25 Marzo 2019

“La sirenetta” di Disney compie 30 anni. Ovvero: indagine dentro la natura della voce, “la carne dell’anima”

Trent’anni fa nasceva La sirenetta di Walt Disney: il 14 novembre 1989 la famosa pellicola d’animazione fece il suo ingresso trionfale nelle sale. Ma era già nata, concepita nel freddo regale di Copenaghen, Den lille Havfrue, l’amata fiaba dello scrittore danese Hans Christian Andersen, pubblicata per la prima volta nel 1837. Quando ho visto la sua celebre statua al porto della capitale baltica, sono rimasta un po’ delusa, l’assalto dei turisti la faceva sembrare così piccola, impacciata, timida, muta. Muta, proprio come un pesce. Nemmeno una parola, in tutto quel gran baccano di lingue straniere.

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Viviana Faschi, un’amica filosofica, mi introduce al volume Voce. Un incontro tra filosofia e psicoanalisi a cura di Matteo Bonazzi, Carlo Serra, Silvia Vizzardelli (da poco edito da Mimesis), ricordandomi la trama della Sirenetta, ma soprattutto catturando l’elemento fondamentale della voce, la voce della sirena Ariel. La sirenetta si era innamorata del principe Eric e lo salva, con il suo bel canto, che non è altro che una nenia. Poi Ariel stringe un patto con Ursula, la malefica strega del mare, che la trasforma in essere umano, in cambio della sua voce. Si può forse rubare la voce? La voce di Ariel viene così racchiusa dentro una conchiglia. Irretire il principe Eric per Ursula diventa quindi un gioco da ragazzi, visto che il principe non è innamorato della bellissima sirenetta, ma soltanto della sua voce. A questo punto del racconto, l’amica mi porge il volume blu fresco di stampa, e, quando le domando il significato di quello strano simbolo quasi evangelico OT, mi dice che si tratta di Borges e dell’acronimo di Orbis Tertius, il nome scelto dal gruppo Ricerche sull’immaginario contemporaneo nato da un’idea di Fulvio Carmagnola – che insegna Estetica in Bicocca –, che prende le mosse da un racconto di Finzioni. Un gruppo di studiosi d’Italia, insomma, provenienti da diversi studi e località, si interroga qui sulla voce, come fosse un oggetto, attraverso differenti prospettive teoriche. La voce nella psicoanalisi, nella filosofia, nell’estetica, nel teatro, nella musica.

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La voce si presenta con una sua “vividezza pulsionale senza pari”, ci spiegano subito i curatori: la voce “è lì, ci parla da molto vicino, dice del nostro modo di godere, mette in moto il nostro corpo portandoci al limite del pudore, di una vergogna ontologica, della vertigine dell’esposizione”. Vociare, vociferare, sentire le voci, riconoscere la voce, imitare le voci, e poi voci bianche, le voci di chi è castrato. Chi non si è mai vergognato della propria voce? La voce della madre e la voce del bambino sono già state studiate da Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’io, nel 1929: “la voce flebile dell’afonia isterica; o la voce della madre, che sta là dove doveva esserci il taglio del cordone ombelicale, e che funziona nello stesso tempo come nido e come gabbia per il bambino; o la voce nella forma di silenzio, la voce assente, la voce sorda. Da un lato c’è la voce affascinante e seduttiva, spesso eretta a feticcio vocale o a oggetto di culto, mentre dall’altro c’è quella intrattabile e imperscrutabile come un corpo estraneo”. La voce del bambino appena nato è solo un pianto, un singulto che nessuno riesce a interpretare, tranne la mamma. “Il suo grido è un appello. Si tratta di una voce? No, non ancora. È un suono, un singulto, un pianto, un appello, un grido: qualcosa ancora di inarticolato. Non è ancora entrato nel processo di umanizzazione. Cioè non sta ancora formulando una domanda, è un pianto enigmatico. Perché ci sia voce, sottolinea lo stesso Lacan nel rileggere Freud, ci deve essere interpretazione, ci deve essere traduzione. E come avviene questa traduzione? Attraverso il primo Altro, la “madre traduttrice”, la prima grande interprete del soggetto. Lei non risponde a quell’appello se non prima decodificandolo. Dice o pensa: “il bambino ha sete”, “il bambino ha fame”, “il bambino non vuole più dormire, vuole le coccole, oppure è agitato”, cioè dà significati a quel grido, lo traduce, lo interpreta, lo inscrive nel discorso della civiltà”. Il pianto è la sua unica arma per entrare e difendersi dal mondo, ci siamo passati (quasi) tutti. Dunque la madre traduce, ma chi traduce, tradisce. E il tradimento è l’unica strada che ci salva, mentre l’interpretazione sacrifica qualcosa che si perderà per sempre.

