31 Luglio 2020

Breve esegesi dei “walteromanzi”. Ovvero: Walter Veltroni si è dato al “giallo” (ma non tutti i lettori sono cretini)

«Il sindaco di questa città è fissato con la sicurezza dei bambini e il decoro delle ville. Vuole che vengano garantiti sempre al massimo livello. E per questo ha convinto il ministro e il capo della polizia a…» (Walter Veltroni, Assassinio a Villa Borghese, Marsilio 2019).

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Come sappiamo, per anni Walter Veltroni ha tramandato se stesso in diverse forme, dal campo politico a quello cinematografico e letterario, arrivando a sfornare una serie di romanzi – talmente connotati da poterli definire “walteromanzi” – con cui ha regolarmente colonizzato i giornali, le televisioni, le librerie e il mercato intero, piazzandosi sempre al centro della scena. Adesso l’ex-sindaco di Roma, non ancora sazio, è arrivato all’impensabile: pubblicare un “giallo” in cui materializza addirittura sé stesso come il deus ex machina che «ha convinto il ministro e il capo della polizia a istituire il commissariato di Villa Borghese».

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Quando Alessandro Baricco scrisse su la Repubblica il famoso articolo dell’11 gennaio 2019, mise subito in chiaro (con oltre un decennio di ritardo) il nocciolo della questione: “la gente concede alle élites dei privilegi e perfino una sorta di sfumata impunità, e le élites si prendono la responsabilità di costruire e garantire un ambiente comune in cui sia meglio per tutti vivere”. Ma da quando le cose non funzionano più, le élites si sono chiuse nel loro habitat protetto in cui difendono e tramandano i privilegi, impedendo l’ingresso a chiunque, e “tengono per i coglioni il mondo”: così la gente “ha decisamente stracciato il patto e se n’è andata direttamente a comandare”. Ora, se si vuol trovare un esempio plastico di questo problema, si può partire da Walter Veltroni.

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Sappiamo che nella sua produzione letteraria Veltroni è ricorso a tutti gli espedienti possibili per trovare scorciatoie, per fare meno fatica, imitando idee e stili altrui, riempiendo di citazioni – dal cinema, dalla televisione, dallo sport, da qualsiasi cosa – tutto il riempibile. Stavolta, nell’ultimo romanzo, s’inventa un commissariato romano a Villa Borghese, e per imprimergli una spinta di comicità parte con un incipit che vorrebbe essere “la madre” di tutte le citazioni: «Vieni avanti, Buonvino».

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Non ci si crede: usa la celebre battuta d’avanspettacolo dei fratelli De Rege che risale a più di ottant’anni fa, ripresa in televisione sessant’anni fa da Walter Chiari e Carlo Campanini, poi riprodotta nel titolo di un film con Lino Banfi quarant’anni fa. Non sappiamo quanto l’effetto comico venga colto dal lettore, anche per ragioni anagrafiche, ma l’autore offre subito qualche chiarimento: “Dopo aver bussato, l’ispettore superiore Buonvino alzò gli occhi al cielo e, sbuffando, aprì la porta. «Silvestre, sono vent’anni che fai la stessa battuta. Dai tempi dell’Accademia. Tu hai fatto carriera, sei diventato persino primo dirigente, ma devo proprio ricordarti come ti chiami? Il tuo nome è Giuseppe Silvestre. E ti fai pure chiamare Pino. Ma perché mi hai cercato, dopo tanto tempo? Promozione in arrivo?»”.

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Santo cielo. Insieme al “Vieni avanti, cretino” ci viene appioppato il “Pino silvestre Vidal”, il famoso bagnoschiuma del carosello anni Settanta col cavallo bianco che correva nell’acqua: due super-citazioni sparate in faccia nelle prime righe, da restarci secchi. E nel seguito si snocciola una quantità di roba, la Casa del Cinema, Dario Argento, Ettore Scola, il Giardino del Lago, l’hotel Villa Borghese, gli spyderini, i palloni Super Santos, la Bibbia, Nick Novecento, Dalla, De Andrè, Ornella Muti, William Shakespeare, Emanuela Orlandi, Giovanni Falcone, James Tont eccetera. Il tutto mescolato in un favoleggiare improbabile e dilettantesco (“Il suo ufficio, un barattolo senza finestre, nel quale spesso trascorreva le giornate guardando e contando le crepe sul muro”), con espedienti da film di serie B e tasselli informativi ficcati senza riguardo, come se si dovesse guidare un lettore semi-incapace.

