01 Settembre 2019

“La statua del Cristo, interamente bucherellato dagli insetti, ha mantenuto la sua espressione dolente”: un racconto di Vincento Gambardella, “Santa Maria dell’Olearia”

Ho baciato i piedi di Gesù, poi ho incominciato a scartavetrarlo, Dio sa quanto l’ho pregato, in mezzo alla polvere e al colore che cadevano.

Ho estratto il chiodo che unisce i piedi, e i chiodi delle mani, mi è apparso il colore vero del legno, il colore del pioppo. Legno vero per chiodi veri. Ma a un certo punto la polvere e il colore si sono sollevati da terra, il vento ha sparso i resti delle sbucciature dei ginocchi, le cinquanta e più gocce di sangue, il castano dei capelli, il bianco-azzurro del perizoma. E ho visto più chiaramente i segni del ritiro del legno, e le crepe, le profondità provocate dall’attacco delle tarme.

Brividi e scosse mi hanno percorso la schiena, fino a infiammarmi le guance, la statua del Cristo, interamente bucherellato dagli insetti, ha mantenuto la sua espressione dolente, confesso di averla controllata più volte: gli occhi sfiniti, appena socchiusi dalla fatica del dolore, la bocca aperta nel tentativo di prendere aria.

Ho dovuto contenermi, avevo un gran desiderio di piangere, per cui lo abbracciavo, e non solo per motivi pratici, ma anche per supplicarlo di aiutarmi. Alla fine sono venuto alla conclusione che solo lui era capace di sfidarmi, di sfidare la mia tristezza (occhi, cuore, mani, nervi, cervello), lui vivente, lui in persona. E andavo su una banchina solitaria di Capo d’Orso, abbandonata fra le rocce, il mare agitato colpiva il rialzo di cemento, già battuto dalle onde delle navi. Così sperimentavo la violenza del mondo sul mio corpo, e mi stordivo per gli schiaffi che subivo dall’acqua. Ogni percossa che mi raggiungeva rinforzava il mio organismo. In quei giorni di bufera la costa scompariva dietro un sipario denso di salsedine, mescolato all’umidità. Nel nero delle rocce ci vedevo il sangue raggrumato di Gesù, e nel fulmine riconoscevo il suo grido. Un letto di pietre e conchiglie si raggranellava attorno e sotto i miei piedi.

*

Rinfrancato, ritemprato, risalivo i giardini infangati, e tornavo a Santa Maria dell’Olearia, tornavo al mio Cristo e mi rimettevo al lavoro. Quel giorno, staccandolo finalmente dalla croce, sentii le sconnessioni del legno, le sentii come un pane secco che si rompe, e dovetti ancorare i pezzi con la colla, oltre che con perni e viti. Il legno reagiva bene; mani, piedi e viso conservavano la loro integrità. Lavoravo con i solventi e rimuovevo le antiche stuccature. Spruzzavo veleno antitarme, preparavo le garze per le giunzioni dei masselli spaccati, poi ristuccavo tutto.

“Se lo guardi da un punto ti sorprende”, mi dicevo e mi spostavo a guardarlo da un altro lato, o mi allontanavo fino al limite del possibile. In seguito lo stendevo, lo mettevo in controluce, e lo contemplavo nella sua posizione contratta. Potevo osservare meglio nel particolare le sue giunture, i suoi muscoli, la forza che traspariva dalla sua forma antica, realistica, di fattura napoletana.

Il Cristo sembrava confortato, la sua tenerezza, là, nel silenzio delle ore buie lo assimilava alle cose, al paesaggio, alla natura. Pensavo al pioppo da cui era stato ricavato e sognavo un bosco ripido, con sentieri dissestati, accanto a insenature rocciose, dove sgorgava una cascatella d’acqua, e poi la cascatella si trasformava in mulattiera e quindi diventava una scalinata. Io la salivo e nel salirla il mio cuore si schiantava, piombava dentro vertigini di oggetti immaginosi, oppure vagava in mezzo a spettri vaganti; la caduta trascinava ogni ombra in un marasma di macerie.

