17 Gennaio 2020

“Malinconia dolce immaginare l’altra vita, quella che avrebbe potuto essere la nostra, e non fu”: in memoria di Vittorio Lugli. Non sapete chi è? Leggete qui!

Ci sono autori che si inabissano. Scompaiono. Se ne colano a picco come l’oboe sommerso. Capita di ritrovarli andando a passeggio. Oggi 17 gennaio ricorre la data della scomparsa di Vittorio Lugli, nel 1968, è passato mezzo secolo.

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Nacque nel 1885 e fu di quelli che apprezzarono I Malavoglia e li lanciarono come moda di lettura nelle trincee della Grande guerra. (All’epoca quel Verga non era ancora giustamente riconosciuto)

Vittorio Lugli fu un grande professore di liceo in quella Romagna che ne sapeva produrre in abbondanza. Le sue Pagine ritrovate. Memorie fantasie e letture uscirono nei saggi Einaudi del 1964. Copertina modesta, bianco contornato di arancio.

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Lugli non è stato il colpo di fulmine secondo manuale. Era su bancarella in un porco lurido di Pisa e lo spacciavano come “seconda scelta”: il bollo d’inchiostro dello struzzo Einaudi non riscattava quella copertina bianco insudiciato. Non mi convinceva. Eppure… Pagina dopo pagina, il libro si spezzava, si rifrangeva in mille storie. C’erano i suoi ricordi d’infanzia con la lettura recitata di Shakespeare e di Hugo che ti proiettava in un mondo arcaico. Ed era l’Italia di fine Ottocento

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Lugli fu poi altre cose. Però diventare accademico fu la sua damnatio memoriae perché lo ridusse una lettura da opuscolo. Quando invece Lugli si esprime in modo agevole, sciolto e rapido come i francesi che amava tradurre e spiegare. Per mostrarlo e per celebrarlo nel piccolo, vi copio al fondo un estratto dalle sue Pagine ritrovate per capire il senso del ritorno dopo il viaggio e dello sradicamento dolce-amaro: Natio loco e borgo selvaggio.

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Nonostante gli anni trascorsi dalla stesura di quel pezzo (1954) Lugli è più carico di richiami fertili sui temi eterni (cosa vuol dire lasciare il paese, la comunità, crearsi) rispetto ad autori contemporanei & acclamati come la Mastrocola.

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Già, la Mastrocola. La deputata numero uno per parlare di scuola. Vediamo… Il romanzo Non so niente di te (2013) aprì alla Mastrocola la sua stagione con Einaudi, dalla parte dei vincitori (discorso meno agevole e meno serio andrebbe fatto per Missiroli). La Mastrocola in Non so niente di te ti mostra uno studente di università pluridecorata, dapprima promessa dell’economia mondiale, il quale scopre di botto Weber e Spengler in biblioteca e capisce poi che è meglio fare il nomade tranquillo al nord Europa. Smette di studiare. Sintesi: il brillante laureato vince il dottorato a Stanford e non ci va. Preferisce allevare pecore…

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La Mastrocola parla nelle sue storie di sradicamenti per studiare. Quasi che non sia un ‘problema eterno’. È già più vecchia di Lugli.

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La Mastrocola vecchia maniera era un’intelligenza infiammata inviperita, sapeva benissimo quali erano i problemi di una scuola che non insegnava più nulla. Sapeva argomentare nelle sue vecchie ‘bordate’ per la nuova pedagogia: ci voleva coraggio, dieci anni fa, per argomentare quelle idee, per andare contro tutto il risaputo, il ridetto e il rifritto.

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Forse le contraddizioni non sono solo delle cose che noi vediamo, forse esistono veramente e fermeranno la marcia verso il nulla, se faranno muro prima che sia troppo tardi… Mi dicevo mentre passeggiavo all’ora del caffè in una Bologna avvolta dal fresco. Sentivo di essere un palombaro di Jules Verne arrivato dall’altra parte della terra. Cercavo tra le vie di Bologna – dove sarà passato Vittorio Lugli quando insegnava in città?

