18 Aprile 2018

“Voglio che mi rasiate a zero, che mi scortichiate vivo, che mi leghiate stretto col filo spinato”: è ora di ripubblicare Eric Bogosian, uno scrittore viscerale (finalmente!)

Si può perdonare tutto a un artista, tranne il dire la verità. Ecco perché, quando uno scrittore è in procinto di esprimere qualcosa di insondabile, o che può cambiare definitivamente il nostro approccio al mondo, subito, capziosamente, si interrompe, sottacendo gli aspetti pregnanti della realtà. E i fruitori della sua arte non possono che tirare un sospiro di sollievo. Tutti sono soddisfatti in questo gioco perverso: fin quando non si scoprono le carte, si può continuare a parlare di tutto. È quel tenerci perennemente sulle spine, ciò che piace di questi autori: l’ambiguità verbale, che si concede a sprazzi di autoironia, riflessioni spicciole e una manciata di luoghi comuni. L’arte che desideriamo è questa: sempre nuova, ingenua, un po’ amara, che appaghi e aderisca a diverse esigenze emotive, crudele abbastanza da essere rassicurante, e che in qualche modo consolidi ogni volta le nostre convinzioni. Meglio ancora se non induce a un esercizio di autocritica, o analisi.

I tempi moderni generalmente hanno difficoltà ad accettare e recepire l’arte dissacrante di alcuni autori non allineati a un pensiero dominante, come il caso di Eric Bogosian. Al pari di altri grandi nomi, come Bill Hicks o George Carlin, con i suoi lavori, costringe il pubblico ad affondare le mani nella spazzatura dell’anima, a sentirne il tanfo ripugnante. Dopo subUrbia, il suo più grande lavoro è sicuramente Piantando chiodi nel pavimento con la fronte (trad. di Luca Barbareschi e Patrizia Monaco), Costa & Nolan, 1999, (oggi fuori catalogo, ma facilmente reperibile su internet). Il titolo dà già la misura di quella che sarà la cifra stilistica dell’opera.

I dodici monologhi di cui il testo è composto affrontano, da diverse angolazioni, lo stesso topos: l’insoddisfazione umana. Certo, ognuno di essi ha una peculiarità che lo rende unico, ma tutti confluiscono in questa medesima dimensione drammatica. Il tipo d’uomo di cui parla Bogosian è colui che “deve vedere al Tg quello che succede nel mondo, perché da solo non se ne accorge. Un essere in cui prevalgono gli istinti viscerali. L’abilità dello scrittore consiste nel mostrare il vero volto dell’umano attraverso un labirintico mondo irreale, assurdo, estremo. Ne mette in luce la parte lasciva, brutale, odiosa. Il marcio che si annida in ognuno di noi, ma che nessuno ha il coraggio di ammettere. I personaggi di quest’opera si fanno carico delle più intime e recondite colpe dell’umanità. Non è solo la malvagità dell’uomo la condizione maggiormente degradante, ma la mancata consapevolezza di questo male. L’autore affronta la disperazione che può nascere dalla rivalità tra esseri umani, che diviene lotta nella società del consumo. Il cittadino moderno si costruisce su queste macerie.

Il testo si apre con America, una visione onirica in cui l’impatto con la realtà sgretola d’un colpo l’illusione dell’uomo-medio. Suggestioni cechoviane e la crudezza del migliore Bukowski si fanno spazio in un’atmosfera elucubrante e sadica, che tocca il suo zenith con l’assurdo cinismo di Molecules, il monologo più aggressivo dell’opera insieme a Intro. Il trionfo dell’egotismo umano, che trova la sua più grande realizzazione nell’accudire e soddisfare il proprio Inner Baby, è il contenuto del terzo monologo, che ha tutto l’aspetto di una rivisitazione moderna dell’ideale pascoliano del fanciullino. Seguono The Glass, Red, The Fan, Rash e The Recovering Male in cui la narrazione è imperniata sul rapporto interpersonale e le relazioni affettive che, smentendo le ipocrisie sociali, gettano nuova luce sulle reali implicazioni emotive. Medicine è uno di quei piccoli capolavori che ogni stand-up-comedian vorrebbe aver scritto: dissacrante, irriverente, sebbene patetico nella sua assurdità. È, con ogni probabilità, il monologo che riesce a trasmettere in maniera più diretta il messaggio. Negli ultimi due, The Messenger e Blow me, Bogosian affronta il tema della religione, o meglio delle credenze personali, nonché il senso di insofferenza nei confronti della condizione sociale in cui la vita ha inserito i personaggi, e allo stesso tempo esprime meravigliosamente quella sensazione inconfessabile di impotenza, che assume di volta in volta la maschera della prepotenza o dell’alterigia e della supponenza.

L’operazione di Bogosian è quella di rivelare al pubblico, a colpi di brutalità, l’essenza viscerale della vita, nella sua più truce rappresentazione. La crudezza del linguaggio, l’ironia tagliente, il dinamismo scenico, tutto confluisce in una drammaticità che rasenta la farsa. Ci mostra in negativo la realtà nella sua forma più abietta. Scardina le impalcature della società americana, e quindi moderna, all’orizzonte della quale non si prospetta un sogno, ma un incubo a occhi aperti. La vita, così com’è percepita, non è a misura d’uomo. C’è, piuttosto, qualcosa di profondamente sbagliato in essa: è questo il grande dubbio che ammorba i protagonisti dei dodici monologhi, i quali, ognuno a modo suo, esprimono tutti quanti un disagio universale. L’oscenità linguistica, di cui l’artista si serve, è in tal senso in netta contrapposizione al politically correct, al perbenismo ipocrita e alle convenzioni sociali. Quest’opera ci costringe a riflettere, tra una risata e l’altra. Le ultime dieci righe sono forse quelle massimamente esemplificative di questa abilità artistica:

Non mi farò più il bagno, non mi laverò più i denti, non mi pulisco più il buco del culo. Voglio puzzare così tanto che la gente deve sentirmi ancor prima di vedermi. […]. Voglio diventare così grasso che quando incontrerò un obeso lo metterò di buon umore. Voglio farmi di crack, Prozac, ectasy, coca, sciroppo per la tosse […] Voglio aggirarmi nei grandi magazzini e diventare un serial killer. Mettere un freezer giù in cantina sempre fornito di resti umani. Poi, li porto su […] e me li gusto davanti all’ultimo episodio di “Quando si ama”. Voglio che mi rasiate a zero, che mi scortichiate vivo, che mi leghiate stretto col filo spinato e mi frustiate le piante dei piedi, così… forse… forse riuscirò a sentire qualche cosa di vero per due o tre secondi. Forse… forse riuscirò a far sparire dalla mia testa tutto questo rumore! (Si china per terra e pianta dei chiodi immaginari battendo con la fronte).

Molte volte accade che un’opera d’arte ci affascini più per quel senso di autorevolezza artistica che possiede, che per il suo reale contenuto, così alla fine non ci rimane niente. Altre volte, molto raramente, capita invece che queste ci colpiscano dritte in faccia. Non ci danno il tempo di riprendere fiato. E, quasi senza accorgercene, stramazziamo al suolo, annaspando disperatamente alla ricerca di un appiglio intellettuale.

Angelo De Sio

Gruppo MAGOG