06 Marzo 2020

“Solo vive chi vede l’Angelo”. Giuseppe Ungaretti, scrittore dello straordinario. (Intorno a un libro magnifico e perduto)

Dal 1931 Giuseppe Ungaretti è inviato speciale della “Gazzetta del Popolo” di Torino, viaggia molto, scrive. Sono anni importanti: nel 1933, per Vallecchi, esce Sentimento del Tempo, con quell’inno franto, già beckettiano, meteora che fende i deserti, La pietà. “L’uomo, monotono universo,/ Crede allargarsi i beni/ E dalle sue mani febbrili/ Non escono senza fine che limiti”.

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Le prose di Ungaretti sono lampeggianti, meravigliose. Vi si legge l’antica sapienza egizia – per orientarsi, leggere il discorso di Plutarco Su Iside e Osiride – e l’arte del poème en prose francese. Alessandria e Parigi, insomma, convergono sempre nel verbo di Ungaretti. “Appoggiate a muri crollanti, intumescenze d’ombra per terra erano appollaiate in fila cieca e Baal Zabu, dio delle mosche, aveva spedito, a mantenerle deste, una turba di così alacri e minuti vassalli, e venuti in tanti – rimasti nel vicolo come fumo… Si fece, raspando adagio dentro scacchiere di sabbia, presente un rizoma; storti dal reuma, artigli balzarono incespicando, a scovare da un otro le conchiglie; falangi furono rilevate, di diti melomani, pratichi nella scelta d’un’erba villosa, calcati, in un continuo tremito, contro un occhio gessoso che non finiva più, provandosi a vedere, d’essere schizzato fuori d’una pelle adesiva, albina, analoga a quelle palpebre dell’arara che si stava, sopra il trespolo, spollinando – ma vizza, quella pelle”. Questo è l’incipit di Giornata di fantasmi, prosa sonnambula del 1931, che narra di gite labirintiche nei cimiteri d’Egitto. Alcuni paragrafi s’incagliano sul volto: la prosa di Ungaretti non va capita perché prevalente è l’odore, la geologia verbale, l’estasi di grammatica presa a morsi. “I corvi attaccavano plumbei, e i nibbi, divaganti, si sarebbero detti d’una pomice rovente e, a poterli toccare, forse avrebbero fatto anche alle dita quell’effetto che producevano agli occhi, di oggetti incandescenti, di dubbio peso”.  

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Ungaretti teneva alle sue prose. Nel 1949 le raccoglie per le Edizioni della Meridiana come Il povero nella città. A Giuseppe De Robertis scrive una frase inequivocabile: “Vi troverai alcuni poemetti in prosa che sono, senza dubbio, i più belli scritti in lingua italiana”. Ungaretti aveva ragione – il clima culturale, per così dire, era mutato, senza revoca. L’anno dopo, nel 1950, per Mondadori, esce la sua traduzione dalla Fedra di Racine e soprattutto La terra promessa. Le prose del viaggiatore veggente, del giornalista lirico furono per lo più snobbate, “non riuscirono ad avere territorialità nella letteratura italiana del dopoguerra che cercava nuovi spazi per un’‘epica popolare’ – fosse questa la letteratura nordamericana rivisitata da Pavese o quella delle ‘remote origini’ (Bacchelli) e di presente rinascita cercata da Vittorini o da Silone, o quella ancora del ‘disincanto’ dei quartieri di Pratolini”, scrive Carlo Ossola. In effetti, quel libro perfetto, di parola che non resta sulla carta ma vola con incanto e ferocia di falco, è scomparso dal turbinio editoriale, la ristampa SE de Il povero nella città (1993; con il saggio di Ossola in appendice) si trova per mercatini.

