31 Dicembre 2019

“Cioran è un vampiro che non ha il coraggio di farsi monaco”. La celebre recensione di John Updike che stroncò la carriera americana del grande Emil

Non so se sia il suo libro più grande – in fondo, è l’opera intera, questa miniera trafitta di linci, una vigilante oscurità, a contare, intera, per estensione. In effetti, di fronte alla statura il censimento della grandezza è fallimentare. Il libro fu pubblicato da Gallimard nel 1969, cinquant’anni fa, lo comprai poco dopo essere atterrato a Milano, al crocevia del nuovo millennio. Mi attraeva il titolo. Il funesto demiurgo. Ne fui folgorato. Ricordo che ero nei dintorni di Cairoli, piazza Duomo era una piscina di luce, era inverno, un inverno colorato di azzurro. La luce bianca che mi accecava, pensai, proveniva dal libro – una luce capace di scartavetrare l’iride. Ricordo che telefonai a un amico del liceo. Devi leggere Cioran, gli dissi. Credo che Cioran faccia questo effetto: una rivelazione, fatta proprio a te, in un istante in cui l’enigma del mondo ti appare come un cappio e un miracolo. Nella nuova edizione del 1989 il libro – in origine: Le Mauvais Démiurge – è corredato da dida efficace: “Non riusciamo a conciliare il concetto di un dio onnipotente con l’evidente onnipresenza del male. Qualcosa di indicibile, dalle origini, ha viziato l’esistenza per sempre. Non possiamo ammettere che il buon dio, il ‘Padre’, sia stato coinvolto nello scandalo della creazione. La bontà non crea, la sua immaginazione è insufficiente; tuttavia, la creazione del mondo è necessaria, e necessariamente infima. La verità è che siamo scaturiti da un dio malvagio, al quale ci aggrappiamo con le nostre miserie e le nostre colpe: nulla ci lusinga così tanto come collocare la fonte della nostra bassezza nelle azioni di un creatore perverso. Apprezziamo la sua deplorevole incapacità di restare immutabile, perpetuiamo il suo lavoro dacché procreare è rendersi complice del crimine originario. Ogni generazione è sospetta; agli angeli non si addice la felicità, propagare la vita è compito di chi è caduto”. Per intendere questo libro bisognerebbe penetrare nella visione dei Bogomili, pensiero dualista del X secolo, censito tra gli eretici, che riteneva il cosmo spaccato tra i principi contraddittori del Bene e del Male e la Terra il parto di un dio malvagio. Spinto da Cioran, parecchi anni fa, li studiai: venivano dalla Tracia, si attestarono, con successo, in Bulgaria. Non ho più la mia edizione del Funesto demiurgo. Credo di averla regalata all’amico liceale – che oggi, dopo aver procreato, ha la famiglia disintegrata, forse Cioran agisce, dopo un decennio, come un virus. In ogni caso, Il funesto demiurgo funestò la carriera americana di Cioran – che per altro, come noto, disprezzava la fama, la viltà dei letterati e l’idiozia dell’accademia. A segare le gambe a Cioran – per così dire – fu John Updike, aureo romanziere a stelle e strisce, pluristellato. Quando stronca la traduzione di quel libro, realizzata per Quadrangle da Richard Howard come The New Gods – va detto che la prima traduzione del Funesto demiurgo è passata in Italia come I nuovi dèi, per le Edizioni del Borghese, nel 1971 – Updike è all’apice della sua vita letteraria: nel 1968 “Time” gli ha dedicato la copertina, è già lo scrittore di Corri Coniglio, Il ritorno di Coniglio, Il Centauro, Coppie. La recensione – titolo-sfottò: “A Monk Manqué”, poi in Hugging the Shore, raccolta di saggi e testi critici di Updike; sia sempiterna lode a Luca Orlandini per avermi procurato il testo – fa colpo; Cioran ne scrive, con svogliata ira, a Mircea Eliade: “L’articolo di Updike ha minato la parvenza di notorietà che potevo avere laggiù. Passato il momento di disappunto, mi sono detto che tutto ciò è nell’ordine delle cose, e che non bisogna prendere sul tragico questo genere di miserie. Persino il mio traduttore newyorkese mi ha scaricato. La sola cosa che rimpiango è che per forza di cose mi alieno dall’inglese, dato che in mancanza di visitatori yankee non ho quasi più occasione di parlarlo” (Parigi, 20 dicembre 1978; in: Cioran-Eliade, Una segreta complicità, Adelphi, 2019). Indirettamente, Cioran sembra rispondere ad Updike in un paio di interviste rilasciate intorno alla fatidica stroncatura (entrambe raccolte in Un apolide metafisico. Conversazioni, Adelphi, 2004). Con François Bondy (1970), Cioran dileggia “il rito del libro annuale. Bisogna pubblicare un libro all’anno, altrimenti ‘ti dimenticano’. È l’atto di presenza obbligatorio… Come sono stati fortunati Marco Aurelio e l’autore dell’Imitazione, ai quali ne è bastato solo uno!”. Con Fernando Savater (1977), Cioran approfondisce l’argomento: “io credo che un libro debba essere davvero una ferita, che debba cambiare in qualche modo la vita del lettore. Il mio intento, quando scrivo un libro, è di svegliare qualcuno, di fustigarlo”. Cioran – il cui successo, oggi, è inversamente proporzionale al cauto distacco con cui leggiamo i romanzi di Updike – non può, non poteva funzionare nel mondo americano dove il mercato sopraffà il miracolo, dove la vita – intesa come diletto provocato dalla provocazione e dal denaro – vince sulla vitalità e il risveglio per fustigazione è visto come un sopruso, meglio una sauna zen, un ashram a San Francisco o un sano dibattito letterario sotto il falò delle luci della ribalta. (d.b.)

