16 Agosto 2018

“Voglio essere fastidioso, irritante e indefinibile. Sono il pinguino di Walt Disney”: 100 anni di Ingmar Bergman (ma chi li guarda i suoi film, ora?)

Chi li vede ancora i film di Ingmar Bergman?

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A 100 anni dalla nascita del regista folgorante, che ha gettato una torcia nel gorgo umano. Chi li guarda i suoi film, chi li conosce? L’ora del lupo, Persona, Il posto delle fragole, Scene da un matrimonio, Fanny e Alexander… L’eleganza di platino di Max von Sydow, la potenza scenica di Liv Ullmann, il viso di cristallo di Bibi Andersson, l’imbarazzante bellezza di Ingrid Thulin. Chi li guarda, ora, i film di Ingmar Bergman?

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Certo, l’accademia. Quando l’arte diventa oggetto accademico significa che è morta. Se Lord Jim non è più la grammatica dell’adolescente ma la materia di uno storico della letteratura inglese, la sua potenza selvatica, va da sé, è sfinita. Un tempo i cineforum mandavano in onda Bergman: aizzava la discussione, si diceva. Ai miei tempi i cineforum erano già antiquariato; oggi di Bergman si parla perché c’è l’anniversario rotondo, il centenario dalla nascita. Qualche convegno. Una riduzione teatrale. Applausi funebri.

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Siamo schiavi della ‘trama’ – la superficie. Un difetto americano. L’arte europea non è una linea retta che va da A a B: è uno scandaglio o un’ellisse. Cosa racconta Otto e mezzo? Cosa racconta La notte? Cosa racconta Persona? Se un film non racconta ciò che non si può raccontare, se non vince, cioè, i confini della forma, se non rompe con la coerenza narrativa – che nella vita non esiste –, è fiction, ovvietà su grande schermo.

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Lanterna magica, l’autobiografia di Ingmar Bergman, si apre e si chiude sul sopracciglio di Dio. “Quando nacqui, nel luglio 1918, la mamma aveva la spagnola, ero in cattive condizioni e fui battezzato d’urgenza in Ospedale”. Questo è l’incipit. E questa è la frase che conclude il libro. “Prego Iddio senza fiducia. Bisogna arrangiarsi da soli, per quanto è possibile”. Bergman è un bambino malato, per questo irrompe Dio, attraverso il battesimo imposto. Bergman adulto continua a pregare, consapevole che l’uomo è solo e Dio, forse, è il foro sulla fronte, esito disciplinare della mira di un angelo-cecchino. Ad ogni modo, arte è decapitare Dio – e decidere per la sua pace.

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Il cinema è per il pubblico – Bergman ha bisogno, per adempierlo, dell’isolamento, dell’isola di Farö. Importante è affratellarsi con il vento, amare la pietra.

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Di Bergman mi affascina la coerenza nel delirio – il narcisismo inarrivabile – la necessità di ferire, di squarciare, senza chiedere perdono se non a massacro avvenuto. Bergman usa le sue innumerevoli donne, esaspera i rapporti sentimentali, ha bisogno di osservare il distillato ultimo dell’uomo – il suo atroce singulto. Ha bisogno di circondarsi di amanti e di stimolare vendette. Come ogni artista di genio, Bergman è un vampiro: ingiustificabile come uomo, si giustizia con l’opera, verticale. Bergman deve devastare la sua vita privata – cinque mogli, nove figli, alcuni riconosciuti in tarda età – per assegnare autenticità all’opera. Uccide chi gli sta accanto per affilare con quel sangue l’ago con cui si torturerà. Per questo, per un periodo, sono entrato nella sua testa, estirpandogli i pensieri.

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Questi sono alcuni pensieri che ho dato a Ingmar Bergman, in un libro che si intitola Ingmar Bergman. La vita sessuale di Franz Kafka (Ravenna, 2015):

“Essere tanto devoti alla propria opera da non occuparsi di essa, da preferirla anonima, da concederle il privilegio dell’indifferenza. Così si ama lasciando che l’amore si dissolva nella dissipazione”.

“Dai miei ricordi, da quello che ho amato, dalla gioia voglio liberarmi. Distruggo continuamente ciò che può salvarmi, come se solo questo gesto di brutalità possa darmi vita”.

