22 Febbraio 2020

“Nel terrore che il mondo non abbia un significato”. Quando Virginia Woolf scrisse il romanzo rivoluzionario, “Mrs. Dalloway”

“È molto più difficile afferrare lei che per lei afferrare quanto chiama vita – ‘la vita: Londra, questo momento di giugno’”, scrive Forster recensendo Mrs Dalloway dell’amica Virginia Woolf. I tre protagonisti del romanzo gli sembrano infatti sfuggire, sottrarsi al lettore, eludere il centro di una prosa fatta comunque d’immagini fulminee, sguardi incrociati e perduti nella grande città, ancorata a un’eccezionale “sensibilità visiva” (“The Yale Review”, aprile 1926).

In filigrana alla storia traluce sempre Londra, mito collettivo e costruzione personale, e lo stesso Lytton Strachey – amico e consigliere – raccomanda a Virginia di “partire dalla realtà” (Diario, 18 giugno 1925). E lei si chiede: “Ho davvero il potere di comunicare la realtà?”. Convinta che le manchi “il dono”, diffidente verso il “basso prezzo” della realtà in sé, decide piuttosto di “disincarnarla” (19 giugno 1923).

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Lo stile dei narratori tradizionali non la soddisfa da tempo. Già in Modern Fiction – del 1919 – chiede che “la sostanza della narrativa sia diversa da quanto l’abitudine ci ha fatto credere”. In lei, che fa combaciare pratica di scrittura e teoria narrativa, s’insinua spesso “un dubbio involontario, uno spasimo di ribellione”: “I romanzi devono essere così?”. No, la vita è “molto lontana dall’essere così: “la mente accoglie una miriade d’impressioni – banali, fantastiche, evanescenti, (…) una pioggia incessante di atomi innumerevoli; e mentre cadono e prendono forma nella vita di lunedì o martedì, l’accento cade in modo diverso da un tempo”.

Il “momento rilevante” può arrivare “non qui bensì là”. L’imprevedibilità travolge ogni parametro narrativo convenzionale: La vita non è una serie di lampioni piantati simmetricamente; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci avvolge dal principio della coscienza fino alla fine. Non è forse compito del romanziere rendere questo spirito mutevole, misterioso, sterminato?”.

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Ad Arnold Bennett, che in “Is the Novel Decaying?” la taccia di non saper infondere vitalità ai suoi personaggi, lei risponde con una critica aperta ai narratori edoardiani della generazione precedente ( Wells, Galsworthy e lo stesso Bennett): “un giorno di dicembre del 1910 il carattere umano è cambiato (…) è diventato frammentario ed elusivo” (Mr. Bennett and Mrs Brown, 1924). Altrettanto “frammentaria”, “elusiva”, specchio dello “spirito mutevole, misterioso, sterminato” della modernità sarà la sua scrittura.

In quel fatidico 1910 Roger Fry – con George Moore e Lytton Strachey tra i ‘sacerdoti’ di Bloomsbury – aveva portato a Londra la prima mostra di pittori post impressionisti, Manet and the Post-Impressionists – quadri di Manet, Gauguin, van Gogh e Cézanne – che iniziava il gruppo di Bloomsbury alla “percezione modernista”. Per Virginia è il punto di partenza di una vera estetica della frammentazione: una visuale in divenire nei vari sguardi che inquadrano il mondo e personaggi concepiti come “diamanti”, sfaccettati, ‘multipli’, indeterminabili. Discontinui si fanno stati d‘animo e percezioni, sconnessi i dettagli della realtà: il “personaggio, il carattere si disperde – o si moltiplica – in frammenti” (Diario, 19 giugno 1923). In personalità ‘aperte’, prive di contorni, il flusso di pensieri affiora alla coscienza in desideri, memorie, sogni, l’esperienza si sfalda in carrellate d’impressioni, tempo e spazio si sbriciolano nel relativo. O nelle “mille immagini infrante” della Waste Land eliotiana, uscita solo l’anno precedente.

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Bibbia del Modernismo, Mrs Dalloway è una serie di quadri in successione contro il fondale della Londra anni ’20: “ci emozionano”, “pongono un enigma” dice Virginia delle tele di Vanessa (Recent Paintings by Vanessa Bell Premessa). Il suo interesse per la pittura viene dalla sorella, dal cognato Clive, certo, ma anche da sue personali sperimentazioni.

