23 Novembre 2019

Virginia Woolf, l’anatomopatologo della letteratura occidentale

Il secondo mestiere. L’attività giornalistica come appendice della frustrazione e della necessità. Fu Eugenio Montale a celebrare l’arte – masochistica – del “secondo mestiere”: “Scrittori notissimi, magari insigniti del premio Nobel, vivono della loro penna, non della loro arte”. Ergo: lo scrittore, se è grande, lo sapeva anche Leopardi, non ‘vende’. Per sopravvivere deve svendere la propria arte, piegandosi all’artigianato giornalistico. Virginia Woolf pare rispondere al compassato Montale qualche decennio prima: “Comunque esiste un’abilità speciale nello scrivere per i giornali che va imparata, ed è del tutto indipendente dai meriti letterari” (la testimonianza si trova nel necessario Virginia Woolf. Ritratti di scrittori, Pratiche Editrice, 1995, a cura di Mirella Billi). A Virginia eccitava la vertigine dei giornali: il giornalismo, in fondo, è teatro – una palestra essenziale per scoprire le mille malizie della scrittura. Però, è certo, i redattori dei giornali la facevano arrabbiare.

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L’etica giornalistica. La prima recensione di Virginia Woolf è datata 14 dicembre 1904. “In quattro anni (dal 1905 al 1908) pubblica 122 recensioni, circa 30 l’anno. I suoi pezzi vengono tagliati, alterati, spesso pubblicati anonimi; è costretta a scrivere di romanzi che mai si sognerebbe di leggere; ma lo fa con l’entusiasmo e l’orgoglio della propria indipendenza e con la serietà di chi riconosce il proprio bisogno” (così Nadia Fusini nella fondamentale “Cronologia” ai Romanzi, Mondadori, 1998). Ormai anonimi redattori del “Guardian” o del “Times Literary Supplement” segano gli articoli di uno dei più rivoluzionari romanzieri del Novecento – e ne silenziano perfino il nome… Non c’è da gridare allo scandalo. Virginia è un agonista del linguaggio: l’esperienza del giornale le insegna il senso del ritmo, le dona l’istinto all’umiltà e le conferma il vecchio motto per cui scorciando una frase e ragionando tre volte sullo stesso aggettivo il romanzo ne guadagnerà.

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Alla ricerca del canone. Si sa, la Woolf è una saggista eccellente, eccelsa. Testi come The Common Reader e A Room of One’s Own, scritti con la consapevolezza che “il romanzo contiene più verità di quante ne contenga la realtà”, dovrebbero tirar fuori il capo da ogni libreria degna di questo nome. Eppure, è negli articoli di giornale che con deliziosa dovizia di attenzione e pazienza la Woolf fonda il suo canone. Intanto, al di là dell’attesa lettura complice di Jane Austen, Virginia, con maniaca onestà – assente in tutti gli altri ‘modernisti’ – rilancia il genio dei Vittoriani. Disseziona l’opera di George Meredith, ad esempio. Chi se lo ricorda oggi questo “splendido vecchio”? Eppure, ci catechizza Madama Virginia, “se il romanzo inglese continuerà a essere letto, i romanzi di Meredith devono inevitabilmente ritornare, di tanto in tanto, alla ribalta”. Poi ci spiega perché Thomas Hardy – il Dostoevskij inglese – sia “il più grande scrittore tragico tra i romanzieri inglesi”. Poi esalta – quando ancora non era di moda e, per dire, non andava a genio a quel gran genio di Ezra Pound – l’opera di Joseph Conrad. “Esalta”, in verità, è un verbo errato. La Woolf ha la chirurgica capacità di discernere il bene dal male di ogni autore che analizza: sa estirpare la luce dalle oscurità. Non si esalta: disseziona. Virginia è l’anatomopatologo della letteratura occidentale.

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Lo sguardo di ferro. Ezra Pound si danna per pubblicare e dare un pubblico ai propri assistiti; il talento di Virginia è nello sguardo. Ferreo. Riconosce i confratelli contemporanei, E. M. Forster, D. H. Lawrence (“un genio oscuro e distorto”); legge, soprattutto, quelli che nessuno vuole leggere. Fugge le mode, rifugge dai trionfalismi della ‘modernità’. Apprezza le forme del nuovo secolo (con Le onde Virginia scopre qualcosa di assolutamente nuovo nel romanzo, pari alla scoperta della relatività), ma non disdegna, ogni tanto, andare in carrozza, farsi scarrozzare dagli scrittori del secolo passato. Correre troppo impedisce allo sguardo di fermarsi sui dettagli. E i dettagli sono tutto.

