24 Settembre 2018

Vi prego, spegnete la luce e tornate a usare le candele, daranno ombre sibilanti e profondità alla vostra vita: filosofia della fiamma tra Gaston Bachelard e Moby Dick

A mia figlia viene una idea. Questa sera ceniamo spegnendo le luci, con le candele. Ottima idea. Piazziamo qualche candela dentro i bicchieri. La fiamma ci affascina. Il suo movimento sinuoso ci ipnotizza. La fiamma – in realtà, sono tre o quattro sibili di fuoco – crea ombre; e le ombre dilatano il mistero. Questa stessa stanza, la solita, angusta, diventa profondissima grazie alla fiamma. I nostri volti, sagomati dal fuoco, hanno una ambiguità diversa, instabile, inquieta. Davanti a una fiamma puoi amare per tutta la vita – la luce elettrica fa scempio del fascino.

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La luce elettrica, questa riproduzione del giorno quando il giorno è defunto, questa petulante imitazione del sole, rende tutto piatto ed equidistante. Ci schiaccia nella nostra opacità. Anche le lampade a led, per quanto soffuse, architettoniche, superbe, ambiscono a una perfezione odiosa. L’uomo non è tale perché vince la notte, ma perché adorna di fiamme l’oscurità.

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Bachelard
Nel 1961 Gaston Bachelard pubblica un libro indimenticabile, “La fiamma di una candela”

Le candele, poi, sembrano le dita verginali di una divinità: essa si consuma per darci la luce. Quando guardo una candela, penso a Moby Dick, m’immagino su una baleniera, improvvisamente la cucina diventa la tolda del Pequod, e il frigorifero è gonfio di fiocine. Uomini spesso incapaci a nuotare che affrontano il mostro marino, ne segano e squartano la testa per distillare il preziosissimo spermaceti, la sostanza con cui creare le candele, per raffinare l’olio necessario alle lampade. Guardi una fiamma ed ecco che t’imbarchi su una baleniera.

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Inevitabilmente l’invenzione dell’elettricità ha reso più povera la nostra vita. Certo, l’ha fatta più comoda, con florilegio di strumenti meccanici casalinghi: le aziende che fabbricavano candele sono sparite, sostituite da quelle che costruiscono frigoriferi, lavatrici, forni da casa. La luce elettrica, però, ha dissipato le ombre, ha reso più chiara – ergo: più squallida – la routine quotidiana. La fiamma si muove, e con essa i tratti del nostro viso, metamorfici – al cospetto di una lampada elettrica, a led, come vi pare, il nostro viso è sempre lo stesso, privo di profondità, anonimo, ci stanca.

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Mi domando: come sono cambiati i rapporti umani da quando le candele non illuminano più la nostra tavola? Come amiamo sotto l’aura della luce elettrica? Come è cambiata la scrittura – e quindi l’amore – da quando esiste il computer?

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Oggi si vendono candele intrise di profumo, colorate, ornamentali. La candela serve per profumare la casa, non più per la luce che emana – per questo quel profumo, alle mie narici, è il puzzo dell’uomo che marcisce.

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L’elettricità ha distrutto per sempre un mondo fatto di fantasie perché sotto il lenzuolo dell’ombra c’è uno che s’inventa una storia. L’invenzione dell’elettricità penso che sia da avvicinare all’invenzione del computer. La candela, che è anche un imperativo etico – ti sacrifichi, ti consumi per fare in modo che altri abbiano luce e senso – è come la scrittura a mano. Scrivere a mano significa agire in modo fisico, donarsi al foglio, declamare la propria identità grafica. Scrivere al computer, invece, è spingere dei tasti – come si spinge un tasto per accendere la luce, senza rischiare di bruciarsi per infiammare lo stoppino – producendo un documento pulito, privo di profondità e di ombre laceranti. Desideriamo il giorno perpetuo, la perfezione, la comodità: così, ci siamo condannati a stare sulla superficie delle cose, sulla panchina del noto, dell’ego.