Nei mesi in cui sta preparando il romanzo per la stampa, scambia una serie di lettere con l’amico pittore Jacques Raverat. Prima di trasferirsi nel sud della Francia, lui e la moglie Gwen – artista, née Darwin, nipote del celebre Charles – erano tra i “Neo pagani”, cerchia nata intorno a Rupert Brooke. All’epoca tra il poeta “biondo, bello e di gentile aspetto” e Virginia c’è – forse – più che un’amicizia letteraria.

Brooke è anche il simbolo dell’Inghilterra che ha perso una generazione di ragazzi, partiti per la Prima Guerra con romantici principi cavallereschi e tornati con la mente devastata, come Septimus Warren Smith, che ‘vede’ il suo compagno in armi saltare in aria e ‘sente’ gli uccelli cantare in greco. Brooke però non era tornato. D’altronde, tra fughe a ritroso nel mito della giovinezza perenne, bagni nudi in fiumi di campagna e prove generali di rivoluzione sessuale, i Neo pagani si erano sciolti in breve e parecchi erano confluiti nel più strutturato, più ideologico Bloomsbury.

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Le idee che Jacques Raverat espone a Virginia vanno di pari passo con i suoi tentativi narrativi in Mrs Dalloway (la corrispondenza sarà raccolta nel volume Virginia Woolf & the Ravverats, A Different Sort of Friendship). La difficoltà principale dello scrittore, afferma Jacques, sta nel fatto che scrivere è per sua natura “essenzialmente lineare”, consequenziale: si può leggere o scrivere solo una parola per volta. Scrivere quella parola è dunque come gettare un sasso in uno stagno e “fuori, in aria, ci sono schizzi e spruzzi in tutte le direzioni, e sotto la superficie onde che s’inseguono negli angoli bui e dimenticati”. Per avere la simultaneità della pittura, sa una parola al centro della pagina si ne dovrebbero poter “irradiare” altre correlate (settembre 1924).

Virginia respinge l’idea: i pittori non hanno una maggiore ampiezza di visione, anche gli scrittori “cercano di afferrare, consolidare, esaurire (…) quei tuoi schizzi e spruzzi”.  Lei vuole superare “la linearità della frase”, liberarsi delle “falsità del passato” (la narrativa tradizionale), e inaugurare una moderna narrativa “radiale” (3 ottobre 1924), per cui rivendica il diritto di rappresentare gli avvenimenti fuori del tempo o i movimenti della mente come forme pittoriche simultanee.

Mrs Dalloway non è in effetti un romanzo “lineare” per forma ed espressione bensì “radiale”, uno sforzo di dilatare la storia per cerchi concentrici come i tocchi del Big Ben, riprodurre gli “schizzi e spruzzi” fuori dall’acqua di Raverat. Fissa istanti di bellezza per particolari spezzati – il cielo in un lampione, una foresta di pietra e vetro nei palazzi cittadini – ma ricostruibili nell’insieme in una città omphalos: “Londra è un incanto. Esco e mi trovo rapita nella bellezza – scrive Virginia nel Diario –. Uno stupore le notti, con tutti quei portici bianchi e i vasti viali silenziosi”, di giorno vie “bagnate come il dorso di una foca”. La grande Babilonia di Gay, Thompson, Dickens ed Eliot è leggenda: “raccoglie ed eleva la vita interiore (…) mi piace Londra, per scrivere questo libro” (26 maggio 1924).

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Il libro, la Woolf lo inizia quando ancora vive con Leonard a Richmond.

È un giorno d’estate 1923, in un appartamento elegante nel cuore di Londra, a la sera la padrona di casa, Clarissa Dalloway, darà una festa: questo l’esordio e, in sostanza, quasi tutta la trama.

Dalla finestra aperta, la mattina arriva chiara, carica di aspettative, “fresca come per farne dono a dei bimbi su una spiaggia” simile “al palpito di un’onda, il bacio di un’onda; gelida e pungente eppure (…) solenne”. La città, l’aria-onda, la tensione tra presente e passato: ecco le linee portanti, il tremito lirico ritmato sul respiro del mare e immagini sfolgoranti, contro la campagna di un’Inghilterra ancora ottocentesca, il rimpianto impilato sull’inquietudine modernista.