“Che cosa grande ho avuto, Gesù, e quanto sono piccolo io… Pensavo di non farcela… Tu puoi fare tutto di me, ti chiedo perché mi dai sempre un cuore disperato… Tornerò diverso da questa esperienza… Lasciarsi ferire, ecco la novità. Quante volte ti ho chiesto un bacio, un bacio tuo, anche in sogno, o nel dormiveglia, che tu un giorno possa baciarmi, che io un giorno possa essere baciato, che la tua saliva possa fissarsi su di me come un percorso brillante sulla scorza della mia pelle”.

*

Dico queste parole sottovoce, e mi sembra di vedere Santa Maria dell’Olearia per la prima volta, mi sconvolge il fatto di vederla come se fosse la prima volta, quando fui stravolto da quelle spaccature orizzontali, dalla visione di quelle spaccature rientranti nella roccia, per quindici, venti metri di profondità, e altrettanti metri di lunghezza, testimonianti la fede in Gesù, nel penetrare il cuore che l’aveva voluta, nel cuore che l’aveva segnata, costruendo una chiesa e un convento, dipingendo affreschi, accumulando un ossario. Il tutto per lasciarsi penetrare dalla devozione di Gesù, facendo sì che questa entrasse attraverso una fenditura, abitata dall’uomo nella roccia già esistente. Un pertugio che poi si è allargato in un antro roccioso.

Così l’ho visto io.

Centinaia di lapilli di fuoco stanno illuminando la Badia, ora, nell’incendio improvviso che è scoppiato nella notte e ha ferito la montagna. La ferita della montagna è la nostra ferita, vado pensando io, ma il mio pensiero non argina le lingue di fuoco che lampeggiano al vento. Perciò si guarda e si teme il male, e ci si addormenta con questo spettacolo incombente sulla testa. Non si rinuncia al riposo, no, non si può rinunciare. Perché, mi dico, perché non si affrontano le fiamme?, forse che il male è gentile?, che arretra da solo e desiste? Qualcuno può pensare che la ferita della montagna non è sua?

Il giorno dopo il cielo è squarciato da un Canadair giallo, in volo sulla costa. L’aereo si spancia nel mare al fine di raccogliere acqua, e poi decollare dalla superficie marina che ha accarezzato, slanciandosi in virata verso l’incendio, rombando sempre più vicino, sempre più prossimo alle case, allo spirito della gente, come lo spirito stesso che conosce l’azzurro e la luce.

*

Io, nel mio eremo-rifugio, guardo la volta del cielo, traversata non solo dal Canadair ma da altri due elicotteri, in azione antincendio, perché il grande fuoco si diffonde, e in più luoghi: a Chiunzi, sul valico, a Ravello, sopra Positano, verso Cava. Il rumore è assordante, gabbiani fuggono veloci nelle più varie direzioni, soprattutto verso terra. Gli elicotteri hanno una sonda e, dopo aver volteggiato sulle teste di abitanti e turisti, immergono la loro proboscide stando sospesi sull’acqua, nella chiazza di mare che s’increspa alla velocità delle eliche. Non fanno in tempo a finire l’operazione, che già mostra la sua sagoma il Canadair, scende giù come un drago immenso e il suo rombo ha invaso la baia, ha tagliato con forza il tunnel d’aria che deve attraversare. Anche lui vira, ma rasentando la superficie dell’acqua, e risollevandosi col suo carico in un nuovo, ennesimo, decollo.

Rientrando nella chiesa dò sfogo al mio bisogno contemplativo, contro lo strepito del rumore, contro le fiamme, contro l’uomo che dissesta l’anima, e faccio per oscillare una sedia, la dondolo soprappensiero, tenendola per lo schienale, sotto di me vedo formiche e formiche, che non si sa da dove vengono, un esercito di formiche che percorre in lunghe catenelle il pavimento, arrivando a salire verso la statua di Gesù. “Tutto t’aggredisce e io ti restauro”, dico io. Mi calmo solo quando le ombre si abbassano e compare sulla volta dell’Olearia, sulla roccia viva e scorciata, un riflesso di luce brulicante di chiarore, un cielo marezzato di fosforescenza che raggiunge fin nel profondo la grotta. Mi viene di ringraziare e ringrazio a mani nude, con i gesti dei muti appresi durante un corso che ho frequentato. “Oh-Gesù-pensa-che-struggimento-sto-vivendo”.