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“Buonvino decise di andare a piedi da Villa Umberto fino al luogo del delitto. Ora quello scenario paradisiaco − verde e cultura, bambini e innamorati − gli appariva come un luogo sinistro, carico di misteri e grondante sangue”: questo è il frammento proposto in tutte le pagine web che incitano all’acquisto. Peccato che, secondo chi ci vive, certi lati dello scenario paradisiaco siano da tempo luogo di prostituzione, di tossicodipendenza, di violenze e rapine, tutte cose che Walter Veltroni forse conosce poco, protetto com’è nella sua rassicurante visione del mondo. Siamo certi che scrivere una cosa come questa – spacciata per divertissement – non sia stato difficile: basta assemblare una trama con suggestioni e stilemi rilevati da altri libri, dai recenti Bastardi di Pizzofalcone alle avventure di Rocco Schiavone, risalendo al padre nobile Andrea Camilleri e alla truppa del commissariato di Vigata, con le sue situazioni pseudo-comiche e i dialoghi da babbioni di paese. Naturalmente, i personaggi sono senza spessore, la trama è raffazzonata e poco credibile, i luoghi comuni fanno da legante insieme alle citazioni, i “colpi di scena” restano nella testa dell’autore e dell’editore, che le battute se le ridono da soli, mentre il finale “a sorpresa” è qualcosa che lasciamo giudicare a chi riesce ad arrivare alla fine.

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Per mantenere un’impostazione scontata e puerile, Veltroni crea un protagonista piacente e politicamente correttissimo, mentre il suo antagonista è brutto, ha un passato oscuro e le dita ingiallite dalla nicotina: “Buonvino si era detto che forse, sotto o dietro l’odiosa discriminazione, c’erano la malcelata invidia di colleghi meno dotati fisicamente e meno avvenenti di lui, o anche ragioni politiche. Lui aveva avuto i nonni partigiani e ne era orgoglioso. Silvestre, per esempio, si diceva invece affondasse le sue origini familiari in una losca dinastia di agenti dell’Ovra e della Gladio”. Dunque, non manca la politica, che divide i buoni dai cattivi, ovviamente coniugata con il calcio: “Il colore delle sue dita, qualcosa a metà tra le magliette della Roma anni Sessanta e quelle canarino del Modena, testimoniava invece il fallimento di tutti i tentativi fatti per smettere di fumare”.

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“Sotto o dietro”, “o anche”, “losca dinastia”: si notino le finezze stilistiche. Va da sé che questo walteromanzo non solo minaccia di avere un seguito, come annunciato dall’autore, ma è facile che diventi una serie televisiva, ipotesi raccapricciante ma abbastanza realistica per chi è stato segretario della Fgci, uomo politico, ministro per la cultura, sindaco, fondatore di partiti, saggista, romanziere, documentarista, autore televisivo, regista cinematografico eccetera. Insomma, dire essere introdotti è dire poco; qui sembra esserci l’ambizione di creare una sorta di “Codice Da Vinci” alla romana, forse ispirato a La grande bellezza di Paolo Sorrentino, con tutte le sue suggestioni. Ma la resa è svilente, di una banalità che diventa offensiva: per rendersene conto basta riportare un brano della parte iniziale.

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“«Promozione in arrivo?» Il sorriso era finto, meccanico, e la domanda gli sembrava fosse semplicemente rotolata sulla testa china di Silvestre, che neanche lo guardava. Aveva fatto la solita battuta sul suo cognome senza nemmeno alzare gli occhi verso la porta, quando Giovanni era entrato; avrebbe anche potuto esserci Ornella Muti al suo posto.

