13 Giugno 2018

“Volevo qualcosa di inaudito, di disturbante”: dialogo con Andrea Ponso, che ha tradotto il Cantico dei Cantici come un “cane rabbioso”

Bisognerebbe parlarne per giorni. Scendere per le strade. Sintonizzare la testa spegnendo i cellulari e i fari del Parlamento. Il Saggiatore, con un coraggio editoriale triplo, pubblica il Cantico dei Cantici nella versione, potentemente annotata, di un poeta, Andrea Ponso. Poeta tra i più bravi, oggi, talento riconosciuto da tempo, quello di Ponso – nel 2011 Mondadori pubblica la ‘placca’ I ferri del mestiere – congiunto a una costante rapacità nel far rapina e tenda dentro il testo biblico. La gran parte del libro, in effetti, è un prodigio esegetico di 240 pagine, sotto il titolo Meditazione, corpo e desiderio. Una visione unificata. Dai padri al Cantico, in cui Ponso, inseguendo il Cantico, sviscera i testi di Evagrio Pontico e di Isacco di Ninive, di Gregorio di Nissa e di Giovanni Climaco e dei campioni dell’esicasmo… testi, si capisce, che punteggiano i giorni del poeta. L’evento editoriale, comunque, resta. Il poeta – che si spoglia del suo essere ‘poeta’ – a confronto con il grande Testo: un esempio – più formale che spirituale, però – è Il Vangelo pubblicato da Neri Pozza 60 anni fa, per l’arguzia retorica di Nicola Lisi, Corrado Alvaro, Diego Valeri, Massimo Bontempelli. La Bibbia in bocca ai poeti: diversi anni fa, per il piccolo editore Raffaelli, m’era venuta una idea così semplice da sconvolgere. Affidare a un poeta, a uno scrittore, a un illustre scemo, un libro della Bibbia. Vedere cosa accade. Scandire non tanto la disciplina traduttiva – di bibbie filologicamente doc ce ne sono troppe – ma il disastro spirituale. Lasciarsi inondare dal testo, lasciarsi spogliare e disumanizzare – col rischio di restare muti. L’idea, ardua, restò lì, con qualche versione magnetica – l’Esodo di Gian Ruggero Manzoni, il Cantico di Andrea Temporelli – nel deserto. Qui appunto, accade lo stesso. Ponso muore a sé, fa falò del proprio alfabeto, per ascoltare il sussurro del Cantico, il canto dell’amore che trionfa e trafigge, del corpo che allucina visioni. Il Cantico insegna che amore è come morte, che per amare si muore a se stessi, vivendo nell’altro, per l’altro, dell’altro, e questa è la vigoria dell’indipendenza – pendere per l’altro. Il segreto del Cantico è svelato nel capitolo 8, versetto 6. A mo’ di gioco, ecco alcune traduzioni ‘d’autore’:

“Poni me come marchio su cuore tuo, come marchio su braccio tuo – che violento come la morte, aspra come Sheol gelosia: peste sua, febbre di fuoco – fiamma di Yah” (Andrea Ponso)

“Come sigillo sul tuo cuore ponimi/ sul tuo braccio, come sigillo. È forte/ come la morte amore ed ostinata/ la gelosia come inferi,/ con le vampe del fuoco avvampa” (Andrea Temporelli)

“Un sigillo nella tua mente/ E un braccialetto sul tuo braccio io sia// Perché l’Amore è duro/ Come la Morte// Il Desiderio è spietato/ Come il sepolcro// Carboni roventi sono i suoi fuochi/ Una scheggia di Dio infuocata” (Guido Ceronetti)

“Incidimi come un sigillo sul tuo cuore,/ come un sigillo sopra il tuo braccio!// Sì, forte come Mawet è l’Amore/ e la Passione è ostinata come l’Inferno./ I suoi ardori sono ardori di fuoco” (Emilio Villa)

“Come un sigillo imprimimi sul cuore,/ come uno stigma portami sul braccio;/ poiché l’amore è indomabile/ più che la morte, inflessibile/ la gelosia più che lo scheol./ Un rogo sono i suoi impeti/ d’incoercibili fiamme” (Agostino Venanzio Reali)

canticoParto dal linguaggio che hai adottato, indossato, scelto o che ti ha scelto per passare il Cantico in italiano. Da dove arriva? Non pare che ricordi il tuo lavoro poetico.

Mi fa piacere che tu lo dica. Credo anch’io non abbia molto a che fare con il mio stile, per fortuna. Ho cercato di fare tabula rasa, per quanto possibile. Per me tradurre è una modalità rituale e meditativa: attraverso le tecniche e i saperi, si tratta di lasciare che qualcosa di inaspettato si incarni, mettendo per un attimo a tacere quelle stesse tecniche, quegli stessi saperi. E la fatica maggiore è stata quella di “dimenticare” ogni stile e ogni regola codificata nella modernità, compresi i significati che nella Bibbia sono molto diversi da quelli di oggi, come è diversa la concezione del soggetto, della parola e dell’azione, per non parlare dei generi letterari. Ma anche il dimenticare è una attività, un fare della tecnica, della conoscenza e della memoria: in questo senso è l’oblio che rende viva la tradizione. Volevo nascesse qualcosa di inaudito, anche di disturbante: fare in modo che al posto del significato il lettore e io stesso ci trovassimo davanti a dei significanti viventi e non alla loro riduzione a concetti e schemi o significati.