L’intero romanzo oscillerà tra la giovinezza, con l’eredità di famiglia e la tradizione, e il vissuto e vicino: la mente vaga da un’immagine a un’altra legandole d’un filo tanto sottile da sembrare trasparente, prossimo a strapparsi. Virginia ha appena finito di leggere Proust e sta per reinterpretare nel suo stile, sorpassando l’idea fluida del tempo, quel che il cognato Clive chiama l’abilità proustiana “di riempire e colorare la bolla di sapone del presente con la visione del passato” (Proust, 1928). L’oscillazione farà avanzare solo due dei protagonisti, Clarissa Dalloway e Peter Walsh, verso il futuro. Il terzo, il ragazzo reduce di guerra, vi resterà impigliato.

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Costruita per intuizioni subitanee, schegge d’immagini e meditazioni sottili, la storia darà un “collage”, un “mosaico”. Poiché detesta la fissità della trama – la “terrificante impresa narrativa del realista” la definisce – Virginia sconvolge la tradizione narrativa e alla trama sostituisce l’evocazione dei ricordi, la simultaneità del presente, lo spazio della città di Londra: “Qui c’è Londra – scrive sempre Forster – con tutti i suoi orologi e i negozi e i parchi pieni di sole (…). Qui c’è Clarissa Dalloway, matura, gentile, elegante, piuttosto dura, e superficiale e una terribile snob. Come ama Londra! E qui c’è Septimus Warren Smith – lei non l’incontra mai – un caso di shock causato da una bomba – molto triste – che dietro il coro sente cantare le voci dei morti, e nel cielo vede la sua apoteosi o dannazione”.

E infine c’è anche Peter Walsh, con “le sue buone maniere di gentiluomo inglese di razza”, che lei, Clarissa, aveva rifiutato di sposare. A più riprese le pare di “essere lontana in alto mare e sola”, perché é “pericoloso vivere anche un giorno soltanto”: nel tempo allargato del presente un giorno è simbolo d’eternità. L’imagery corteggia ardita la fine, gravida di riferimenti agli elementi naturali, alberi e sole, nebbia e vento, ‘epifania’ dell’altro deuteragonista: “Importava (…) di dover prima o poi, inevitabilmente, cessare di essere? (…) o non era consolante, invece, pensare alla morte come a una fine assoluta? Ma al tempo stesso credere che in qualche modo per le strade di Londra, nella gran marea delle cose, qua, là, sarebbe sopravvissuta (…). Ma cosa sognava, adesso, mentre guardava nella vetrina della libreria Hatchards? Cosa cercava di rievocare? (…) mentre leggeva nel libro aperto: Più non temere la vampa del sole/ Né dell’inverno le tempeste furiose”.

I versi shakespeariani – il canto funebre sul corpo di Imogene – coronano la meditazione sulla morte, che presto entrerà in scena: “Più non temere…” intima l’austera voce del poeta da una vetrina scintillante del centro. Il passo rallenta, quasi in eco all’“indescrivibile pausa” che ha appena preceduto il boato di Big Ben: la morte è un cambiamento e non una fine, non disperde bensì completa la vita e questa rappacifica le immagini di morte.

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L’intermittente senso di anonimato assoluto è lo stesso degli “ignavi” sul ponte di Westminster nella Waste Land, “la stranissima sensazione di essere invisibile; di passare inosservata (…) con gli altri, su per Bond Street”, “Bond Street di mattina presto durante la stagione, le sue bandiere al vento, i suoi negozi”: nel voler disancorare l’adesso da tutte le piccole cose inutili della vita ordinaria, l’insicurezza è sempre in agguato. Il battere di Big Ben e altri orologi contrappunta i cambiamenti di tempo o sfondo, il tempo cronologico spesso sfasato rispetto al tempo interiore. Mrs Dalloway orchestra l’istante: in poche ore ciascun personaggio attraversa bellezza e orrore, gioia e morte, amicizia e follia.

Mentre Clarissa Dalloway è nella penombra dall’“odore terragnolo” del fiorista Mulberry’s, un colpo di pistola rimbomba improvviso, in strada, proprio lì fuori. È uno sparo, un’esplosione? L’Inghilterra trema ancora: la Prima Guerra Mondiale è finita, ma il suo rumore non è ancora sparito dalla mente e dalle orecchie degli inglesi. La folla reagisce allo sparo, che copre per un attimo il frastuono della via, come un unico individuo, un’unica scia sonora, “voci che passavano invisibili, smorzate, veloci, come il velo di una nuvola scesa sulle colline”.

