Steven, The Gaddis Annotations (Notes, sources, references for the works of the great 20th-century novelist),soprattutto le seguenti pagine: https://www.williamgaddis.org/recognitions/SmooreRecsThenNow.shtml e https://williamgaddis.org/infiction/index.shtml

Moore, Steven,  William Gaddis (Expandend Ed.), New York: Bloomsbury, 2015

Tabbi, Joseph,  Nobody Grew But the Business: On Life and Work of William Gaddis, Evanston, IL: Northwestern University Press, 2015

Tabbi, Joseph, Shavers, Rone (ed.), Paper Empire: William Gaddis and the World System, Tuscaloosa, Ala.: Univ. of Alabama Press, 2007. Contiene l’intervista di LeClair (“An Interview with William Gaddis, circa 1980”) e i saggi di Benesch (“In the Diaspora of Words: Gaddis, Kierkegaard, and the Art of Recognition(s)”) e Tabbi (“William Gaddis and the Autopoiesis of American Literature”)

Wilkens, Matthew, “Nothing as He Thought It Would Be: William Gaddis and American Postwar Fiction”, Contemporary Literature, Vol. 51, No. 3 (FALL 2010), pp. 596-628, University of Wisconsin Press

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