Il Cantico è stato molto, molto tradotto in Italia. Tu fai azzeramento, pare. Non citi nessuna versione che ti precede. Perché?

Naturalmente ho letto le versioni in italiano e anche alcune molto interessanti in francese. Sono inoltre sempre rimasto colpito dal lavoro sul testo ebraico di Guido Ceronetti: tuttavia, il fascino di quest’ultimo era troppo forte, la sua traduzione era troppo “bella”, e cioè, a mio avviso, troppo esteticamente vicina alla nostra tradizione letteraria. Io non volevo questo, speravo che le ossa, come dice Ezechiele, potessero rivivere al di là della fatica di chi traduce e della sua lingua. Volevo che il testo scompaginasse la sintassi e la grammatica della lingua d’arrivo, che la infettasse e la slogasse, e che il lettore potesse sentire nella sua bocca questa esperienza invasiva, che gli andasse di traverso, perché il nostro modo di concepire l’armonia non è quello del testo antico, e non è nemmeno quello del sacro… in fondo è questa la funzione vera e profonda del rito. È stato un rigoroso abbandono, alla grazia – perché la grazia è anche capace di slogare e tendere i tendini della lingua-corpo, altrimenti non sarebbe grazia o, meglio, non sarebbe grazia accettata.

Come intendi il Cantico: un canzoniere erotico tratto dalla letteratura ebraica laica (ricordo l’interpretazione di Emilio Villa) o, come consuetudine, come il gioco amoroso tra Israele/Yah, tra Chiesa/Cristo?

Ho cercato di non “intenderlo”, di non “com-prenderlo” nel senso di pormi di fronte ad esso come ad un oggetto. Ho cercato di “diventare” il Cantico, di lasciarmi strattonare, accarezzare e massacrare dal corpo della sua lingua. Le varie interpretazioni sono, seppure inevitabili, modalità di metterlo almeno in parte a tacere. Ogni risposta che ci diamo è un modo difensivo di tappare la bocca a ciò che non sappiamo e che ci fa paura. E il Cantico fa paura perché è totalità in atto, nel suo continuo farsi e disfarsi. I Padri sostenevano che la meditazione delle Scritture doveva fare in modo che lettore e parola si unissero come in un amplesso, fino a non sapere più chi parla e chi risponde. Tra l’altro, è proprio questo che succede anche nella dinamica interna del Cantico: l’insistenza sui possessivi “mio” “tuo”, ad esempio, non è altro che la conferma rovesciata di questa unità nella differenza. Parlare di versi o di prosa è ridicolo, io credo, quanto parlare di soggetto e oggetto o di io e tu amorosi. Il Cantico fa piazza pulita di tutto quel sentimentalismo e psicologismo difensivo e insopportabile che circola nella nostra poesia contemporanea, di tutta quella riproduzione e rappresentazione in cui tutto è uguale e previsto, di tutto quel dopolavoristico autosostegno tra presunti poeti e scrittori che farebbero meglio, invece di organizzare e partecipare a letture poetiche e presentazioni, ad iscriversi a qualche gruppo di sostegno psicologico tipo anonima alcolisti: il risultato è esattamente lo stesso. E tutto questo lo rivela il Cantico, che è un testo d’amore e di relazione devastante, perché smaschera ogni falsa rappresentazione, e finalmente distrugge l’anima e l’interiorità, così come vengono purtroppo ancora intese solitamente, non solo e non tanto in ambito cattolico.

La maggior parte del libro, comunque, tesse una interpretazione testuale che passa da Evagrio al Nisseno, tra Climaco e Palamas. Hai scelto gli autori, pare, secondo una idea precisa: quale?

L’idea era quella di tentare una visione non-dualista, di partire dal corpo come forma di meditazione e metterla letteralmente in pratica. Soprattutto i cristiani sembrano avere dimenticato la tradizione patristica a questo riguardo, magari per andare alla ricerca di cose molto simili in altre tradizioni orientali, oggi molto in voga, ma purtroppo quasi sempre sfigurate e accomodate, proprio come succede per le traduzioni bibliche, alla cultura di arrivo. A me i Padri, soprattutto quelli della tradizione ortodossa, sembrano di una contemporaneità sconvolgente, anche dal punto di vista della riflessione sul desiderio, per non parlare delle intuizioni sul linguaggio di un Gregorio di Nissa. Molti studiosi le hanno ridotte ad appendici della filosofia greca, non comprendendo che, pur usando termini di quella cultura, ne hanno sconvolto per molti aspetti i significati. Gregorio parla apertamente di eros e non solamente di agape, così come Climaco nel suo splendido e per me fondamentale La Scala: a leggerli con attenzione ci si trova davanti a cose inaspettate. Quando mi capita di fare qualche lectio in chiesa vedo facce che si perdono quando sentono parlare di certi argomenti. Comunque, la mia intenzione era quella di mettere alla prova il testo biblico e la tradizione patristica per una visione del corpo e del desiderio che non fossero viziate dal moralismo o da visioni dia-boliche, ma piuttosto sim-boliche; in questo senso ci sono assonanze anche con le neuroscienze, ad esempio, per non parlare di tutta la riflessione sui “pensieri” di un Evagrio o di Isacco di Ninive degne, se opportunamente contestualizzate, di alcune delle migliori intuizioni di Lacan.