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Una macchina accosta intanto al marciapiedi di fronte. Simbolo del decoro e della stabilità anglosassoni in una società che li sta perdendo, scossa alle fondamenta dal conflitto recente, la macchina fa entrare in scena la figura più giovane e tragica: bloccato dalla folla è un uomo sui trent’anni, pallido, con il naso aquilino, il soprabito liso e lo sguardo penosamente carico di apprensione. Per Septimus Warren Smith “tutto si è fermato”, anche il sole sembra più torrido. “Il mondo ha sollevato il suo scudiscio: dove si abbatterà?” pensa atterrito, quasi la tragedia riaffiorata minacci di deflagrare in fiamme. E tuttavia non riconosce il rumore identico al colpo di pistola che l’ha reciso via dal mondo. Sta immobile, come nelle trincee che gli hanno annientato la ragione.

Per Clarissa, devota a una rincuorante immanenza ,“è probabilmente la Regina”. Septimus è invece smarrito. Lucrezia, la sua giovane moglie italiana, lo porta via.

Dopo aver increspato di curiosità le facce ai lati della via, la macchina riparte verso Piccadilly. Ma gli sguardi si sono incrociati e ciascuno ha pensato ai morti della guerra, alla bandiera, all’impero: una vibrazione impercettibile ma certa ha “toccato qualcosa di molto profondo”. La scena è magistralmente insistita nella coralità, sociale e culturale, di l’Inghilterra che sta ineluttabilmente cambiando, il cui testimone tragico è Septimus e l’ammiratore nostalgico è Peter Walsh.

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La macchina può quindi varcare i cancelli di Buckingham Palace inosservata perché veloce, libero come un pattinatore, un aereo ha iniziato volteggiare in alto: “la gente si fermava e guardava in cielo”. È un annuncio pubblicitario, ma la folla non lo sa e gli attribuisce un significato enigmatico, quasi oracolare: “Poi d’improvviso, come un treno esce da una galleria, l’aeroplano risbucò dalle nuvole, il suo rombo feriva i timpani a tutta la gente nel Mall, a Green Park, a Piccadilly, a Regent’s Street, a Regent’s Park, e la scia di fumo s’incurvava, si spezzava via via che l’aereo scendeva in picchiata, risaliva e scriveva una lettera dopo l’altra…”.

Tutti leggono le lettere una per volta, senza riuscire a dar loro un senso: come la realtà, come ciò che sta succedendo giù per le vie della città e simbolicamente all’Inghilterra, ciascuno ci vede quel che vuole.

Septimus vi decifra un messaggio dall’altro mondo: mentre continua a fissare “le parole di fumo che languivano e fondevano in cielo” gli occhi gli si riempiono di lacrime. Nell’abbaglio della follia, dai propri singhiozzi trae immagini, “forme infinite d’inconcepibile bellezza”, reagisce con esultanza infantile a fenomeni che la folla riduce a semplice obiettività. Nel suo mondo discorde non separa le impressioni, accumula piani diversi: “miro (…) alla simmetria tramite divergenze infinite, una specie di tutto fatto di frammenti palpitanti” dirà l’autrice (Virginia Woolf, VII). Con l’eccesso di vibrante sensibilità, a Regent’s Park Septimus ripete la breve gioia di Clarissa dal fioraio: ascolta armonie inesistenti, vede ciò che non c’è. Gli olmi con “le foglie accese (…) come pennacchi sulle teste dei cavalli” lo salutano vivi, lo fanno stormire con loro e sui rami passeri “ricadono in zampilli di fontana”, cantano in greco e gli dicono che la morte non esiste.

Una piccola truppa di ragazzi passa con mazze e paletti da cricket tra il via-vai, le vasche di fiori e le sdraio dove siedono anziani. Sul prato si aggirano scoiattoli impertinenti, nugoli di passeri si contendono le briciole e cani annusano gli steccati nell’aria tiepida. Ma Septimus si sente sempre solo: una voce inizia a parlargli, a lui profeta malato “passato dalla vita alla morte”, dell’“eterna sofferenza, dell’eterna solitudine” umana. Personaggio “diamante”, affastella presente e passato, il parco e la guerra, la vita e la morte. Anche lui è spinto a guardare di nuovo in alto: ricomparso in cielo come una freccia scoccata da un arco invisibile, l’aereo fila “sempre più lontano” su Greenwich, le alberature del porto, la “piccola isola di chiese grigie, San Paolo e le altre” nella campagna aperta.