*

Eppure mi sento come nuovo mentre la terra brucia e io sto accanto al mio Cristo, ma assalito dalle formiche, che io calpesto a più non posso, gridando morite, morite, non avrete il mio Bene. E continuo a esprimermi a gesti: “Dio-fa’-che-il-suo-ventre-sia-dono-per-me, fa’-che-le-sue-lacrime-siano-per-me-lenitivo, fa’-che-il-suo-sangue-sia-manna, fa’-che-i-suoi-occhi-siano-per-me-evidenza, fa’-che-le-sue-mani-e-i-buchi-delle-sue-mani-siano-per-me-carezza, fa’-che-i-suoi-piedi-e-i-buchi-dei-suoi-piedi-siano-per-me-cammino, fa’-che-i-suoi-capelli-siano-per-me-coltre-che-asciuga, fa’-che-le-formiche-siano-pietà-soccorritrice-per-tutti…”. E mentre guardo le vampe luminose nel buio, m’immedesimo in quello spettacolo fiammeggiante, quindi sto nell’idea della montagna, nell’idea del rogo che distrugge, nell’idea della roccia, nell’idea del fiore che si torce insieme al ramo che si incenerisce, nell’idea del pioppo che ha generato il Cristo e muore, sto nell’idea dell’erba che si macera, nell’uccello che vola via, nella notte che continua a gemere.

Non faccio in tempo a finire la mia sequela che incomincia a piovere, nessuno si aspettava questo evento, nemmeno era previsto dai bollettini meteorologici. Ebbene, quaranta e più minuti di pioggia vincono il nemico della natura: il criminale che credeva di farcela a vincere la natura così com’è. Cioè come l’ha generata Dio, come l’ha voluta il Creatore, con materiali poveri di vento, sostanza di terra, acqua, nuvole, cielo, ossigeno, spazio, sconfinatezza infinita dell’anima… Insomma se piove il fuoco si spegne, non può resistere alla grandezza della natura, al suo imprevisto divino.

Il mare ribolle di grandine, e io approfitto della sua furia per raggiungere la banchina, per farmi inondare come il Cristo dalla vita. Subito, a contatto con la veemenza degli elementi, mi sento colpire alle caviglie da un flusso rabbioso di furore, di un’intensità straordinaria. L’impeto di quella forza mi trascina nell’acqua, contro gli scogli e poi mi rivolta di schiena sulla banchina, risucchiato in un capovolgimento che mi lascia arenato e contuso. Inizio a nuotare, perché mi ritrovo di nuovo sommerso, sebbene vicinissimo a una riva, uno sperone di scoglio che afferro a malapena. Sento bruciarmi di sangue e sento il cervello che soffre a farsi coraggio. Grido nel sangue e nella paura, lacrimo dagli occhi e perdo dal naso. Tutto mi cola nel bruciore dei cristalli taglienti di sale, vere lamine affilate che mi hanno ferito.

*

“Ma che avete fatto!” dice il custode dell’Abbazia di Santa Maria dell’Olearia, che è venuto a sincerarsi se il mio lavoro procede. “Ma come, io vi lascio solo e voi vi fate trovare così? Siete diventato peggio di un Cristo in croce, voi che lo dovete restaurare quello, vi state rovinando la vita”.

“Se uno si trova bene – gli dico –, qui, nella sua esistenza, se ha tutto, voglio dire, abbandonare tutto significa tragedia, ma se uno sta male o non ha niente, e lo percepisce il suo male, può capire meglio nella fine quel desiderio di pace che si avvicina, di prossimità al Signore, che è già predestinato nel Cristo”.

Il custode s’infastidisce, sbuffa. “Lo vedete? – dice lui rivolto a qualcuno –, questo tiene una testa!, che se non fosse già colpito, con le ossa ammaccate che si ritrova, io nuovo nuovo di cazzotti l’avrei fatto ‘sto scemo!”.

E c’è un viso che mi guarda, con occhi a mandorla, e l’ovale bianchissimo della faccia in primo piano, contrastato da una frangetta nera, su cui campeggia un fiocco.

“Questa è la signora cinese che deve preparare il matrimonio dei cinesi” dice il custode.

All’istante viene fuori un piccolo topo, percorre il perimetro della chiesa muovendosi a scatti, poi con corsettine rapide si assesta in un punto, per controllare la nostra posizione, infine fugge via a nascondersi.

