11 Novembre 2019

“La mia esistenza è antipoetica e scrivo in pausa pranzo”: Viviana Viviani presenta la sua raccolta di poesie a Matteo Fais

Ci sono libri di poesia – molti, la maggior parte – che sono a volerne dire bene inutili, patetici, fuori tempo massimo, di maniera, noiosissimi. Di rado qualcuno si distingue, almeno per un aspetto. Troppa gente è convinta che fare poesia voglia dire buttarla in poesia, ovvero ostentare un sentire alto, da poeta appunto. Come se chi fa versi non fosse toccato dalle basse passioni e dalla quotidianità come ogni altro essere umano. Va da sé che costoro non sono poeti ma rimatori da strapazzo, rigattieri del già detto e del poeticamente corretto, semicolti con in corso un’indigestione di bello stile. Ma il poeta è ben altro. Egli è venuto al mondo per aggredirlo, per portare la spada. Per far ciò, però, nel mondo ci deve stare e non usare la poesia come passatempo ma quale strategia di sopravvivenza, senza paura di dire ciò che lo circonda. Già, ma cosa lo circonda? Gli stessi oggetti e icone che ci troviamo tra i piedi tutti quanti, in un mondo che ha respinto la Natura per lasciare spazio all’artefatto umano: palazzi inguardabili, metropolitane e automobili, tristissimi monolocali, cibi surgelati per single che non hanno voglia di cucinare, cartelloni pubblicitari, migranti, cantanti pop e pornostar. Questo è il mondo, questa la materia di cui dovrebbe trattare il poeta che non sia un masturbatore del nulla. Se anche voi condividete questa visione della poesia e un insopportabile senso di stanchezza rispetto all’attuale produzione, è ben possibile che vi piaccia Se mi ami sopravvalutami (Controluna Edizioni, 2019) di Viviana Viviani. Con l’istintiva semplicità di chi vive felicemente fuori dal malsano ambiente letterario, la poetessa è capace molto più di tanti pseudorimatori di mettere in versi il nostro tempo, senza timore di risultare prosastica e antipoetica. Probabilmente, per molti la sua non è poesia. Pazienza, ce ne faremo una ragione.

Molta, troppa poesia ancora persegue il volo pindarico, un esistenzialismo fumoso e autoreferenziale. Essa, peraltro, insiste e persiste con metafore afferenti al mondo naturale. In due parole, io la trovo insopportabilmente di maniera. Al contrario, la tua mi sembra, più o meno come la musica indie attuale, più legata al nostro quotidiano, a un immaginario fatto di oggetti comuni e serie televisive, monolocali in affitto, serate in un locale con amici e molta di quella liquidità tante volte denunciata da Bauman. Non hai anche tu la sensazione che la maggior parte della lirica attuale parli di tutto fuorché di quella che è la nostra vita di oggi?

Confesso di conoscere solo i più famosi tra i poeti contemporanei. Proprio perché faccio un altro lavoro, sono un po’ fuori dall’ambiente letterario, al di là dei social. Non vedo l’ora però di rimediare! In generale, comunque, concordo. Credo che la poesia debba raccontare la vita vera. Allo stesso tempo, però, ritengo che non debba rinunciare a una sua connotazione linguistica, in parole povere che poesia non deve essere soltanto una prosa in cui si va a capo. Mi piace che ci sia una certa musicalità, anche in assenza delle rime o di una metrica rigorosa.

Quali sono i tuoi poeti di riferimento?

A me piace la scrittura che scava nell’animo umano, quindi non troppo lirica ma nemmeno eccessivamente minimalista. Se penso ai poeti – e alle poesie – che più ammiro e che mi hanno plasmata, il filo conduttore è psicologico più che descrittivo e soprattutto ricco di contrasti. Della Szymborska ammiro la sconfinata intelligenza, la razionalità apparentemente scostante, ma in realtà densa di emozione. Lei è una scienziata della poesia. “Devo molto a quelli che non amo” è un perfetto teorema sull’amore, dimostrato per assurdo, per negazione. Di Vivian Lamarque amo l’apparente ingenuità piena di saggezza, quando dice “Oh essere anche noi la luna di qualcuno!”. Racconta con semplicità disarmante tutta la devozione e insieme la vanità di chi vuole essere amato. L’ossessione d’amore è raccontata mirabilmente da Borges, ne Il minacciato: “essere o non essere con te è la misura del mio tempo” e “mi fa male una donna in tutto il corpo”. Sono versi di inarrivabile passione, che rasenta la malattia. Franz Krauspenhaar, il mio prefatore, di cui vado spocchiosamente fiera, sa mettere a nudo come pochi le precarietà e le contraddizioni dell’anima, con una sensualità rabbiosa e dolcissima, quando dice “Se mi dai un amore braccato, mai ancora preso nel laccio, io sono una bestia felice, ansimante, ferita”. La quartina di Sandro Penna, “Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune”, contiene tutto l’attuale dibattito sulla diversità, più di mille gay pride e family day.