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Lui è Andrea Ponso: ha tradotto il ‘Cantico dei Cantici’ per il Saggiatore (2018)

Il Cantico – la Bibbia, del tutto – è canto e sinfonia del corpo. Dio vuole il sangue, scandisce i corpi, si incarna. Il corpo è il centro del Testo Sacro. Da qui, dalla carnalità, l’oltranza verso l’Altro. Che ritmo ha il corpo nel Cantico, che valore?

Non credo proprio che “Dio voglia il sangue” nel senso sacrificale del termine: per secoli la stessa chiesa ha avuto questa visione sacrificale e vittimaria, tra l’altro interpretando male proprio il senso del kippur ebraico. Il corpo è tempio dello Spirito, e lo Spirito non è l’anima: lo Spirito è l’unificazione di ciò che è diviso, dia-bolico. Questo non toglie che il tempio possa e a volte debba anche essere “distrutto”, quando diventa idolo e cioè quando, come dice il salmista, “ha bocca e non parla, orecchie e non ascolta…”, vale a dire quando il corpo viene svuotato del sentire, quando diventa mero “strumento” e non il luogo in cui immanenza e trascendenza si incontrano, si perdono e si ritrovano. In tutto questo la parola è certo fondamentale, ma non è l’unica cosa importante: se il Verbo si è fatto carne significa che non si è fatto logoì, che non si è fatto solo “pensiero” o “discorso”; il Verbo è incarnato e quindi è importante la parola quanto la bocca che la dice, quanto il gesto, l’azione, l’odore… in questo il Cantico è insuperabile: non troviamo “pensiero”, non troviamo il Nome, se non in un misero frammento discutibile, non troviamo i temi classici dell’Antico Testamento… c’è il corpo e il sentire: per questo ho cercato di lasciare, anche dal punto di vista sintattico, il movimento originale del testo, la sua azione in atto, per quanto possibile. La rivelazione è una modalità estetica, è nel corpo che siamo “sorpresi” e “anticipati”, è il corpo che smonta ogni nostra costruzione intellettualistica e ci riporta al dono prezioso e così difficile da accettare della finitezza: questa è meditazione, cioè ascolto del corpo, non certo dell’anima! Tutto del corpo è buono, lo dicono molto spesso i padri, soprattutto quelli della tradizione ortodossa: sono i “pensieri” a fare ostacolo, è la nostra pretesa di controllare e ridurre tutto a oggetto il vero peccato originale. Il corpo del Cantico è un corpo “monastico”, cioè unificato, anche laddove la lacerazione e la distanza sembrano insuperabili: noi siamo da sempre questo corpo, non c’è niente da “raggiungere” o da “conquistare”, c’è solo la resa a questa grazia difficile che da sempre siamo e che da sempre fuggiamo. Gregorio di Nissa parla in maniera ineguagliabile del desiderio come epektasis: il desiderio è pienezza e, nello stesso tempo, mancanza che spinge alla metamorfosi, in una ascesa infinita e immanente insieme… un paradosso che bene spiega ciò che accade nel Cantico.

Come sei riemerso, cioè, a quale esperienza spirituale – e carnale – ti ha portato la traduzione del Cantico?

È stato un lavoro di molti anni, naturalmente alternato con altre traduzioni e progetti… i salmi, Isaia, Qohèlet… credo di essere stato prima attirato e poi colpito, letteralmente colpito, dal Cantico, proprio perché è la pienezza che io non possiedo, è l’amore che mi manca e che non so dare come sarebbe giusto. È come quando leggi i salmi: ti trovi più spesso dalla parte dei malvagi che da quella dei giusti. Tutto questo mi ha scavato dentro, e ancora lo sta facendo… mi mostra che, letteralmente, sono ciò che mi manca… e non sto parlando di pensiero o speculazione filosofica: sto parlando dell’unità del corpo, dell’essere sintomo di divaricazione e fatica, di ansia e di silenzio. Ne sono uscito a pezzi: sono partito con l’ossessione delle ossa della pianura di Ezechiele, ho annusato la speranza e la presenza che da sempre siamo, e ora mi ritrovo ancora tra quelle ossa. Ma sento che sotto tutto il tremore e i problemi del corpo e dei nervi c’è un silenzio e una pace unificata inscalfibili e che, in fondo, non c’è niente di cui pre-occuparsi: proprio come i gigli dei campi, una delle pagine più belle e inquietanti di tutti i vangeli… non preoccupatevi… Un padre del deserto diceva che l’eremita è come un cane rabbioso che dovrebbe fuggire la gente per non farle del male. Ora mi sento esattamente così.

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