Quando infine sollevò la testa, però, il primo dirigente non reagì come se avesse visto la bella attrice, e fece una smorfia. L’evocata promozione restò così nell’aria per un tempo immotivatamente lungo. A Buonvino sembrò che rimbalzasse sulle pareti, scuotesse la porta, le finestre, e poi tornasse dov’era partita, sul sorriso tonto di un ispettore superiore al cospetto del suo capo. Lo stesso che negli ultimi quindici anni gli aveva affidato burocratiche e insignificanti mansioni di ufficio negandogli ogni tipo di avanzamento.

Silvestre e Buonvino restarono così per un tempo assurdo. Il primo in silenzio scrutante e il secondo col residuo di sorriso fesso, anche peggio del sorriso fesso.

Fu Silvestre a rompere il malefico incantesimo. Lo fece mostrando disappunto. Stava per dare una buona notizia, il che lo infastidiva davvero. Sbuffò: «Sì, Buonvino, hai ottenuto una promozione. Ti faremo commissario».

Per un momento Giovanni pensò di abbracciare quell’uomo che gli aveva appena comunicato la buona, attesa novella, ma scartò subito l’ipotesi. Anche per via del colore delle dita. Poi un atroce dubbio: che il perfido Silvestre stesse spietatamente proseguendo la sua stanca gag a imitazione dei fratelli De Rege − «Vieni avanti, Buonvino» − e volesse davvero dimostrare erga omnes che lui era un cretino, credulone e babbeo?”.

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La bella attrice, il malefico incantesimo, la stanca gag a imitazione dei fratelli De Rege. Spiace dirlo, ma questo walteromanzo giallo è la cosa più scadente, meno opportuna e più dannosa che il suo autore poteva farsi venire in mente. Un lavoro pessimo, di cui porta la responsabilità anche chi ha favorito, alimentato, realizzato l’idea. Una trovata talmente stupida da far temere che i profitti attesi, sempre robusti per le camionate di libri che Walter Veltroni rovescia regolarmente sul mercato occupando tutti i media, saranno inferiori alle previsioni: il parco lettori (qui considerato come il “parco buoi” di borsistica memoria) non è illimitatamente sprovveduto, e quando si insiste a imitare il già imitato, quando s’infarcisce tutto di battute melense e citazioni, quando si assembla senza criterio e senza visione – e senza vergogna – non si può pretendere un consenso a oltranza. Soprattutto quando si usano trovate e stilemi sorpassati, con dialoghi innaturali e meccanici, costruiti per spiegare l’antefatto al lettore, come nelle peggiori sceneggiature:

«Ancora? Sono passati quindici anni!»

«E quanti ne sono passati da quando Graziani sbagliò il rigore con il Liverpool? E Zaza quello con la Germania? Gli errori sono cicatrici, e più sono gravi più sono profonde».

«Vabbè, grave… Un’imprecisione…»

«Imprecisione? Tu sei matto, Buonvino. Devo forse ricordarti il fatto? Eri di turno alla Mobile di Caserta e ti arriva la segnalazione di un raduno della camorra durante la comunione del figlio di un boss. Si svolgeva in un ristorante di via Fratelli Bandiera. Tu mandasti i Nocs in via Fratelli Cairoli, dove c’era la cresima del nipote del prefetto. La suocera di sua eccellenza ebbe un infarto grave e il bambino rimase sotto shock per mesi».

«Vabbè, ho confuso due eroiche figure risorgimentali. La sfiga ha voluto che ci fosse un ristorante in tutte e due le vie, e che entrambi avessero ricevimenti per cresime e comunioni. Vabbè che era maggio… Una macchia, ma in una carriera irreprensibile».

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Riassumendo, le élites sono “una minoranza ricca e molto potente”, scriveva l’anno scorso Alessandro Baricco: “Osservati da vicino, si rivelano essere, per lo più, umani che studiano molto, impegnati socialmente, educati, puliti, ragionevoli, colti”. Peccato che restino chiusi nel loro recinto e non riescano – a cominciare da Baricco – né a interpretare il fuori nel suo divenire, né a valutare il loro dentro per com’è davvero.

Paolo Ferrucci

*In copertina: Walter Veltroni (l’immagine è tratta da qui)

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