12 Novembre 2018

Usare Joseph Conrad come antidoto alle coppie ‘scoppiate’ di oggi. Dialogo con Giuliano Gallini

Il 1897 è un anno capitale, uno di quelli che tracciano liane sulla mano sinistra, che dirimono un destino. Lui ha quarant’anni, è sposato da poco con una ragazza decisamente più giovane di lui – ne fa 24, quell’anno – ha lasciato la vita di mare per quella da scrittore, meno pericolosa, sulla carta, ma anche meno redditizia. L’anno prima “l’affondamento di una nave gli fa perdere tutto il denaro investito nello sfruttamento di miniere aurifere in Sud Africa” (Mario Curreli) e lui, viso nevrotico, scrittura accesa da austere inquietudini, comincia a buttar giù una dozzina di racconti da ‘piazzare’ alle riviste in voga all’epoca. Joseph Conrad è noto, per lo più, per essere uno scrittore di romanzi ‘esotici’ e cruenti, come La follia di Almayer, con cui ha esordito alla letteratura, due anni prima. In quel 1897, nell’ordine, Conrad pubblica il terzo romanzo, Il negro del ‘Narciso’, incontra Henry James, conosce Stephen Crane, è elogiato da H. G. Wells; nell’arco dei prossimi due anni gli nasce un figlio, imprevisto, Borys, scrive il suo libro più bello – Cuore di tenebra – s’inventa l’indimenticabile Marlow e comincia a sbozzare Lord Jim. In quel giro di anni, oltre ai romanzi più noti, Conrad scrive un racconto anomalo, per nulla esotico, di frugale crudezza – che andrebbe letto, semmai, in concomitanza con i romanzi ‘occidentali’, L’agente segreto e Sotto gli occhi dell’Occidente. Il racconto s’intitola Il ritorno, viene accolto, nel 1898, nei Tales of Unrest, insieme a testi più noti come Un avamposto del progresso e Karain, e ha al centro una risoluta ‘crisi di coppia’, che ‘scoppia’, così, “senza una ragione né un motivo”, per tedio, per una grammatica della tristezza. Partendo da questo racconto Giuliano Gallini, già autore de Il confine di Giulia, scrive un romanzo anomalo, indocile, ispirato, Il secondo ritorno (Nutrimenti, 2018), ‘a dittico’. Il romanzo, infatti, un po’ come Palme selvagge di Faulkner, intreccia due vicende: da un lato quella di Conrad – redatta con stile un poco rètro – ambientata nel 1897, con lo scrittore afflitto da debiti e desiderio di fama, moglie al seguito e racconto irrisolto tra le mani (“Il ritorno non convinceva nemmeno Garnett, l’amico, consigliere ed editor. Non è opera tua, gli aveva detto. D’altra parte, Conrad sapeva che qualcosa non funzionava nel suo primo romanzo moderno, psicologico”), l’altra, a Milano, nel 2017, vede contrapposti Agnese, temperamento artistico e un po’ represso, all’aitante e carrierista Leo. Il legame tra le due storie è superficialmente sottile (Agnese sta lavorando al “video continuo a canali multipli” J&J, cioè “Jessie e Joseph. Jessie George e Joseph Conrad. Un matrimonio che gli amici di Conrad non avevano capito e che gli rimproveravano”): in realtà, Agnese e Leo mettono in scena, ai tempi di oggi, la trama de Il ritorno, con precipizio sentimentale che si svela, va da sé, nel finale, turbinoso, che turba. Questo cosa significa: che il gesto letterario, forse, è più vivo, significativo, realizzato della vita reale (“l’arte può essere definita come un tentativo sincero di rendere il massimo grado di giustizia all’universo visibile, mettendo in luce la verità, multiforme eppure una, che nasconde ogni suo aspetto”, scrive Conrad nella più nota delle sue Preface, proprio nel 1897)? Diciamo che il romanzo da un lato è un raffinato omaggio a Conrad, scrittore piratesco e magnetico, dall’altro una analisi viziosa e virulenta nell’amore moderno, minato dal fato. Conrad, come un talismano, esplode nel cuore di una metropoli affascinata dalla dissipazione. (d.b.)