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John Updike, Un monaco mancato

Nessuno dei rivali e dei critici di Cioran ha pensato di considerarlo come uno scrittore che, come altri scrittori, abbia il dovere di essere interessante né lo rimprovera che compie questo dovere in modo davvero sinistro. Benché erudito ed intellettuale all’estremo, non è tanto un pensatore quanto un posatore che inanella una serie di modi, di pose davanti a noi senza quel desiderio, tipico dei filosofi, volto a dirigere le nostre azioni e le nostre attitudini. È un intrattenitore, se diamo per assodato che l’esibizione compulsiva delle proprie ferite psichiche abbia qualcosa di interessante. Figlio di prete ortodosso, Cioran è innamorato e senza speranze del Cristianesimo – insaziabilmente arrabbiato col Cristianesimo. Viene dalla terra di Dracula e cerca le sale gotiche della storia, si trova claustrofobicamente a casa sua dentro l’orrore, il dolore, la negazione di sé, la rabbia. Che benedizione affamata è quella che spalanca le sue fauci sul collo del bene! Il lato oscuro di Cioran ha però un risvolto positivo, vale a dire una genuina ammirazione per la vita monastica, specialmente nei suoi aspetti morbidi. (…)

I suoi saggi, con la vastità di riferimenti – sa tutto per non dirci niente – sono un genere di rammemoramento agonizzante fatto dall’interno vacuo della ‘civiltà incapace di respirare’ che lo circonda. Non è mera arroganza ma volontà tesa a umiliare, vuole lo spopolamento che lo porta alla sua sistematica abolizione dei nomi dei contemporanei, e dice perciò “qualche teologo” o – per dire de Gaulle – “il meno insignificante degli uomini moderni”. Ma l’assenza, nei suoi dibattiti elettrizzati coi fantasmi, di nomi viventi enfatizza la mancanza di ogni altro incontro che non sarà mai possibile, e nemmeno a forzare le cose il suo pensiero verrà mai domato dal confronto, da avversari all’altezza, da alternative che non esistono nella sua danza di idee morte; la sua prosa istrioneggia ed è agitata e spezzettata come le movenze di un vampiro. (…)

Tutti i saggi raccolti nel The new gods (Le mauvais demieurge) si interrompono ogni volta che potrebbero diventare graziosi e fluenti; sembrano, invero, scritti punto per punto, shock dopo shock, una serie di cadenze che vorrebbero passare per melodia. Il frequente ricorso agli asterischi e agli attacchi di nuovi paragrafi tradisce la prospettiva mobilissima di un’intelligenza devota soltanto a se stessa. La migliore sezione di questo libro, la più divertente, concreta e suggestiva della mente vivente di Cioran, è l’ultima – una stringa di aforismi sconnessi intitolata Pensieri strangolati. (…) Reso celebre per un defatigante perfezionismo stilistico, Cioran è quel tipo di intellettuale outsider che Thomas Mann ha descritto nella storia breve Dal Profeta: “l’Io solitario cantava, farneticava, comandava; si perdeva in intricate immagini, sprofondava in un gorgo di sconnessioni e riemergeva, improvviso e pauroso, là dove meno lo si sarebbe aspettato. Le bestemmie si mescolavano agli osanna, l’incenso ai vapori di sangue; e in tonitruanti battaglie veniva conquistato e redento il mondo…”.

Ora, benché i suoi sponsor americani ce lo passino come filosofo, a Cioran difetta almeno la metà di quel che la parola greca suggerisce: amare il sapere. Saggezza senza amore è sofisticheria. Leggete subito un altro scrittore di frammenti che sia nervoso e dubitante, uno come Wittgenstein – a Cioran mancano spaventosamente due qualità di pensiero che l’austriaco possiede. Sono gentilezza e serietà. Non desidera farci rinascere dalle nostre ire per mezzo della chiarificazione; non desidera, diversamente da Nietzsche e Kierkegaard, infiammare la nostra rabbia sino al punto critico per poi curarla. Desidera darci soltanto, col suo agile e sinistro zampettare ragnesco tra le complessità delle nostre vicende attuali, dei frissons – ecco la sua parola favorita, i brividi. E i mezzi sembrano sproporzionati rispetto ai fini.

John Updike

*traduzione di Andrea Bianchi. Il passo di Mann è cavato dai Racconti ed. Mondadori 1978

**In copertina: John Updike (1932-2009) ha ottenuto in carriera due Premi Pulitzer e svariate candidature al Nobel per la letteratura

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