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Clarissa e Septimus non s’incontrano mai, ma entrambi si addentrano rischiosamente nei “recessi di quella frondosa foresta che è l’anima”. Vivono brevi tregue della solitudine e il vuoto che li assediano, lei impegnata a fronteggiare l’inquietudine con l’adesione all’autorità e il distacco ironico, lui alla ricerca di senso in un’esistenza stravolta, convinto di essere minacciato dall’“ordine” della società.

Come lei con l’elegante Westminster, Septimus è legato al luogo in cui vive: Bloomsbury è il quartiere degli intellettuali e della povertà colta e artistica (per questo scelto da Virginia e Vanessa quando decidono di andare a vivere da sole, per l’imbarazzo dei parenti). Tuttavia percorrono le stesse vie di una Londra molto diversa, vicini in mondi separati, uniti solo dall’autrice e dai lettori. Sopravvissuto all’orrore delle trincee, Septimus non riesce a trovare una propria collocazione: “Londra ha inghiottito milioni e milioni di giovani chiamati Smith”. Rifugiato, estraniato flâneur, Septimus vive una città d’incubo: dopo Blake, Wordsworth, Dickens ed Eliot, per lui Londra è una sconcertante, sinistra terra desolata.

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Peter Walsh gli passa accanto al parco e più tardi sentirà la sirena dell’ambulanza venuta a prenderlo, e tutti sono paradigmi del paradosso moderno: l’isolamento nella folla, la disperazione muta nella metropoli. Peter vede anche Rezia che guarda il parco, il sentiero, una bambina che torna dalla bambinaia e lei che depone il lavoro a maglia, tutto distorto dalle lacrime.

Appoggiato allo schienale della panchina, suo marito Septimus fissa davanti a sé. Un fox-terrier, avvicinatosi per annusargli i pantaloni, si è trasformato in un uomo. Salito “ad altezze incommensurabili, disteso sulla spina dorsale del mondo”, lui sente la terra fremergli sotto i piedi, fiori rossi sbocciargli dalla pelle, “musica visibile” intona un peana sul piffero di un pastore: “Lunghe strie di sole gli lambivano i piedi. Gli alberi ondeggiavano, brandivano spade. (…) dovunque si posasse lo sguardo, sulle case, le cancellate, le antilopi dal collo teso oltre i recinti, la bellezza nasceva all’istante. Guardare una foglia tremare alla brezza era felicità”.

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Incapace di comunicare l’immediatezza esplosiva ma incoerente di quel che vede, Septimus vive nel terrore “che il mondo non abbia significato”. Disperatamente, cerca d’innestare i propri slanci poetici nel reale da cui è separato: le sue visioni attraversano eternità, bellezza e dolore, ma il peana è solo il motivetto di un vecchio mendicante fuori dell’osteria e, quando smette, gli lascia la certezza che “qualcosa di tremendo” stia per accadere. Il suo nome allude al numero magico che nel mito dà la forza per ‘vedere’, lui è Virginia nel delirio: “Su in cielo le rondini dardeggiano, descrivono curve ardite (…) con perfetto controllo quasi trattenute elastici (…); e il sole bersaglia una foglia o l’altra, per gioco, abbagliandola con soffice oro (…); e di tanto in tanto qualche campanella (magari un clacson d’automobile) tintinna su steli d’erba…”.

Ma Evans, il suo compagno morto nelle trincee, gli risponde da dietro un albero e tra le orchidee canta dei morti e del loro dolore nei secoli. Septimus Warren Smith è uno degli “eroi dimenticati” dalla società, dopo aver fatto il loro dovere, rigettati ai margini della storia, dopo averla scritta. La guerra l’ha scagliato nella follia ma, prima, lui era un ribelle: un poeta che balbettava per la timidezza, dava conferenze su Shakespeare, amava romanticamente una donna. Septimus non parte per un paese in pericolo economico e politico, l’Inghilterra della maggior parte dei soldati: la sua è l’idea poetica di Rupert Brooke, l’abbaglio di un “angolo di terra straniera/Che sia sempre Inghilterra” (The Soldier, 2-3) in cui essere sepolto (come Brooke stesso), un ideale fatto quasi esclusivamente delle opere di Shakespeare e della donna amata. Combattere nelle trincee non l’ha reso “un uomo”, l’ha distrutto con il fallimento di un mondo, polverizzando in lui illusioni e compassione.