ConradIntanto. Come le è venuta l’idea di intrecciare una scaglia biografica di Joseph Conrad in una vicenda tragicamente attuale. Quasi che ciò che Conrad abbia scritto nel 1897, si realizzi, come una profezia, 110 anni dopo…

Un paio di anni fa “Il ritorno” di Joseph Conrad fu proposto, quasi contemporaneamente, nei due gruppi di lettura che frequento. Sollevò parecchie discussioni perché a molti amici era sembrato un testo affascinante ma con qualcosa che non funzionava: forse la focalizzazione? Il finale?  Era uno dei pochi romanzi di Conrad che non conoscevo e pensai di scriverne una sorta di remake perché i suoi temi di fondo non erano superati e il detonatore drammatico mi affascinava per la sua forza generativa. Volevo scrivere solo una storia attuale, ma dopo poche settimane di lavoro ho scoperto che Joseph Conrad aveva rovistato tra i miei fogli. Si era acceso un sigaro – c’era della cenere tra le pagine – e capii dalle sue vigorose sottolineature che intendeva governare lui la narrazione. So che quando un autore racconta che i personaggi e le storie scendono sulla pagina direttamente dai polpastrelli senza pre-meditazione non viene creduto ma così stanno le cose. Jozef Teodor Konrad Korzeniowski è apparso senza preavviso nel mio romanzo perché voleva essere raccontato e aveva la sua da dire. In un certo senso voleva scrivere lui il remake, ma senza muoversi dal suo tempo, dalla sua casa, dalla sua poltrona e restando in compagnia della sua giovane moglie Jessie. E non ho potuto fare altro che intrecciare il contemporaneo “Secondo Ritorno” con una lontana, eroica giornata di Joseph Conrad.

Perché quel racconto, remoto, riposto di Conrad, poi, così atipico, inquieto? Perché, in assoluto, Conrad? Quali sono le letture che la hanno formata, per così dire?

“Il ritorno” è, come dice lei, inquieto: ma di una inquietudine molto contemporanea. E la sua trama mi è sembrata  un ordito che poteva accogliere anche i sentimenti di questi nostri anni. Quanto a Conrad: Joseph Conrad è tra le mie letture giovanili più amate. Continuo a rileggerlo come Melville, Svevo, Bassani, Gadda, Dostoevskij, Yourcenar… confesso anche Manzoni. Ma tra tutti questi Conrad è l’autore per il quale sento più forte un legame affettivo: lo vedo mentre scrive, attraverso di lui conosco l’equipaggio “degno di imperituro ricordo” del vascello che supera una definitiva linea d’ombra, e le sue parole mi aiutano ad affrontare con dignità una condizione umana che per lui – per me? – è “beaucoup des rèves, un rare èclair de bonheur, un peau de colere, puis le desillusionnement, des annèes de souffrance et la fin”.

Che ‘fonti’ ha usato per ricostruire, con una certa minuzia, certi dettagli biografici di Conrad: tanto studio o virginea invenzione?

Mi sono documentato leggendo biografie e molti saggi, tra cui quello di W.G. Sebald, che cito nella postfazione. Ma non sono uno storico e nel “Secondo Ritorno” vive soprattutto l’immagine di Conrad che si è formata dentro di me leggendolo.

In fondo, il suo è il romanzo della lacerazione. Da un lato c’è Conrad che cerca di accompagnarsi con una amata che suturi le sue inquietudini; dall’altro una coppia come tante che ‘scoppia’, senza particolari motivi, perché è la vita che morde e lacera. È così? Si scrive, sempre, l’amare, l’amore?

Sì, la ringrazio per questa definizione, molto bella e appropriata. Un romanzo della lacerazione.  Poi ci sono  altri livelli e temi: che si rincorrono tra le due parti e che si rivelano quando incontrano la sensibilità  del lettore. Non ha ovviamente senso che ne faccia io l’elenco, è una tentazione alla quale devo resistere.