“Ah, non vi preoccupate – dice Lillo, il custode –, voi ci siete abituati, ve li mangiate pure, no?”.

La signora cinese inorridisce, e resta con le mani sulla bocca. Si riscuote solo per dire: “No, no, quello va bene”, mentre Lillo vuole portare via il Cristo. Poi continua: “Niente sfarzo, per cerimonia va bene”.

“Ah, vi piace?” dice Lillo, il custode.

“Loro non volere fronzoli” dice la signora cinese.

“Allora ci mettiamo questo” dice Lillo, svolgendo un vecchio tappeto.

“No, no, niente ricchezza”.

“E me la chiamate ricchezza!?” dice Lillo, il custode, ridendo assai.

“Per questo hanno scelto Santa Maria dell’Olearia” dice la signora cinese.

“E le luci?” chiede il custode.

“Solo candele, gli sposi vogliono soltanto candele”.

“Qualche festone, giusto sull’altare” dice Lillo.

“Niente” dice la cinese, facendo no col dito.

“Un’imbiancata ci starebbe, ma se voi vi contentate… questo è, sta qua dal decimo secolo”, dice il custode.

“No, niente spesa, niente stucchi, niente marmo, niente cose preziose, una cosa semplice, solo pietra, fatta per il loro dolore. Loro vissuto un dolore”.

“Quale?” chiede Lillo.

“Un dolore grandissimo, e quel Cristo va bene, quello va bene per loro, per quello che hanno vissuto loro”.

“Io non capisco ma che matrimonio è?” domanda Lillo, che non si capacita.

“Che dolore hanno avuto?” insisto anch’io.

“Il dolore è pietra – dice la signora cinese –, come pietra scavata, per questo sposi hanno scelto Santa Maria dell’Olearia, si adatta a loro amore, un amore che è di pietra… però anche pietra è tenera, si può vincere la pietra, si può arrivare dall’altra parte di mondo a scavare scavare…”.

“Questa è un’Abbazia che non c’è in nessun posto. Furono i monaci a incominciare l’impresa, i benedettini, i cistercensi, i camaldolesi, tutti eremiti che vivevano in eremitaggio, e di povertà e di preghiera” dice Lillo.

“Lo-Jan è la donna che si sposa, e Yun-So è lo sposo, loro venuti per celebrare matrimonio qui a Santa Maria dell’Olearia, perché loro piacere, diciamo che è giusta atmosfera” dice la signora col suo fiocco tremante sulla testa.

“In effetti tanti cinesi vengono a sposarsi in Costiera, ma non a Santa Maria dell’Olearia, preferiscono Minori, Ravello, Amalfi, chessò…”.

“Loro volere qui, loro scelto qui”.

“Siamo riconoscenti , ci fa piacere, ma vorremmo essere più vicini alla coppia, insomma avete parlato di dolore, vorremmo essere d’aiuto, capire; sapete, anche per noi…” dice Lillo.