L’apparente spensieratezza delle descrizioni cittadine si svuota: la guerra ha abolito l’età dell’innocenza. Peter Walsh, ammiratore dell’Inghilterra che ha lasciato, nota la fragilità di Rezia, “pallida, misteriosa, come un giglio sommerso” e la disperazione di Septimus.

E tuttavia la sua follia scopre le rovine di una mente lirica, paradossalmente tra le immagini più concrete del romanzo perché, ormai oltre l’esistenza, ogni percezione lui la trasforma in metafore naturali: il promontorio a picco sul mare gli sembra il divano da cui scruta l’abisso, “quell’oro liquido” che splende e sbiadisce sulle rose della carta da parati, gli alberi fuori della finestra trascinano le foglie “come reti attraverso le profondità dell’aria”, riempiono la stanza con rumoreggiare d’acqua e canto di uccelli sopra le onde.

Il distico shakespeariano si svela adesso presagio del destino di Septimus. Per inciso, era stato proprio Rupert Brooke ad iniziare Virginia alla lettura intensiva del Bardo. Lui, Septimus “non teme più la vampa del sole”, il battito cardiaco va sul ritmo delle onde: “Era morto annegato (…), giaceva su uno scoglio e i gabbiani gli stridevano sopra”.

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Giovani ben vestiti passano, “lieti di essere liberi”: sui loro visi aleggia una gioia che il tramonto fa risaltare. Lo spettacolo appare eccezionale a chi è in India dal 1916: Peter Walsh, “sopraffatto da tanta bellezza”, assiste a un movimento grandioso di pieni e vuoti. Sfavillio di finestre illuminate, e ogni tanto il suono improvviso di un grammofono o la melodia di un pianoforte che scendono in strada: “Appassionante, misteriosa, infinitamente ricca questa vita!”. Vetture passano, innamorati assorti ritardano il rientro. Portoni di palazzi si spalancano per un’anziana dama, domestici in livrea contro colonne candide e giardini interni. “E così via, tra sprazzi e bagliori”, anche la storia va all’epilogo.

Mentre Peter vaga per la città e Clarissa si appresta ad accogliere gli ospiti alla festa, Septimus, il ragazzo che somigliava a Keats, imita il suo poeta: nell’istante cristallizzato delle Odi sfugge al tempo, verso la morte. Colui che una volta era sembrato a Rezia “un giovane sparviero (…) un giovane falco”, per il suo ultimo volo si è gettato dall’ampia finestra di una palazzina di Bloomsbury.

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La notizia arriva – un’intrusione funesta “pensò Clarissa, nel bel mezzo della mia festa … ecco la morte …”. Una volta, lei aveva gettato uno scellino nella Serpentina a Hyde Park, ma quel giovane ha gettato via la vita. La festa deve continuare, malgrado tutto, con un misto d’invidia e ammirazione per Peter che, mai vinto, non smette di avventarsi con coraggio nella vita e per Septimus, che si è lanciato nel vuoto incontro alla fine, stringendo nelle mani il suo tesoro.

Allora strano, incredibile, si scopre contenta, “mai era stata tanto felice”, perché il gesto del ragazzo soldato le sembra una sfida, un tentativo di conservare la propria anima per “raggiungere il centro che, misticamente, ci sfugge”. Un dono per lei, in un mondo in cui niente dura abbastanza.

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Niente, tranne la città e “questo cielo sopra Westminster”.

L’orologio dalla torre batte l’ora che segnerà di lì a poco il termine della festa (e del romanzo): un rintocco, poi due, poi tre. Clarissa Dalloway, che ascolta Big Ben, si sente “in qualche modo simile a lui – il giovane che si era ucciso”. Il richiamo all’alto unisce gli ospiti alla festa, il morto ragazzo poeta e noi lettori prima che, per l’ultima volta, i cerchi di bronzo si dissolvano uno a uno, caldi e pesanti, nella notte di Londra.

Paola Tonussi

*In copertina: Nicole Kindman è Virginia Woolf nel film “The Hours” (2002) di Stephen Daldry; per l’interpretazione ha ottenuto un Oscar nel 2003

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