Sia il tuo prefatore, Franz Krauspenhaar, sia il postfatore, Giuseppe Cerbino, sottolineano l’aspetto prosastico della tua lirica – naturalmente non in un’accezione negativa. Concordo, anzi aggiungo grazie al cielo. Non se ne può più di lirismo becero. La poesia americana non lo è, spesso e volentieri. Del resto, la realtà è prosastica: tu ti svegli la mattina e ti fai non so quanti chilometri per fare l’ingegnere in un’azienda, mica stai lì fino a mezzogiorno a contemplare una solenne cascata, o a sentire il canto soave degli uccellini. Io, per esempio, adesso ho nelle orecchie il frastuono dei muratori che gettano detriti nel camion. Tutto questo per dire: è necessaria una formula più prosastica se si vuole trasporre il nostro tempo in poesia?

Senza dubbio le mie poesie sono perlopiù prosastiche, anche se ogni tanto mi avventuro nelle rime. Concordo sulla necessità di parlare il linguaggio del proprio tempo: come sarebbe assurdo continuare a dipingere imitando Leonardo e Raffaello, altrettanto folle e in fondo inutile è pensare di scrivere oggi nello stile di Leopardi, che pure rimane immenso e inarrivabile. Di certo nel mio lavoro quotidiano non c’è nulla di poetico, eppure alcune poesie sono nate in pausa pranzo, almeno nella prima bozza! Credo che, al di là dello stile di scrittura, la poesia contemporanea, proprio come tecnica narrativa, sia destinata a prendere più spazio nei prossimi anni, perché strutturalmente adatta alla fruizione breve ed estemporanea dei nostri tempi. Non a caso molti poeti nascono e trovano il loro pubblico nella frammentarietà ultraveloce dei social, perché anche in una pausa lavorativa o nell’attesa della metro si può gustare una poesia, come una pillola di emozione, una storia in miniatura, che non necessita della lunga concentrazione richiesta invece dalla lettura di un romanzo.

A fronte del fatto che genericamente il motivo di fondo della tua raccolta sembra essere l’amore, direi che i vari quadretti che ogni tua lirica delinea sono dei più disparati. Scusa se mi autocito, ma in effetti la nostra vita è una storia minima, come recita il titolo del mio romanzo, ovvero è fatta di tanti episodi spesso privi di un filo rosso che li unisca, di una possibilità di grande narrazione. Non trovi?

Di certo l’amore la fa da padrone, perlopiù quello incerto, precario, un po’ sfigato, per usare appunto un termine poco lirico. Fanno però capolino anche temi come il lavoro, l’amicizia, l’infanzia, il passare del tempo, il pensiero della morte. Il filo rosso è nei diversi aspetti della vita, nel legame con la quotidianità, senza alcunchè di eroico. In una poesia, Il mendicante ha un dobermann, emerge esplicitamente il distacco netto tra l’interiorità dell’individuo e la sua dimensione sociale. Distacco vissuto però non con serena ed egoistica indifferenza, ma come un pericolo incombente, pronto a deflagrare.

A mio avviso, una delle liriche più belle – certamente quella più sintomatica e attuale –, che poi nella tua idea originale avrebbe dovuto fungere da titolo della silloge, è Non mandarmi il tuo cazzo in chat. Ecco, io trovo che sia molto coraggioso parlare finalmente di un qualcosa che oramai è prassi diffusa, in amore e non: ci si conosce e ci si scambia foto intime – qualche volta anche senza conoscersi, ma quello è semplice esibizionismo malato. Perché l’hai scritta? Hai voluto osare, provocare, dire quello che nessuno fino a oggi aveva detto?

È vero, inizialmente avevo pensato a quel titolo, perché si tratta di certo di una delle mie poesie preferite. Poi ho desistito per varie ragioni, non ultima il timore di passare alla storia come la “poetessa del cazzo” (ride), ma soprattutto temevo di ingannare il lettore, facendogli presupporre una silloge licenziosa e ricca di turpiloquio, che invece nelle mie poesie è molto raro. Anche questa è in realtà una poesia romantica, fin dai primi versi “Non mandarmi il tuo cazzo in chat/ che ancora non ho navigato/ le lunghe vene delle tue braccia/ né attraversato fiumi/ camminando sulle tue vertebre” e invita alla conoscenza vera, a non rifugiarsi in false intimità virtuali. Il tema dell’amore virtuale ricorre anche in altre poesie, tra fiori fatti di segni di interpunzione e la luce verde della chat di chi non risponde, vista come una stella lontana. Che piaccia o no, oggi la tecnologia interagisce sempre più con i nostri sentimenti, li influenza e li modifica.

Scegli tra le tue poesie quella che ritieni migliore e prova a spiegarmi perché lo è. 

Non so se sia la migliore, ma scelgo quella che dà il titolo alla silloge, Se mi ami sopravvalutami. Racconta la casualità dell’amore, del tutto antidemocratico, che non fa i conti con la realtà. In un mondo che ci mette sotto pressione, con il profitto e la performance, arriva come un dono, a volte nemmeno meritato.

Se mi ami sopravvalutami
non cadere nell’inganno
di amarmi per quello che sono
sono stanca di faticare
di dovermi sempre impegnare
tu indossami senza provarmi
comprami senza garanzia
se mi ami sopravvalutami
sii bello e condannato
un premio estratto a sorte
un dono immeritato.

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