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Quando Lugli scriveva era impensabile che uno studente di economia andasse in Erasmus; in compenso, viaggiare in treno era più lento e più angusto. Sull’amarezza del distacco, sull’addio e la lontananza, Vittorio Lugli rimane maestro indispensabile. Anche perché all’epoca WhatsApp e le sue simpatiche spunte blu non esistevano. Lugli sapeva quello di cui parlava, lo conosceva. Lasciate a se stessa la Mastrocola e le sue tirature per l’Einaudi ‘attuale’. (Andrea Bianchi)

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Vittorio Lugli, Natio loco e borgo selvaggio (1954)

Il giovane amico mi parla del suo paese, della piccola patria, con la malinconia entusiastica del figlio che sa di averla perduta per sempre. Gli studi prima, ora la professione, le città che prendono, avvincono, e non si crede, non si spera di uscirne più, dopo che tanto si è lottato per farsi un po’ di largo nella fitta calca. Sempre aveva amato il suo piccolo borgo, ma gli bisognava lasciarlo, andarne così lontano, per sentire quanto l’aveva nel cuore.

Si arresta d’un tratto quasi vergognoso della sua franca effusione, certo per timore di non essere compreso del tutto: emiliano solamente. Ma ho abitato lunghi anni in Romagna, e tra le altre virtù ho ammirato in quegli uomini l’amore fiero, tenace, ombroso alla loro terra; anche li ho invidiati, io che a cinque anni ho lasciato il paese e sono andato poi sempre avanti, più lontano, senza voltarmi indietro, certo per non soffrire. (…)

Stavolta non sorride, anzi pare oscurarsi in volto come per un ricordo molesto. Sempre grande la gioia del ritorno, per lunghi mesi sospirata ma presto finita, amareggiata da tante noie. Perché il reduce, cordiale e molesto, si accosta ai vecchi compagni, sta con tutti, essi ogni volta pensano di trarlo nella cerchia dei loro interessi. E il suo amore è mortificato, offeso da quella miseria di pettegolezzi; le persone tanto amate da lontano, appaiono irrimediabilmente diverse. Come far comprendere loro che il mondo va oltre il piccolo giro del paese, anzi della piazza? Io avevo ricordato il bel viale dei tigli, con la cappelletta in fondo: ebbene egli era il solo che facesse la passeggiata, gli altri restavano al caffè o camminavano intorno alla piazza, a guardarsi, a sorvegliarsi, a parlare delle loro povere cose, interminabilmente.

Ogni volta che, stanco di quella chiusa esistenza, dopo brevi giorni sconfortato l’abbandona, prova come il rimorso di non aver saputo aderirvi meglio, avvicinarsi di più ai vecchi compagni, vincendo l’impazienza che gli ha impedito forse di ritrovare i vecchi fratelli. Sente meglio di lontano quella fraternità; nelle passioni, nelle umili vicende paesane cui non ha voluto badare, c’era pure qualcosa che è sempre in lui: fierezza, amore appassionato per quel che si crede giusto, bisogno istintivo e orgoglioso di pareggiare la parola all’azione, di mostrare l’anima sulle labbra. Oggetti meschini, povere passioni: pure l’anima è quella, la sua. Egli ha allargato il suo mondo, ha dato più degna materia alla sua passione, ma non vorrebbe aver cambiato l’anima. E riprende a pensare ai suoi con tenerezza nostalgica, per sentire meglio se stesso. (…)

Malinconia dolce immaginare l’altra vita, quella che avrebbe potuto essere la nostra, e non fu. Tra i piccoli compagni d’un tempo, i coetanei, uno è rimasto al paese, all’umile destino, ed era a noi il più caro, il più vicino. Sempre l’abbiamo visto farsi più lontano, quasi svanire: un giorno forse vorremmo cercarlo, fermarci con lui, vedere l’altro, quello che avremmo potuto essereSenza orgoglio, senza rimpianto, con la semplice modestia di chi sa ormai che cosa veramente valga, che cosa unisca gli uomini sotto le apparenze diverse. E il vecchio amico ritrovato ci rivelerà forse la nostra virtù migliore, quella per cui abbiamo potuto andare tra gli uomini senza perdere la fede in noi stessi e nella vita.

Vttorio Lugli

*In copertina: Parmigianino, “Ritratto di Galeazzo Sanvitale”, 1524

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