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Gaston Bachelard (1884-1962), filosofo inafferrabile, autore, tra l’altro, de La poetica della rêverie e di uno studio su Lautréamont, pubblica nel 1961 un libro mirabile e pudico, La flamme d’une chandelle. In quel libro, Bachelard scrive una specie di remoto trattato di filosofia sulla candela, sulla fiamma. Il libro, per fortuna, è stato tradotto in italiano da Guido Alberti, e stampato da Se nel 1996. Ne pubblico un florilegio di brani. Con un compito. A volte, di sera, dimentichiamoci dell’interruttore elettrico. Costelliamo la casa di candele – quasi una risposta al cielo stellato. Lasciamo che le ombre ci guidino – sciogliamoci, ogni tanto, facendo di cera le dita, le labbra, i polsi. Facciamo parlare la fiamma, che per sua natura ha verbi che inceneriscono. (Davide Brullo)

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Bachelard
Lui è Gaston Bachelard (1884-1962)

La fiamma chiama chi veglia a sollevare gli occhi dal suo in folio, ad abbandonare il tempo dei doveri, il tempo delle letture, il tempo del pensiero. Nella fiamma anche il tempo si mette a vegliare. Sì, chi veglia davanti alla sua fiamma interrompe la lettura. Pensa alla vita. Pensa alla morte. La fiamma è precaria e vacillante. Questa luce, un soffio l’annienta, una scintilla la riaccende. La fiamma è facile nascita e facile morte. Vita e morte possono esser poste qui l’una accanto all’altra.

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Il filosofo può ben immaginare davanti alla sua candela di essere il testimone di un mondo in combustione. La fiamma è per lui un mondo teso verso un divenire. Il sognatore vede nella fiamma il suo stesso essere e il suo stesso divenire. Nella fiamma lo spazio vacilla, il tempo si agita. Tutto trema quando la luce trema. Il divenire del fuoco non è forse il più drammatico e il più vivo fra i divenire? Il mondo va in fretta se lo immaginiamo in fuoco. Così il filosofo può sognare tutto – violenza e pace – quando sogna il mondo davanti alla candela.

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Il verbo spegnersi può far morire qualunque cosa, un rumore come un cuore, un amore come una collera. Ma chi esige il senso vero, il senso primo, deve rievocare la morte di una candela. I mitologi ci hanno insegnato a leggere i drammi della luce negli spettacoli del cielo. Ma nella cella di un sognatore gli oggetti familiari diventano miti dell’universo. La candela che si spegne è un sole che muore. La candela muore più dolcemente persino dell’astro del cielo.

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Ogni sognatore di candela, ogni sognatore di piccola fiamma lo sa bene. Tutto è drammatico nella vita delle cose e nella vita dell’universo. Si sogna due volte quando si sogna in compagnia della candela.

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La candela aveva condotto vita comune, vita ispirata, vita ispiratrice con il poeta ispirato. Al lume della candela, nel fuoco dell’ispirazione, un verso dopo l’altro il poema dispiegava la sua stessa vita, la sua vita ardente. Ogni oggetto sul tavolo aveva la sua aureola di luce. E il gatto era là, seduto sul tavolo del poeta; la coda, così bianca, sul servizio da scrittorio. Guardava il padrone, la mano del padrone che correva sulla carta. Sì, la candela e il gatto guardavano il poeta con sguardi pieni di fuoco. Tutto era sguardo in quel piccolo universo che è il tavolo illuminato nella solitudine di uno che lavora.

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In quale centro dell’anima, in quale angolo del cuore, in quale meandro dello spirito un grande solitario è solo, realmente solo? Solo? Imprigionato o consolato? In quale rifugio, in quale cella il poeta è realmente un solitario? Un uomo solitario, nella gloria d’esser solo, crede a volte di poter dire cosa sia la solitudine. Ma a ognuno la sua solitudine. E il sognatore di solitudine non può darci che qualche pagina dell’album del chiaroscuro delle solitudini.

Gaston Bachelard

 

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