“Gli sposi hanno già un figlio – dice la signora cinese –, il vero marito di sposa è morto… lui voleva morire, lui ha incontrato la sposa prima di questo sposo qui, anche questo uomo ama lei, ma l’uomo che è morto, che l’ha messa incinta, l’amava di più, l’amava moltissimo, l’amava fino alla morte, perché lui voluto morire, lui quando saputo che Lo-Jan è malata lui ha voluto morire per lei, e questo successo dopo che Lo-Jan ha chiesto un figlio… ma se l’uomo ha accettato malattia di Lo-Jan, lui vuol dire che no voleva più vivere e quindi lui voluto fare per lei questo figlio che lei voleva, perché nessuno può amare donna come lei… Lo-Jan malata di malattia che porta la morte, aids, malattia che trasmette la morte se hai un rapporto, mi spiego?, e l’uomo che ha dato a lei figlio, l’uomo che non voleva più vivere, ha voluto morire per qualcosa, ma ce l’ha fatta a vedere suo figlio, è riuscito a vedere suo figlio prima che morisse, così è riuscito a vedere come era fatto il suo amore, anche se è morto… lui riuscito a vedere suo figlio, perché chiedeva almeno questo, di poter vedere il bambino prima di morire, lui pregava il Signore che gli desse il tempo per riuscire a vederlo, poi sarebbe morto contento, perché lui voleva morire, perciò aveva poco tempo con l’infezione che l’aveva colpito, e che lui sapeva che l’avrebbe colpito, che ce l’aveva già addosso, perché lui sapeva che Lo-Jan era malata di aids, di quella brutta malattia che uccide, la malattia mortale, che non ha pietà, la sua pietà è solo il tempo che hai a disposizione, lungo o breve… perché quell’uomo che ha amato Lo-Jan alla fine è morto, ma era più forte il desiderio di morire d’amore, e quindi ha trovato la morte in questo modo, che è disperato per qualunque uomo, ma lui ha trovato almeno il tempo di vedere com’era suo figlio e di dare un figlio ad una donna malata che non ne poteva avere figli per via che era infetta, così anche per lei è stata una grazia, non solo per uomo che l’amava, ma anche per lei è venuta questa grazia di poter avere un figlio… nessuno, nessuno avrebbe potuto farlo con lei, ci voleva quell’uomo che voleva morire e che ha lasciato suo figlio a una donna che voleva vivere, nonostante la sua malattia, che però non dà morte a lei, la vita continua con lei… e il figlio che ha avuto, il bambino che è nato, dimostra questo, che lei ha bisogno di vivere, vuole vivere”.

“E lo sposo di adesso?” chiedo io, a lei che è sorridente, e che mi fa una tenerezza immensa col suo fiocco che trema sulla sua testa.

“Lui sacrificato, lui sacrificato per lei e per il figlio che non è suo, per bambino che è figlio di uomo che ha amato Lo-Jan prima di lui, che ha voluto morire in questo modo, cioè… in quel modo… di morire per qualcosa, che se moriva solo, solo per sé, lui ha capito che era come morire per niente, invece ha avuto questa grazia di poter capire che cos’è la morte, che cos’è… che anche noi moriamo per gli altri, ognuno morire per gli altri, nessuno io credo muore per se stesso, lasciamo qualcosa, lasciamo sempre qualcosa, e uomo che è morto ha dato la vita a donna che voleva bene, ma era impossibile per lei di avere dei figli, solo se qualcuno moriva per lei avrebbe potuto, solo con morte di un altro ce l’avrebbe fatta, è questo che è successo”.

*

Mi sentivo sradicato, ma dentro l’oro di una crisalide, una crisalide aerea di dolore, di grazia, di misericordia, nell’effetto di quel racconto di pace, che trasmetteva pace a me ferito, e al mondo silenzioso che sembrava assorto ad ascoltare, fino ed oltre lo scoglio della Torre Normanna, della Lanterna di Amalfi, di Vettica, di Capo di Conca… Mi sentivo avvolto da questo involucro misericordioso, che a poco a poco era diventato uno scudo, ma coperto dalla saliva di un bacio, sentivo che ero bagnato di sudore, di lacrime, di una sostanza stupefacente che imperlava la mia pelle, che era la storia di un bacio, il bacio che avevo chiesto e che ora si faceva tutto; il bacio che ricevevo da quella storia era tutto, ogni stilla di liquido lo diceva, continuava a raccontare la storia dentro di me, sul mio corpo, continuava a cospargersi su di me: liquido-incolore-su-corpo-indegno, volontà-d’amore-che-non-finisce… Quindi mi venne la febbre, una febbre alta che incominciò a diffondersi in ogni parte delle mie membra, o nella foresta ramificata dei miei sensi, ed era incontenibile, il mio stesso organismo provava a farla uscire da se stesso, la proiettava fuori, lasciandomi ferito, nel tentativo che producevo di alzarmi, nel viaggiare ancora con la mia povera immaginazione, pieno di riconoscenza per la storia che avevo ascoltato… Allora Lillo, il custode, non so cosa gli prese, decise di afferrarmi per le spalle e di portarmi via come aveva fatto col Cristo, ma gli sfuggiva la presa, a causa del mio sudore, che mi inzuppava interamente. Ero troppo viscido per lui, troppo insensato. Con questa bocca, con questa carne gli gridai: “Voglio vederli, voglio vederli gli sposi!”.

Vincenzo Gambardella

Gruppo MAGOG