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Eppure, quei brani pieni di bagliori bianchi, scanditi di sciacalli verbali, sono superbi. Questo è Il demonio meridiano: “Il sole già cade a piombo; tutto ora è sospeso e turbato, ogni moto coperto, ogni rumore soffocato. Non è un’ora d’ombra, né un’ora di luce. È l’ora della monotonia estrema. Questa è l’ora cieca; questa è l’ora di notte del deserto. Non si distinguono più le rocce tarlate, tigna biancastra fra la sabbia… Non c’è più né cielo né terra”. Lo leggo alternando squarci dai Cori descrittivi di stati d’animo di Didone:

Solo ho nell’anima coperti schianti,

Equatori selvosi, su paduli

Brumali grumi di vapori dove

Delira il desiderio,

Nel sonno, di non essere mai nati.

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Ossola avvicina i ‘poemi in prosa’ di Ungaretti al prometeico poema di Saint-John Perse: “sin dal 1931 era apparsa su ‘Fronte’ la versione ungarettiana di Anabase (1924)… poème en prose dalle grandi campiture oniriche”. Nelle note che precedono la traduzione di Anabase, Ungaretti scrive che “è uno dei rari esempi recenti di poesia epica”, dove “vale la sete, vale la sollecitazione dei sogni”. Nel 1960 il poeta francese, ornato con il Nobel per la letteratura, sceglie il sodalizio con Ungaretti, omaggiandolo: “Onore a voi, purissimo poeta, di cui l’atto poetico fu innanzitutto testimonianza d’essere umano. Dalla vostra voce propria, ardentemente italiana, voi avete saputo portare all’universalità il grido dell’uomo europeo”.

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In Italia favolosa – uscito sulla “Gazzetta del Popolo” nel 1934 – Ungaretti, vignaiolo dello splendore, intuisce il carisma carnale del nostro Paese rispetto al mistero delle civiltà di sabbia. “Un Italiano nella sua arte, anche parlando di morte, celebrerà sempre la vita. Se sono occhi, saranno immortali perché ridenti e fuggitivi. Noi non abbiamo mai pensato d’abolire il tempo immaginando, come fecero gli Egiziani, un lungo dito d’ombra che ne avrebbe segnato senza fine il vano ripetersi. È un’idea di gente che il deserto circonda. Non mi sono mai meravigliato vivendo laggiù, che quegli Antichi pensassero che il tempo sia vinto dal tempo stesso, e cioè, il tempo essendo una misura, sia vinto dalla sua misura. Meridiane colossali, piramidi, una saetta d’ombra che i secoli non denaturino. E l’eterno? Morte! Mummie nelle fosse orrende di quelle piramidi…”.

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Il ‘pezzo’ più importante di questa raccolta di prose memorabili, Il povero nella città, appunto, è la riscrittura di un articolo del 1931 per un Don Chisciotte pubblicato nel 1947 dalle Edizioni della Conchiglia, con i disegni di Carlo Carrà. Il fulcro del saggio è la figura del faqir, specie di asceta, di mendicante tra i mondi, “non è colui che fachiro s’usa abitualmente chiamare… è semplicemente un povero”. Giunto dalle origini della civiltà dei deserti, che dalla Bibbia sfoga in Arabia, il faqir è “il matto e il povero… l’uomo che non fa conti e non ha vincoli, che è armato d’una forza occulta; l’uomo che governano una debolezza e una forza smisurate; l’uomo che è debole come è uno all’inizio e al termine dell’avventura terrena… ma è anche l’uomo che è forte, l’uomo che testimonia che solo vive chi vede l’Angelo: non si sa che cosa vogliano significare i suoi gesti e le sue parole, e potrebbe darsi che siano semplicemente manie”. Il faqir, “segno vivente del sacro, uno che è libero perché è protetto da gesti e da parole strani, incomprensibili; di più: uno che è sorto a simbolo di libertà”, è forse Cervantes, forse Chisciotte, di certo è emblema del poeta, l’uomo che richiama alla ferocia del vagabondaggio, che tiene dialoghi coi morti, che con una parola potrebbe disintegrare una città, ma desiste, la inghiotte in un riso, preferisce tenere tutti sotto incanto, s’incarica dei desideri e delle agonie di tutti. (d.b.)

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