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“Ora sono una donna libera!”. Come Genius and Ink il “Times Literary Supplement” pubblica i saggi e le recensioni di Virginia Woolf (qualcosa trovate, in Italia, in Libri e scrittori. Una selezione di scritti letterari e biografici, Elliot, 2018). Così Francesca Wade, nell’introduzione: “Quando, nel maggio del 1938, Bruce Richmond terminò la sua carriera da redattore del Times Literary Supplement, Virginia Woolf annotò con tristezza sul suo diario la fine di un ‘legame trentennale’ con lui e il ‘Lit Supp’. Richmond le aveva inviato centinaia di libri da recensire, ricevendo ogni volta una critica sbalorditiva, in grado di porre uno scrittore noto in una luca completamente nuova e di offrire un provocatorio manifesto su ciò che stava diventando il romanzo o la biografia. L’esperienza giornalistica ha concesso alla Woolf l’indipendenza finanziaria; le idee abbozzate negli articoli – sulle possibilità del linguaggio, sul carattere della scrittura – sono esplose nella sua saggistica… La Woolf conobbe Richmond nel febbraio del 1905, dopo un anno piuttosto turbolento. Il 22 febbraio dell’anno prima il padre, Leslie Stephen – la cui rabbia metodica, giustificata dalla prematura morte della moglie, aveva instillato terrore nelle figlie – era morto. Ne seguì un trauma, con trasferimento dei fratelli dalla casa di famiglia a Kensington al 46 di Grafton Square, Bloomsbury, alla ricerca di un ‘nuovo inizio’… Nel dicembre del 1904, in seguito all’incoraggiamento di un’amica di famiglia, la Woolf pubblicò il primo articolo. Due mesi dopo fu presentata a Richmond (‘un irrequieto ometto, vivace, che saltellava qua e là’). Richmond era il responsabile del supplemento culturale del Times. Sotto la sua egida il settimanale aveva raggiunto le 20mila copie e – secondo le parole di Thomas S. Eliot, regolare collaboratore – era diventato ‘il più rispettato e rispettabile’ periodico letterario inglese. La prima recensione della Woolf sul TLS fu pubblicata il 10 marzo del 1905. 1500 parole su un paio di libri alquanto ‘trash’ sull’Inghilterra di Thackeray e Dickens. All’età di 23 anni, la Woolf era una scrittrice, guadagnava con il lavoro della sua penna. La sua busta paga le era recapitata la mattina. ‘Ora sono una donna libera’, dichiarava, trionfante”.

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Tra la chiacchiera e la critica. Gli scrittori sono degli artisti della maldicenza. “Il libro è prolisso. Torbido. Pretenzioso: è plebeo, non solo nel senso ovvio, ma in quello letterario”. Questo è il modo con cui Virginia squalifica l’Ulisse di James Joyce. Di Joyce la Woolf sbeffeggia “l’indecenza”, mentre di Thomas S. Eliot – che pure era sua amico – demonizza “l’oscurità”. Nell’oscurità di una lettera privata a Roger Fry, lo sfotte, “Ieri sera quello strano tipo di Eliot è venuto a cena qui. Ho la sensazione che abbia preso il velo o cos’altro fanno i frati…”. Joyce e Eliot, non bisogna neppure ricordarlo, sono, uno il più autorevole romanziere l’altro il più autoritario poeta del secolo scorso. Virginia fa lo sgambetto a tutti e due.

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Ripensare tutto. Lo scrittore del Novecento, consapevolmente, ricapitola e riscrive la sua tradizione. Lo hanno fatto tutti, da Pound a Ungaretti, esercitando la loro critica su ogni mezzo letterario, saggio, articolo, manifesto d’intenti. Alcuni lo hanno fatto in modo fazioso (T. S. Eliot, ad esempio, superbamente, nel Bosco sacro marmorizza un canone che sfocia nella propria opera); Virginia no. Leggendo, Virginia si è fatta leggere. Il suo esercizio, poi, polimorfico, si è espresso sui giornali, nei saggi, nelle conferenze pubbliche, nei salotti privati. E nella casa editrice. Fondata cento anni fa, nel 1917, con il marito Leonard, la “Hogarth Press” pubblicò T. S. Eliot e Sigmund Freud, Dostoevskij e Bunin, i romanzi di Virginia ma anche La dottrina del fascismo di Benito Mussolini.

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L’inutilità della perfezione. Ma oggi ve lo immaginate lo sforzo di Virginia nel disseppellire i romanzieri, nel definirne con generosità al cubo il talento? Oggi le case editrici inceneriscono il loro catalogo – e se provi a dire che un genio è un genio ti pigliano per passatista, per retrogrado, d’altronde, “possiamo dire con verità che ormai l’affaticarsi di scrivere perfettamente è quasi inutile alla fama” (questo non è Virginia Woolf, ma Giacomo Leopardi).

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Un cuore nella notte eterna. Dialogare avidamente con i libri è una condanna alla solitudine. Una condanna allo splendore di una creazione solitaria. Mentre le creature non desiderano che affliggere il creatore, l’artista, di colpe, configgerlo su denti risonanti. “Questa stanza mi sembra ora il centro del mondo, un cuore scavato nella notte eterna” (Le onde): in questa stanza per sé sola, incavata nel cuore del millennio, Virginia ha letto, sottraendo le parole alla muffa, all’orrore dell’oblio. “Se le parole non mi si arricciano intorno come anelli di fumo, mi sento nelle tenebre – non sono niente”. Le parole sono le vertebre dell’umanità, le giunture. Senza le parole, precipitiamo e il corpo è soltanto un frastuono. (Davide Brullo)

 

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