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Resto turbata dal capitolo delle Vociferazioni o del godimento della voce, di Matteo Bonazzi, e continuo ad interrogarmi sull’incipit: gli occhi mentono forse più della voce? “La voce è un oggetto esemplare, ancor più dello sguardo. Lo sguardo si confonde facilmente con l’occhio, dandoci l’impressione che ci sia qualcosa che gli offre un contenuto: la visione. La voce no. Per questo ben si presta a incarnare l’oggetto a di Lacan, che è sempre un “incavo”, un vuoto, un contorno e non un pieno. È con la voce, infatti, che possiamo arrivare a “modellare il nostro vuoto”, a farcene qualcosa, a definire uno stile, il nostro”. Chi non ha mai esclamato: “che voce impostata!”. Chi tenta di sedurre, penso, sceglie una voce carezzevole, la mamma che canta la ninnananna, non ha la stessa voce aspra del rimprovero, la voce degli amanti non è quella dei nemici. Ma la voce è un oggetto fuori da noi, chiarisce Bonazzi: “La mia voce è là fuori, per questo la sento. Certo, la sento e la riconosco come la mia voce, che dice di ciò che suppongo provenire al contrario da qui dentro. Però, se ci fermiamo a una prima constatazione semplicemente descrittiva, dobbiamo dire e convenire che la voce accade prima di tutto là fuori, quasi come un oggetto del mondo. Esattamente come la mia immagine allo specchio: io sono là fuori; la mia voce è là fuori. Siamo talmente ben educati a riconoscere la voce come la nostra voce che difficilmente abbiamo la sensibilità per notare che la voce è sempre incontrata là fuori, nel mondo. La voce risuona là fuori, anche la mia. Immediatamente siamo portati a pensare: sì, certo, risuona là fuori perché proviene da qui dentro. Ma, se riflettiamo un momento, noi l’abbiamo sentita risuonare prima di tutto là fuori, poi l’abbiamo riportata qui dentro”. Forse è vero che ci innamoriamo della voce, altroché sguardo d’amore. Mentre sospiro, mi scopro innamorata.

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La voce, sottolinea ancora Bonazzi, è tra il mitologico e il tecnologico – penso al microfono e al registratore, al nostro frequente ti mando un vocale con whatsapp, che poi si traduce in una voce dal passato, già sepolta – “non c’è voce all’origine, semmai è la voce, come taglio, che fa accadere nel proprio rimbalzo, retroattivamente, l’origine perduta”. Così la voce ci spoglia, ci fa nudi agli occhi degli altri, e di noi stessi. Poi la voce che non mente, inganna. “Il corpo dietro la voce non è mai quello giusto”: ci chiarisce Silvia Vizzardelli: “ascoltiamo una voce registrata su disco o su CD e poi andiamo a vedere i volti-corpi dei cantanti riprodotti in copertina: bene, quei corpi non sono mai quelli giusti, non sono mai i corpi che associamo volentieri alle voci ascoltate. Ciò accade perché la voce non è l’emanazione di un corpo, ma la produzione di un “oggetto” capace di mettersi al posto del corpo bucato. In questo senso la voce in quanto maschera non è mai qualcosa di dato, ma di prodotto. Uno strano prodotto però”. La voce “congiunge corpo e linguaggio, ma nello stesso tempo li separa: proviene dal corpo ma da esso si stacca e sostiene il linguaggio senza appartenergli”. La voce senza corpo, un corpo ce l’ha, è il corpo della nostra anima. Secondo il filosofo anticonformista Mladen Dolar, un filosofo della scuola di Lubiana (quella di Slavoj Žižek, per intenderci), infatti, la voce è “il surplus del corpo, l’eccesso corporale, e, al tempo stesso, il non più corpo, la fine del corporale, la spiritualità del corpo, così da incarnare la coincidenza stessa della corporeità essenziale e dell’anima. La voce è la carne dell’anima, la sua materialità irriducibile, grazie alla quale l’anima non può mai sbarazzarsi del corpo”.

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Per imparare a parlare, scrive poi bene Federico Leoni, bisogna perdere la voce. “Sembra difficile sostenerlo, dato che chi impara a parlare impara a servirsi della propria voce, si abitua a modularla in una serie di modalità specifiche, dunque a disporne con sempre maggiore precisione ed efficacia. Ma per l’appunto bisogna che la voce diventi “la propria voce”, per fare tutto questo. E solo una cosa perduta diventa un oggetto che abbiamo, un oggetto di cui abbiamo qualcosa come la proprietà”. Il canto non ha bisogno di altro che della voce, senza “le dita di una mano e la corda di un violino, le labbra, l’imboccatura del flauto, la fuga lucente delle chiavi”. Il volume blu dedicato alla voce si conclude con un assaggio (vi si annuncia, in una noticina che non mi è sfuggita, la prossima pubblicazione dell’intero epistolario di Sigmund Freud e Yvette Guilbert, a cura di Silvia Vizzardelli e Massimo Privitera), del ritratto e della calda voce di Yvette Guilbert (1865-1944), una delle più care amiche di Sigmund Freud. La grande diseuse fin de siècle, stella del Moulin Rouge e musa di Toulouse-Lautrec. Seppure riluttante, Freud va a sentire Yvette, e ne rimane conquistato. In seguito assisterà a tutti i suoi concerti viennesi, e nel 1926 comincia fra i due un’amicizia basata su reciproca stima, per il tramite della psicoanalista Eva Rosenfeld; la quale era nipote del marito di Yvette, Max Schiller, un ebreo rumeno cresciuto a Berlino e trasferitosi in età adulta negli Stati Uniti”. Che fine hanno fatto le loro voci? Si può ora soltanto sognare l’amabile intreccio di voci e pensieri tra Yvette e Freud, quando lei lo invitava a prendere il tè, all’Hotel Bristol di Vienna.

Linda Terziroli

Gruppo MAGOG