“In ogni circostanza, voglio il potere, dirigo i destini. Anche nell’amare sono il padrone assoluto: determino la passione e l’inasprimento dell’impotenza. Finché il potere mi disgusta. Non ammetto donne che non siano suddite, ma in realtà desidero essere soggiogato. Le mie ossa sono congiunte da una bava di ferro: sono il ricamo sulla corazza di un re di cui mi è oscuro l’uso, il vantaggio e la missione”.

“Durante la malattia di Ingrid, Liv mi ha spedito delle fotografie. Me le ha scattate quando eravamo sposati. Sono nudo e con la mano destra mi copro il viso. La fotografia è in bianco e nero, stampata su lastra, violenta. Sembra che con la mano voglia soffocarmi; le dita bucano gli occhi, sbriciolano gli zigomi. Ho impiegato un po’ a riconoscermi: all’inizio ho pensato che Liv volesse stuzzicarmi inviandomi l’immagine del suo nuovo amante. È una cosa così inconsistente il corpo che basta coprirsi il viso perché sia irriconoscibile, irrisolto. Ma non cambierebbe lo smarrimento anche a volto scoperto. Sono sempre qualcosa di diverso rispetto al mio corpo. Liv sa che Ingrid sta morendo e ricorda certamente che è con lei che l’ho tradita. Forse la fotografia è una offerta: ricorda che sei sempre mio marito. O è stato un gesto di vendetta? Forse spedendomi quella fotografia Liv vuole dirmi che sono morto, che ogni sentimento è parziale, ogni amore il nulla. Con questo corpo che ti è così alieno guarda quanto male hai fatto: ecco cosa voleva dirmi Liv. E ora che Ingrid è morta, rivoglio Liv, come un dio bastardo e senza eredi che gioca a distruggere destini, a infliggere colpe e sofferenze, a far morire e risorgere ciò che continuamente ama”.

“Sto al fianco del sofferente non per aiutarlo o per una infantile forma di compassione: studio il dolore, respiro il male. Amo appropriarmi dello spirito di chi soffre, come se fossi un dio insano, che ha dimenticato la ragione della gioia, l’etica dello sterminio”.

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Vidi molti anni fa un cartone animato di Walt Disney che raccontava la storia di un pinguino che voleva andare nei mari del sud. Finalmente si mise in viaggio e arrivò su un’isola coperta di palme, nel mare caldo, azzurro. A una palma inchiodò fotografie dell’Antartide. Sentiva nostalgia di casa e si mise diligentemente all’opera per costruirsi una nuova casa e ritornare indietro.

Io sono come quel pinguino. Quando lavoravo al Resindeztheater pensavo spesso al Dramatiska Teatern e avevo nostalgia della mia lingua, degli amici, della sensazione d’essere a casa mia. Ora sono tornato e ho nostalgia delle sfide, delle liti, delle battaglie sanguinose e degli artisti sprezzanti della morte. Alla mia età si è attratti dall’impossibile… Il fallimento può avere un sapore fresco e aspro; la sconfitta suscita aggressività e riscuote la vita nella creatività intorpidita. È bello scalare la parete nord-ovest del monte Everest. Prima che fattori biologici mi riducano al silenzio, voglio essere contraddetto, messo in discussione. Non solo da me stesso, questo succede tutti i giorni. Voglio essere fastidioso, irritante e indefinibile.

L’impossibile è troppo attraente e io non ho niente da perdere. Non ho nemmeno niente da guadagnare, a parte il gentile plauso di qualche giornale. Un plauso che i lettori dimenticano dopo dieci minuti e io dopo dieci giorni.

Euripide, il costruttore di drammi, è vecchio ed esiliato in Macedonia. Scrive Le baccanti. Furibondo, costruisce il suo muro accostando blocco a blocco: le contraddizioni si scontrano con le contraddizioni, la pietà con la bestemmia, la quotidianità con il rito. Si è stancato di moraleggiare, comprende che il gioco con gli dèi è definitivamente perduto. I commentatori hanno parlato di stanchezza del vecchio poeta. Al contrario. La massiccia scultura di Euripide rappresenta uomini, dèi e mondo in un movimento spietato e insensato sotto un cielo deserto.

Le baccanti testimoniano il coraggio di spezzare le forme.

Ingmar Bergman

*Il testo è tratto da: Ingmar Bergman, “Lanterna magica”, Garzanti 1987

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