Da un punto di vista laterale – lei non è scrittore ‘di professione’ – come giudica la letteratura italiana contemporanea? Insomma, chi legge, oggi, cosa la appassiona?

Si scrive sempre meglio. Mediamente meglio. Mediamente bene. Grazie alla tecnica. Cosa intendo dire? Da ragazzo mi capitava di vedere dei film molto brutti, con fotografia pessima, recitazioni ridicole: ora non accade più. Ci sono film che non mi piacciono, naturalmente, ma anche quelli che non mi piacciono hanno tutti una notevole dignità tecnica nelle riprese, nei colori, nel montaggio eccetera. Così è anche per i romanzi. Grazie ai programmi di scrittura oggi è più facile revisionare un testo, non tutti hanno una moglie (o un marito) che abbia voglia di correggere e riscrivere continuamente come faceva la moglie di Tolstoj; grazie alla rete le ricerche sono più veloci; ci sono decine di scuole creative che insegnano come costruire un romanzo, dove mettere un dialogo come dosare le descrizioni e così via; molti autori, anche importanti, sottopongono i loro testi a editing – costosissimi  – riga per  riga, e c’è una fiorentissima domanda di mercato per questo tipo di professionisti. Il risultato è un prodotto quasi sempre dignitoso ma che, purtroppo, scivola via come l’acqua sul marmo. Spesso il lettore lo dimentica subito o rimane con una sensazione di insufficienza, di mancanza. Che cosa manca? L’ispirazione. Leggo tanto. Mi piace sempre leggere. Non vorrei però dire chi leggo, chi mi appassiona: finirei per fare una classifica. Faccio uno strappo solo per Francesco Permunian.

Domanda allo ‘stilista’ letterato: mi pare che ci siano due stili, due scritture, due modi di scrivere nelle porzioni dedicate a Conrad rispetto a quelle ‘contemporanee’… mi spieghi.

Nel mio primo romanzo pubblicato, “Il confine di Giulia”, ambientato nel 1931, qualcuno notò che lo stile di scrittura richiamava un tono del secolo scorso, pur non imitandolo espressamente. Non fu, la mia, una operazione voluta: quel tono, quel richiamo vennero spontanei. Anche nel caso del “Secondo Ritorno” la parte dedicata a Conrad ha come una doratura: la scrittura non imita espressamente il fraseggio conradiano ma lo ricorda. Non mi applico a esercizi di stile, non ne sono capace: e l’ornamento stilistico che ogni tanto appare nella mia scrittura è inconsapevole. Forse deriva da processi di identificazione: con uno scrittore, un’epoca, un ambiente sociale…

E ora? Dopo aver sfidato Conrad, a che duello narrativo sta pensando, cosa sta scrivendo?

Io scrivo con una certa continuità da vent’anni. Cominciai quando, per motivi di lavoro, presi una foresteria lontano da casa dove restavo quattro giorni la settimana. Non avevo la televisione e la sera scrivevo, anche come antistress.  È diventata una piacevole droga, e da allora non riesco a non scrivere tutti i giorni. Umberto Eco una volta disse che un uomo, giunto a cinquanta anni, o si trova un amante o scrive un romanzo. Io ho scritto molti romanzi in questi vent’anni! e sono tutti ben riposti in scatole da scarpe. Fino a tre anni fa non ho nemmeno mai pensato alla pubblicazione, non ho mai inviato le mie “opere” a editori o agenzie. Poi con l’età si diventa purtroppo più narcisi e mi è venuta voglia di capire se le cose che scrivevo potessero piacere anche a qualcun altro, oltre che a me. Ho scelto una agenzia letteraria (lrliteraryagency) a caso su internet e ho mandato “Il confine di Giulia”. È piaciuto, l’agente ha trovato un bravo editore come Nutrimenti e ora eccomi qui a parlare con lei del “Secondo Ritorno”. Per venire alla sua domanda. Ho un romanzo ambientato a Ferrara, la città in cui sono nato, e il riferimento questa volta è  Bassani. Ho un sequel di fantascienza, cui sono molto affezionato, e un lungo romanzo di viaggio.  Poi, basta aprire le scatole di scarpe…

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